di Marina Castiglione
Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici, noiosi, odiosi, insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce.
(Lettera a Ezio Palombo, 25 marzo 1955)
Come ad ogni anniversario milaniano, soprattutto se forgiato su un numero tondo, inevitabili e altrettanto tondi/tonti arrivano i commenti dei detrattori [1]. Quest’anno, in occasione del centenario dalla nascita del priore di Barbiana, un articolo su «La Verità» (26 maggio 2023) di Marcello Veneziani ne fa il padre ignobile del pessimo stato di salute della scuola contemporanea. Agli insegnamenti del non mite sacerdote [2] di ascendenze nobili e natali accademici (era nipote del filologo Domenico Comparetti) vengono ascritte, se non nelle intenzioni, nelle conseguenze, le peggiori nequizie non soltanto della scuola odierna, ma persino dell’intera società. Così afferma Veneziani:
«La scuola di oggi che onora don Milani e non certo il modello della scuola di Gentile, fa assai più schifo della scuola di allora; non premia i meriti e le capacità, non educa, non stimola alla cultura e non suscita spirito di missione nei docenti; non produce affatto alunni più liberi ed uguali. È una scuola che ha ingigantito le distanze tra ricchi e poveri; sfasciata la scuola pubblica, i benestanti hanno mandato i loro figli alle private. Se togli i meriti resta il censo, resta quel che ti dà la famiglia».
Nella superficialità necessaria di un articolo giornalistico, ma fuorviante per chi non conosca l’opera e il pensiero milianiano, si tace del rapporto di sequenzialità tra le pagine di Lettera a una professoressa, frutto di un’interessante esperienza di scrittura collettiva degli studenti del micromondo popolare di Barbiana, e lo stato della scuola odierna [3]. Veneziani, nel proporre il parallelismo, pensa forse che l’assenza di merito (parola oggi quanto mai sottoposta a torsioni semantiche che ne ribaltano il senso) sia ascrivibile ad una delle prescrizioni della scuola utopica dei giovani allievi di Barbiana: “non bocciare”. Quella prescrizione era frutto di una ribellione etica ad una scuola classista e nasceva dalle condizioni contingenti in cui l’intero sistema scolastico rispondeva agli ultimi e ai figli delle classi sociali subalterne.
La prescrizione, infatti, non comprendeva il sottinteso diktat odierno “Insegnanti, attenzione! Se bocciate non si arriverà a costituire la classe per il prossimo anno e verrete trasferiti!”; non nasceva da una stanchezza professionale per cui si sente sempre più spesso “ma chi me lo fa fare di oppormi al dirigente che vuole fare bella figura con percentuali bulgare di promossi!”; non era frutto di paure dettate da possibili ricorsi da parte dei genitori, sempre più pronti a difendere il lassismo dei pargoli, nell’assenza di garanzie, invece, per i docenti e per la loro professionalità (gli ultimi casi di cronaca con aggressioni fisiche ai docenti ne sono un riscontro sempre meno occasionale); non era conseguenza del difficile compromesso tra il detto “meglio un asino vivo che un dottore morto” e le considerazioni sulle evidenti difficoltà dei giovani pre- e post- pandemia da Covid19 a gestire un piccolo e occasionale fallimento.
Assai distante era, infatti, la concezione educativa di don Lorenzo Milani dal lassismo e dagli accomodamenti. Essa era impregnata di una pervicace volontà di far diventare scuola il mondo, con la sua storia e le sue ingiustizie, con le sue bellezze e le sue storture. Una immersione totale, un impegno assoluto che lo stesso don Milani elevava a “ottavo sacramento”, in cui insegnare «cose utili, quelle cose che il mondo non insegna, sennò non va bene» [4]. Tale immersione non prevedeva sabati né domeniche, feste né ricreazioni, balli in discoteca né passatempi fini a sé stessi. È vero che quella scuola non pretendeva grembiuli né voti, come si stigmatizza nell’articolo, ma perché a Barbiana era possibile verificare i propri passi avanti nella comprensione e nella conoscenza con piena evidenza di tutti e con un confronto che si estendeva a quella che oggi chiamiamo “società civile”. I venerdì, ad esempio, erano dedicati ad una apertura verso l’esterno, con lezioni e conferenze programmate in cui era possibile, senza timidezza e vergogna, parlare di diritto con noti avvocati; animare dibattiti di filosofia, diritto sindacale, capitalismo, politica, diritti costituzionali; fare domande al sindaco Giorgio La Pira.
Che poi don Milani potesse essere un accondiscendente “insegnante-amico” (strada su cui, secondo il giornalista, lo seguivano i suoi “seguaci sessantottini”) è negato non soltanto dalle testimonianze di chi frequentò la sua aula [5], ma anche dalle stesse dichiarazioni del priore di Barbiana [6].
