«M’avete promesso di diventare onest’uomo; io ho comperato la vostra anima; la tolgo allo spirito malvagio e la dò a Dio»[1].
Antonio è un uomo semplice che ha conosciuto precocemente le difficoltà e i disagi della vita. La droga gli è più che familiare così come tutto il serraglio che le ruota attorno. Marito e padre, provvede ai bisogni della sua famiglia con un lavoro onesto: il camionista. Ma un giorno, per motivi che soltanto lui sa e valuterà ‘dopo’, accetta una proposta disonesta e riempirà, stiperà è il caso di dire, il suo camion con una partita di hashish. Pensa di potercela fare; anzi di avercela fatta, quando al posto di blocco l’interesse dell’agente cade sulla vettura dietro al suo camion. Ma non è così; e mentre lui non sa di star vivendo i suoi ultimi istanti da “uomo libero”, la mano della giustizia francese lo afferra e lo getta nell’oscurità della reclusione.
Così Antonio diventa, fortunatamente, uno dei tanti ‘Jean Valjean’ sconosciuti che popolano, anzi affollano, le prigioni del mondo, molte delle quali sono stipate di carne umana, come il suo camion. Così come Valjean aveva ‘Javert’: il poliziotto cattivo, «un cane figlio di una lupa con una faccia umana»[2], Antonio ha “Tic toc”: un “degenerato vigliacco” che abusa fisicamente dei carcerati più giovani e di quelli indifesi: quelli che “non hanno voce”.
Tutto sommato nulla di così “nuovo” si potrebbe contestare. Soprattutto nella nostra quotidianità dove in un solo telegiornale vi sono tante morti e sciagure da fare invidia, appunto, a un ‘romanzo d’appendice’, come si diceva un tempo. Sta qui il punto: perché differentemente dai tanti telegiornali o ‘Servizi speciali’ banali e sciacalli del dolore umano, il libro scritto dall’ex detenuto Antonio Sauchella, Alba di carta. Memorie di una prigionia (Edizioni 2000diciassette, 2022) riesce a dare dignità alle storie di chi è assolutamente insignificante nella vita di tutti i giorni, proprio come i romanzi d’appendice d’un tempo.
La novità di questa autobiografia di un carcerato, consiste anche nella sua triplice testimonianza: di quotidianità del recluso, di una introspezione di “cattivo” tra rimorsi e rimpianti che lo portano quasi al suicidio; e di un riscatto dal proprio passato attraverso la scoperta di Dio. La novità sta pure nell’immediatezza senza alcuna pretesa linguistica delle parole semplici come della sintassi che piano piano le organizza. Ma entrambe sincere. Infine, la novità è leggere, ancora oggi, di un essere umano che nel buio e nel fango morale della sua condizione, parla dei ‘segni della Provvidenza’, così come più di un secolo fa Victor Hugo faceva con altro stile e altra profondità.
Ma il contenuto è lo stesso: Antonio, come Jean Valjean, viene spinto a un cammino nuovo da un uomo che gli offre ‘Luce’ nel mezzo della tenebra dalla quale pensava di non poter emergere. La differenza tra i due sta nel fatto che Valjean la riceve dalla generosità santa del monsignor Francesco Benvenuto Myriel, vescovo di Digne; Antonio la riceve da un altro “cattivo” suo compagno di pena: un ragazzo di Torre Annunziata. Valjean riceve la fede cristiana, Antonio i Cinque pilastri della fede musulmana.
Lo stesso per entrambi è lo strumento di ri-edificazione umana e morale: il lavoro. Antonio lo cerca e lo trova dentro il penitenziario. Da quel momento le ore dei suoi giorni non sono più pesanti e lunghe: non scivolano più lente tra il sorgere e il tramontare del sole «come un macigno che ti stritola». La sua mente riprende a “respirare” ed egli torna a sentirsi utile, ad essere quindi il marito e il padre che provvede alle necessità delle “vittime incolpevoli” dei suoi errori. Comincia anche la via della guarigione attraverso la scrittura che per Antonio diventa, assieme alla preghiera, «[…] un modo per evadere da quella routine grigia e insopportabile, una specie di sollievo ed anche un mezzo terapeutico con cui conoscere meglio me stesso e fare chiarezza sul mio passato e progettare il mio futuro». La scrittura dunque come via di fuga, uscita di sicurezza, ma anche come introspezione autobiografica, presa di coscienza, riscatto morale.
Ancora un’altra comunanza con Valjean: la persecuzione di una giustizia distratta quando non difettosa nel suo fine primario di riabilitare chi ha scontato il suo debito. Appena uscito dalla prigione francese, mentre sogna «ognuna delle piccole felicità che un uomo libero gusta e che sembrano banali» e assapora il ritorno alla sua famiglia, altri due ‘Javert’ gli notificano il mandato di cattura internazionale e lo ammanettano ingiustamente per un errore della procedura giudiziaria. Da quel momento un altro calare dell’oscurità, ma questa volta Antonio riesce a mantenere in vita una ‘luce di speranza’ dentro di sé. Il “cattivo” fortunatamente si è già riscattato.
Il libro di Antonio Sauchella ha il valore e tutto il potenziale di una testimonianza ‘dall’interno e dal basso’. Squarcia il velo su un mondo oscuro e sconosciuto di solitudini, angustie e sofferenze umane, l’universo carcerario che affiora alle cronache nella indifferenza generale solo in occasione dei sempre più numerosi e inquietanti suicidi. Con il suo linguaggio semplice il racconto di Sauchella potrebbe essere un ottimo strumento di conforto e di stimolo ad aiutare se stessi, anche attraverso il potere curativo delle parole scritte, per i tanti, purtroppo, soprattutto giovani, divorati dalla droga e dall’annichilimento psicologico e morale della detenzione. Sarebbe auspicabile che nelle biblioteche dei penitenziari italiani ve ne fosse una copia, così come in quelle di ogni associazione che opera al loro interno, perché anche per questo libro si addice la prefazione, qui postfazione, scritta da Victor Hugo per il suo romanzo:
«Finché, per opera di leggi e costumi, esisterà una dannazione sociale, che in piena civiltà crea artificialmente degli infermi e complica d’una fatalità umana il destino, ch’è cosa divina; finché non saranno risoluti i tre problemi del secolo: la degradazione dell’uomo per miseria, la caduta della donna per fame e l’atrofia del fanciullo per ignoranza; finché, in certe sfere, sarà possibile l’asfissia sociale; in altre parole e da un punto di vista anche più esteso, finché sulla terra ci sarà ignoranza e miseria, libri come questo potranno non essere inutili» Houteville House, 1 gennaio 1862 [3].
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
Note
[1] Victor Hugo, I Miserabili, Casa editrice Sonzogno, Milano, 1922: 15
[2] Ivi: pag. 23
[3] Ivi: pag. 1
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Maurizio Tosco, architetto specializzato in urbanistica e pianificazione territoriale, consolidamento e degrado del calcestruzzo, svolge la libera professione occupandosi di attività diverse comprese tra la consulenza peritale giudiziaria, i rifiuti, l’ecologia, e il fenomeno migratorio africano. Studioso di storia militare, ha recentemente pubblicato L’Immacolata segreta del ‘43. Il misterioso viaggio di Roosevelt a Castelvetrano, nella collana “Controstoria” di 21 Editore.
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