Sempre più spesso, durante le mie escursioni in montagna, mi capita di ascoltare racconti in cui altri camminatori si sono imbattuti in uno dei grandi carnivori in passato scomparsi e ora ritornati nelle nostre terre. A volte si tratta solo di rumori sentiti in lontananza, come nel caso dell’orso bruno, che durante un’ascensione in Abruzzo ha seguito a distanza il gruppo degli amici escursionisti per oltre un’ora, rendendo inequivocabile la sua presenza attraverso borbottii e rumori di rami spezzati. Nel caso del lupo, invece, a volte si è trattato di un vero e proprio incontro ravvicinato, durante il quale l’animale si è mantenuto ad una distanza di sicurezza di qualche decina di metri dall’umano, facendo comunque scorrere un brivido lungo la schiena di quest’ultimo. Ben più rari sono gli avvistamenti della lince, un felino di per sé particolarmente elusivo, la cui ricomparsa ad oggi è testimoniata quasi esclusivamente dalle fototrappole.
Il ritorno dei grandi predatori sui territori montani accende di entusiasmo i cuori degli ambientalisti e di tutti coloro che romanticamente sognano un ritorno del selvaggio e del naturale tra noi. Tuttavia, la presenza di linci, orsi bruni e lupi nei nostri boschi crea anche tutta una serie di problematiche, che in qualche modo impattano nei meccanismi di tutela delle economie montane. È infatti cruciale per la sopravvivenza di questi animali che si riesca a trovare una forma di convivenza più o meno pacifica con le attività antropiche già in atto nei territori da loro ricolonizzati, al fine di non ricadere nelle persecuzioni di cui sono stati oggetti fino all’inizio del secolo scorso, e che avevano portato alla loro completa estinzione quantomeno in Italia.
Questo è particolarmente vero soprattutto per il lupo, un animale da sempre antagonista dell’uomo, in quanto in competizione con lui per il controllo del territorio e per la stessa tensione alla caccia degli erbivori. La relazione tra uomo e lupo esiste sin dagli albori dell’umanità, testimoniata da alcune incisioni rupestri ritrovate in Francia (Font-de-Gaume, Francia, ca. 12.000 a.C.). Il lupo viene rappresentato come l’incarnazione dello spirito della caccia, quindi un’entità benevola da temere e a cui tributare rispetto per ottenere successo nell’attività venatoria. Da allora e per i millenni che sono seguiti, tutte le società preindustriali dell’emisfero boreale, immerse in una dimensione del sacro intrinsecamente connesso con la natura che noi abbiamo invece completamente perduto, il lupo veniva considerato quasi un’entità sovrannaturale in relazione con lo spirito della foresta.
Soltanto con il passaggio alle società agro-pastorali siamo arrivati alla visione tipica del Medioevo del lupo come essere maligno, feroce, bramoso di sangue. Il diffondersi del pensiero cristiano ha ulteriormente esacerbato questa visione negativa dell’animale, che ha iniziato ad essere identificato con le forze del male, in antagonismo con la bontà e la mitezza della sua preda per antonomasia, l’agnello. Dal Medioevo e per tutti i secoli successivi, l’uomo ha combattuto una guerra feroce nei confronti del lupo, non solo sul piano simbolico relegandolo nelle schiere degli animali demoniaci, ma anche su quello della persecuzione concreta, che ha portato alla sua quasi completa eliminazione.
Oggi le cose stanno cambiando e il lupo sta tornando ad abitare nuovamente nei nostri boschi. Molte aree montane, a seguito dello spopolamento più o meno consistente avvenuto nel secolo scorso, stanno assistendo ad un progressivo aumento della superficie boschiva e della cosiddetta wilderness di ritorno. Zone un tempo connotate dalla presenza dell’uomo sono oggi scarsamente antropizzate e questo consente al lupo e agli altri predatori di avere nuovamente a disposizione ampi spazi per la caccia e quindi un habitat ideale per il loro reinsediamento. Il ritorno dei grandi predatori, che si trovano al vertice della catena alimentare, è oggi oggetto di studio per comprendere le ripercussioni a cascata che questo ha sull’ecosistema locale. Secondo alcuni studi realizzati nel Parco di Yellowstone negli Stati Uniti (Rao 2018) pare che il lupo funga da regolatore degli ecosistemi locali, contribuendo a mantenere sotto controllo le popolazioni di ungulati, che altrimenti prolificherebbero in modo incontrollato provocando la scomparsa di altre specie animali e vegetali. Questo sembra dimostrare che la reintroduzione del lupo influisca positivamente sull’aumento della biodiversità.