Figura complessissima, don Lorenzo Milani non faceva sconti a nessuno, neanche a sé stesso e in quel momento storico riusciva a incarnare contemporaneamente il passato e il futuro. Sicuramente non faceva sconti ad una società borghese dove l’ossequio a regole scritte e non scritte serviva esclusivamente a costruire una società a misura di facciate e sepolcri imbiancati: «Quasi tutti gli intellettuali borghesi sono i nostri nemici». Guardare negli occhi i ragazzi di quel piccolo borgo rurale dimenticato, lo mise a diretto contatto con una meditata pedagogia che si fondava sì sull’appartenenza a quel mondo contadino, ma per viverlo come risorsa e non come gabbia e, per chi volesse, per emanciparsene:
«Un uomo della sua intelligenza ha capito subito che il problema di Barbiana era la comunicazione, la distanza, l’isolamento in vetta a una montagna. La sera stessa ha messo su una scuola, ma per prendere la patente per il motorino. Se ci si ragiona è una grandissima strategia pedagogica. Non potevi attrarre un contadino la prima sera offrendogli Dante, cominciavi ad offrirgli una cosa di cui avevano bisogno, ma la grandezza di don Milani è stato capire che se volevano prendere la patente del motorino dovevano come minimo imparare a leggere, a capire quello che leggevano e a scrivere. Per lui l’emancipazione passava attraverso la grammatica, l’analisi logica, lo studio della storia, per l’acquisizione della parola che non serve a ripetere la cultura del sistema ma a esprimere la tua. A Barbiana restavi perché ci trovavi un uomo di cultura, un intellettuale come don Milani, che ti apprezzava al punto da condividere la tua cultura: non ti diceva ti do quello che ti manca, ma ti do lo strumento per esprimere le cose belle che hai dentro e per conquistarti le cose che puoi imparare. Che cosa c’è di più cristiano?» (E. Martinelli in E. Chiari, cfr. nota 5).
Oggi, in una scuola in cui l’extracurriculare ha inglobato danze e scritture creative, utili per un open day, ma non per una crescita costantemente legata al non perdere tempo prezioso in una fase della vita che è incubatore emotivo e conoscitivo di quelle successive, don Lorenzo Milani reclamerebbe a gran voce il secondo precetto riassunto così dai suoi studenti: “a quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno”.
Ecco, forse Veneziani e i periodici detrattori, dovrebbero chiedersi quali sono oggi in dati statistici sul tempo pieno (che nelle regioni del Sud si attesta ancora intorno al 20%), soprattutto nelle scuole del disagio sociale, nei piccoli centri dispersi sulle aree montane, nelle zone in cui non si tira avanti se in famiglia non ci sono doppi o tripli lavori per entrambi i genitori. Oggi che sempre più spesso la scuola deve essere “bella”, ma non “giusta”. Oggi che paradossalmente si taglia sulla presenza territoriale dei presidi scolastici in tempi di tracollo demografico e che la direzione politica è “meno scuola di qualità per tutti”: meno geografia, meno educazione civica, meno continuità degli insegnanti, meno mense, meno ore di lezione. E in questa deriva con chiare responsabilità politiche: quale sarebbe il ruolo di don Milani?
«La battaglia contro ogni pigrizia fu uno dei cardini di quella scuola. Con precisione puntigliosa, insieme ai suoi ragazzi, don Milani calcolò che, se si considerano i 365 giorni dell’anno, lo Stato offre solo 2 ore di scuola al giorno. Troppo poche per colmare un divario linguistico antico e stratificato, perché i ricchi la lingua erudita la praticano 14 ore al giorno e così non sarà mai possibile raggiungerli» (F, Lorenzoni, Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli, Palermo, Sellerio 2023: 262).
Il primo obbligo di serietà è nell’istituzione stessa, piuttosto. Ma in questi ultimi venti anni abbiamo assistito a modalità di reclutamento ballerine; a concorsi per docenti con domande scorrette; a graduatorie montate e smontate; a precarizzazioni senza accertamento delle competenze; a dirigenti trasformati in burocrati spesso “corte” al seguito, ma che dei funzionari pubblici non hanno l’obbligo di rotazione (e recenti penosi casi di corruzione ne farebbero ritenere valutabile la necessità); a una burocratizzazione asfissiante in cui contano le carte a posto, con accertamenti che non valutano una società profondamente diseguale e oggi fagocitata sempre più da modelli di consumo e di distrazione di massa; a un discount legalizzato a tutto vantaggio di privati, che da un lato sfruttano i docenti e dall’altro pubblicizzano “prodotti”, legittimati dalle riforme degli anni berlusconiani che hanno precisi nomi e cognomi. In tutto questo spaventoso declino di sistema, che non potrà fornire alla società – in nessun settore – cittadini formati e competenti, soltanto la buona volontà di molti singoli resiste, come fiammella e baluardo, come antidoto alla semplificazione del pensiero e alla preminenza del foro sull’arena.
