di Nino Giaramidaro
I pulcini con il loro pio pio contrastavano l’ansimare pesante della locomotiva che si avvolgeva anche in spire di fumo biancastre e basse. Erano scesi quasi tutti i passeggeri del piccolo treno che doveva attraversare due province e da Castelvetrano giungere a Porto Empedocle. Le contrattazioni rubavano solo minuti all’orario che il capotreno sapeva, malgrado le fermate ancora da venire, far aderire al le coppie di conigli a testa in giù erano già salite in prima classe; c’era la pàpara vociante e la gallina che starnazzava e faceva vento con le ali pure all’in giù. Le alacce, che recitano la parte di sarde e sardelle, sono tutte in carrozza, molte delle quali in attesa che i macchinisti trovino il posto sicuro per addobbare una piccola fornace dove arrostire le sarde/alacce, gli sgombri, il lappano, l’antico sàvuru e il ritunnu scappato ai trapanesi.
Non posso ricordare in quale fermata questi traffici avvenissero ma si vedeva il mare con quella specie di nebbiolina da miraggio che muoveva senza chiasso sull’orizzonte dietro al quale si nascondeva la vita di Susa, l’estate a ridosso delle grandi mura e dei vestiti di lana scura. E di Nabeul, e di Monastir e di Mahdia. Il trenino fischiava arrancando anche lungo il verde della macchia: tutto con gli eleganti nomi di Linneo che la vulgata popolare traduceva però nelle parlate costiere: cannizzola, arvuli senza fruttu, olivu sarvaggio, fratta, addauru, zabbari; esempi, soltanto ipotesi fra una miriade di piante e verdure che ognuno chiamava secondo il suo lessico familiare.
Le signore di pregio con il vestito nero, la pettorina bianca sino al collo, le scarpe invisibili e le mani indaffarate con un cuscinetto ricamato che avrebbe protetto la seduta sul legno oramai levigato e duro dei sedili, erano messe in una fila silenziosa.
Contrada Belice di Mare, dalle carrozze “omnibus” – ovvero riservate ai viaggiatori – quasi tutti si sporgono a guardare, prima e dopo l’attraversamento del ponte di ferro, quel che si vede del tempio G, del “Fuso della Vecchia” e dell’altro, quello C, in alto. Il treno, al limitare di questo pianoro disabitato, zeppo di colonne e colonnati riversi, sembra rallentare, ridurre ancora la sua scarsa velocità per consentire ai turisti di sbirciare sul complesso archeologico più grande d’Europa.
I vetri dei finestrini abbassati, l’impressione di capovolgersi sulla curva verso sinistra e il ritornare in pieni sensi sotto la zaffata di nerofumo che segue lo stridore del fischio. Era bello appassionarsi a quel vai e vieni frivolo valigiato e compunto su quei pochi metri di banchina dove il berretto d’ordinanza spuntava e scompariva fino a quando il fischietto, pure regolamentare, faceva sentire la sua autorità. E ci metteva tutta la forza che aveva il locomotore (locomotiva) per riprendere la tratta, alle volte con iniziali contraccolpi che sembravano rovinosi ma che annunciavano invece una salita verso squarci paesaggistici da affollamento al finestrino, sia alle previste fermate sia a quelle impreviste con i cordiali saluti di contadini e pecorai che offrivano i loro prodotti.
Tra marine e campagne si svelavano vedute inattese appena il sipario degli eucalipti, complice un fischio prolungato, stabiliva una tregua. Era anche un viaggio cinematografico senza interpreti principali e con bugie narrate come verità e viceversa: realtà che diventa posticcia, d’altronde della storia di un racconto è vero soltanto quello che l’ascoltatore vuole che sia.
Metà degli anni Quaranta, a Selinunte fervono gli scavi dei tombaroli, alacri saccheggiatori di campagna dediti alla loro micidiale opera, incuranti del fischio del treno e di qualsiasi altro strepito che potesse distoglierli dalla piccozza. Che non di rado cadeva malamente tanto da distruggere il reperto o mutilarlo: testa mani piedi e gambe mancanti, senza rimorso alcuno da parte dei trafugatori.
Erano le ultime stantuffate in mezzo a quella vegetazione dalla quale il treno sbucava annunciato dai fischi, striduli, prolungati ai quali la fauna, anche domestica, non si era mai abituata. A Verdura e sino a Montallegro i panorami diventavano campestri: sterminate distese di gialli, verdi e del rosso delle sulle. Poi tornavano verso il mare; e se lo zefiro aveva la forza di respingere gli odori della terra e il fumo del vapore, si effondeva, democraticamente, fra le carrozze la brezza marina, aspra alle narici e rincuorante. Oramai rimanevano tre fermate e pochi caselli prima che le ciminiere di Porto Empedocle si intravvedessero. Ma la descrizione di quest’ultima parte di viaggio sfuma, diventa ipotetica, vive fra realtà e finzione, come il musicista casellante e sua moglie che voleva diventare pianta. Camilleri accenna ad un sorriso in mezzo al fumo della perpetua sigaretta.
Arrivano le “Littorine” che dalle mie parti si chiamavano “Vittorine”, un omaggio popolare a una speranza andata a male. Viaggi più veloci e meno affumicati.
Que reste-t-il de nos amours? I binari “d’inciampo”, lunghi pezzi di rotaie semicoperti dall’asfalto o dal terriccio, caselli messi a nuovo e venduti non si sa per quali usi, caselli e stazioni abbandonati, iniziative di conversione; e progetti di legge per trenini turistici. Mentre il tempo passa.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
______________________________________________________________
Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. In occasione dell’anniversario del terremoto del 1968 nel Belice, ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate allora nei paesi distrutti.
______________________________________________________________