Tuttavia, il ritorno del lupo resta un tema estremamente controverso. L’economia montana, tradizionalmente fondata sulla pastorizia, si è sviluppata nell’ultimo secolo dando per scontata l’assenza dei grandi predatori, e rimuovendo quindi qualunque forma di protezione delle greggi, ormai abituate a pascolare liberamente negli alpeggi. È quindi facilmente intuibile quanto il lupo sia diventato una fonte di grande preoccupazione per gli allevatori, che hanno iniziato a subire le prime consistenti perdite a causa dei suoi attacchi.
Si assiste allora ad un paradosso. Il lupo è da un lato specie protetta praticamente in tutta Europa, sottoposto ad azioni di protezione e tutela, e di cui si auspica la reintroduzione graduale. Contemporaneamente in alcuni Paesi iniziano a vedersi i primi effetti di tale reintroduzione proprio nell’ambito zootecnico, con conseguenti proteste degli allevatori e pressioni per autorizzare nuovamente la difesa armata da questo animale. È il caso, ad esempio, degli allevatori del distretto di Tarn, nel Sud della Francia, che chiedono di poter utilizzare armi da fuoco per arrestare gli attacchi alle proprie mandrie. Posizioni del genere sono sempre più diffuse nei territori alpini, tanto che si è arrivati alla proposta da parte di un numero significativo di europarlamentari di una specifica risoluzione (successivamente adottata con 306 voti favorevoli anche se questo non garantisce alcuna variazione nell’attuale normativa), che chiede di modificare lo status del lupo, non classificandolo più come specie protetta. Questo per consentirne nuovamente la caccia al fine di proteggere il bestiame degli allevamenti alpini. È chiaro che il tema sta guadagnando grande attenzione politica.
Ma quindi la convivenza tra uomo e lupo è davvero possibile? E soprattutto quanto incide il ritorno del lupo sull’economia montana? È una presenza che rischia di impoverire un settore già di per sé precario, innescando così nuovi processi di spopolamento?
L’Europa ha ben chiaro che se si vuole favorire la reintroduzione del lupo è necessario curare le relazioni con i territori in cui il lupo stesso andrà ad insediarsi. Proprio a questo scopo l’Unione Europea ha finanziato l’interessante progetto Life WolfAlps, nato con l’intento di favorire la coesistenza del lupo con le popolazioni alpine, attraverso il coinvolgimento delle comunità locali nella costruzione di soluzioni e strategie di intervento condivise. Questo nell’ottica che il lupo divenga un abitante ormai stabile dei territori montani. Il progetto ha la durata di sei anni e coinvolge una serie di istituzioni locali di tutti i Paesi che si affacciano sulle Alpi, dalla Francia sino alla Slovenia. Rappresenta un’occasione importante sia per mappare e monitorare la presenza del lupo e il conseguente impatto sulle popolazioni locali, ma anche per sperimentare strategie di gestione di tale impatto che possano portare ad una convivenza il più possibile “pacifica” con questo predatore.
Life WolfAlps sta mostrando risultati molto interessanti soprattutto per quanto riguarda gli interventi di contenimento dei danni prodotti dal lupo nel comparto zootecnico. Sicuramente il ritorno di questo predatore costringe ad un cambio nelle modalità di allevamento attuate finora, che sono figlie di un periodo in cui i grandi carnivori della montagna erano ormai definitivamente scomparsi. Oggi il pascolo allo stato brado o semi brado è diventato nuovamente rischioso e vanno introdotti nuovi dispositivi di protezione del gregge, come probabilmente già veniva fatto nelle forme tradizionali di pastorizia in atto fino ai primi del 1900. Senza sottovalutare la pericolosità del lupo per gli armenti, soprattutto capre e pecore, i dati raccolti da Life WolfAlps evidenziano che accorgimenti molto semplici sono più che sufficienti per scoraggiare il lupo dal prendere di mira gli animali al pascolo. Ad esempio, il monitoraggio in corso nelle valli del Cuneese, in Piemonte, mostra che, nonostante la presenza del lupo ormai stabilizzata in quei territori, il numero di attacchi e di vittime è negli anni diminuito in modo costante a seguito delle azioni di difesa intraprese dagli allevatori (Life WolfAlps 2015). Ciò supporta la tesi secondo cui l’utilizzo di efficaci sistemi di prevenzione e protezione rende possibile la coesistenza tra predatore e attività zootecnica.
A questo proposito la relazione tecnica 2015 di Life WolfAlps ricorda che:
«In linea generale il lupo è un predatore opportunista e modifica le proprie abitudini di caccia a seconda delle situazioni. Dove non c’è custodia degli animali le predazioni avvengono indipendentemente dall’ora del giorno e dalle condizioni atmosferiche, dove è presente l’allevatore o i cani da protezione gli attacchi avvengono per lo più di notte e a carico degli animali che sfuggono al confinamento notturno o al controllo del guardiano. Nelle giornate di nebbia e pioggia, frequenti a settembre e ad ottobre, gli attacchi possono avvenire anche di giorno per la scarsa visibilità con conseguente difficoltà da parte del conduttore nel sorvegliare il bestiame e nel mantenerlo raggruppato» (Report LifeWolfsAlps 2015: 42)
L’utilizzo di razze di cani pastore antagonisti del lupo, come il pastore abruzzese-maremmano, sembra ad esempio essere una strategia particolarmente efficace per scoraggiare l’avvicinamento dei lupi alle greggi. Il mantenimento degli animali da pascolo all’interno di porzioni di territorio recintate da fili elettrificati è un altro metodo molto valido, come altrettanto importante è la presenza dell’uomo in alpeggio, che funge da deterrente all’avvicinarsi dei branchi. Ma il risultato migliore si ottiene quando questi interventi vengono realizzati in modo combinato: in questo caso gli assalti alle mandrie diminuiscono in modo significativo, a prescindere dal numero di lupi presenti nel territorio.
Resta la questione della sicurezza dell’uomo. Il lupo costituisce una minaccia? Nei secoli passati il predatore reale è stato spesso sostituito da un animale immaginario (Rao 2018), rappresentato come un essere malvagio e aggressivo anche nei confronti dell’uomo. In effetti dal Medioevo in poi, sino agli inizi del secolo scorso, nel nostro Paese si sono registrati diversi casi di morti avvenute a causa di attacchi da parte di lupi. Questo dato va però interpretato. Innanzitutto, gli attacchi ad esseri umani sono diventati numericamente significativi a partire da profondi mutamenti avvenuti nel territorio, e in particolare dalla diminuzione sempre più consistente delle parti boschive allo stato selvaggio, che si sono lentamente ma inesorabilmente ridotte in favore di pascoli e campi coltivati. Detto in altre parole, il paesaggio si è sempre più addomesticato, limitando l’habitat ideale per il lupo. Inoltre, le vere e proprie crociate contro questo animale lo hanno reso sicuramente più aggressivo nei confronti degli uomini, che sono stati da qui in poi percepiti come una minaccia reale alla sua sopravvivenza cui rispondere con l’attacco nel caso di avvicinamenti.
Al presente, ovverosia negli ultimi cento anni, invece non esistono casi accertati in Italia di persone attaccate da lupi. Oggi questo predatore mantiene una prudente distanza dall’uomo che resta per lui un essere da evitare. È perciò possibile dire che ai nostri giorni il lupo non rappresenti un pericolo per il genere umano.
Perché allora, se non esiste una minaccia reale, ci rende inquieti sapere che durante le nostre camminate nei boschi possiamo intravedere due occhi gialli che ci fissano tra la vegetazione? Forse questo ha a che fare con la paura ancestrale del selvaggio che alberga da sempre dentro di noi. Da quando abbiamo compiuto la scelta di distanziarci sempre più dal mondo naturale, con l’intento di sottometterlo e addomesticarlo, ci siamo dimenticati che la natura conserva una dimensione di mistero e di pericolo che noi molto spesso, nel nostro apparente senso di superiorità, scegliamo deliberatamente di ignorare. Ammettere il nostro timore davanti ad una foresta buia, ad un mare in tempesta, ad una valanga che precipita a valle, ci fa percepire tutta la nostra fragilità e piccolezza, un sentimento che per l’uomo del nuovo millennio risulta scomodo. Ma forse questo ci consente per un attimo di provare di nuovo quel rispetto e quella reverenza verso la magnificenza dei fenomeni naturali, grazie al quale possiamo ritrovare il nostro posto all’interno di un mondo di cui, volenti o nolenti, facciamo parte e da cui dipende la nostra stessa sopravvivenza.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
Riferimenti bibliografici
AaVv. 2015. Tempo di lupi – La storia di un ritorno, Mostra itinerante del progetto LIFE WOLFALPS.
AaVv. 2015. Relazione tecnica. Sistemi di alpeggio, vulnerabilità alle predazioni da lupo e metodi di prevenzione nelle Alpi, Progetto LIFE WOLFALPS.
Rao, R. 2018. Il Tempo dei Lupi. Storia e luoghi di un animale favoloso, UTET, Milano.
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Chiara Dallavalle, già Assistant Lecturer presso la National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia Culturale, collabora con il settore Welfare e Salute della Fondazione Ismu di Milano. Si interessa agli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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