Don Milani accoglieva in rettoria i figli dei mezzadri del borgo di Barbiana, perché voleva che essi riuscissero a rappresentarsi razionalmente le contraddizioni del sistema che pativano sulla propria pelle ed essere in grado di opporsi dialetticamente a qualunque limitazione delle proprie scelte libere. Lui che non faceva studiare musica senza un ascolto attento e analitico che consentisse ai suoi studenti di recarsi alla prima della Scala con orgoglio e consapevolezza [7]. Lui che aveva realizzato attorno alla rettoria una piscina e laboratori artigiani, che consentissero di esercitare il sapere intellettuale con i saperi del corpo e della mano, con un contatto diretto con le cose e la natura. Lui che aveva disseminato il boschetto con cartelloni con gli articoli della Costituzione italiana. . Lui che si interessava di ogni aspetto della vita dei suoi ragazzi:
«Devo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I Care”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”. Quando quel comunicato era arrivato a noi era già vecchio di una settimana. Si seppe che né le autorità civili, né quelle religiose avevano reagito. Allora abbiamo reagito noi» (L. Milani, Lettera ai giudici).
Perché qui si innestava il terzo precetto: “agli svogliati dargli uno scopo”. Ecco che, quando questo scopo diveniva chiaro e tangibilmente raggiungibile, occorreva che l’intera società fosse pronta ad avere o costruire le condizioni per realizzarlo. Accadde? Accade?
Lo stesso don Milani sapeva bene di essere considerato un cattivo maestro: per aver fatto apologia di reato su quella che oggi chiamiamo “obiezione di coscienza” e che è diventata legge dello Stato, sarebbe stato condannato, se non ne fosse sopraggiunta la morte a soli 44 anni [8]. Nessun educatore oggi avrebbe forza e radicalità da condurre battaglie così controcorrente e così profetiche, così fortemente innestate in una missione umana prima che cristiana.
Sebbene, evidentemente, per Veneziani l’abolizione del servizio di leva costituisca uno dei motivi della decadenza della società contemporanea, quell’obiezione di coscienza che don Milani pretendeva come esercizio di libertà di chi volesse portare alle estreme conseguenze il dettato dell’art. 11 della Costituzione italiana, non impediva allo Stato, dell’epoca e di oggi, di valutare altre opzioni: un servizio di volontariato in ospedale obbligatorio e periodico per uomini e donne; una settimana l’anno di protezione civile; formazione alla cittadinanza attiva; ecc.
Eppure, Veneziani ritiene che quella battaglia di civiltà e coscienza «ha prodotto la fine di uno dei pochi luoghi di socializzazione in cui i terroni convivevano coi polentoni, i ricchi coi poveri» e considera le classi dirigenti nate da quella esperienza non all’altezza dei compiti istituzionali.
Personalmente non conosco biografie di allievi (e non seguaci) di don Lorenzo Milani che siedano in Consigli di amministrazione o in sedi parlamentari. Viceversa possiamo ricostruire le biografie di tanti che, figli di quella borghesia consortile e clientelare dei “Pierini” 9, hanno usato legami familistici e cordate politiche come bandiera dei propri presunti meriti. E se la lingua da essi usata è lingua per confondere, annacquare, distorcere è forse perché essi ricorrono alla lingua dei legulei, quella che don Milani osteggiava, quella che non chiama “pane” il “pane” e “vino” il vino”.
Pensare poi che don Milani volesse «La valorizzazione del dialetto e del gergo quotidiano ..,» per far permanere i suoi ragazzi nella «loro condizione di partenza e al turpiloquio delle periferie degradate» è davvero una lettura distorta, e colpevolmente!
L’attenzione verso la lingua in don Milani era, assai prima che si parlasse di educazione linguistica democratica, un fondamento educativo inequivocabile [10] per cominciare a servire una più giusta causa, quella dei poveri, bisognava abbandonare l’uso della parola solenne e astrusa finalizzato alla conquista di pezzi di carta e, viceversa, abbracciare la parola come strumento di eguaglianza non massificante: «La lingua e null’altro» (Lettera a una professoressa, cap. Un fine - § sparisci: 762).
Don Lorenzo, invece, insiste che senza la conoscenza della lingua e di tutti i lessici settoriali, non serve a nulla conoscere l’aritmetica, la fisica, la tecnologia, ossia tutte quelle nozioni che venivano/vengono considerate “utili” al mondo del lavoro:
«Non faccio più che lingua e lingue. Mi richiamo dieci venti volte per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, gliele seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi» (Lettera a Ettore Bernabei, direttore del «Giornale del Mattino», 28 marzo 1956).
Secondo lui, il mondo delle professioni resta escluso a chi non possieda il dono della lingua, a loro, al massimo, sono consentiti lavori umili e mestieri artigiani. Le parole, dunque, costituiscono nella sua esperienza didattica delle chiavi di senso per avere accesso alla complessità dei processi di costruzione simbolica del mondo [11]. Come testimoniato da suoi ex allievi, quindi, dietro ad una parola poteva perdersi per un’ora:
«Una parola da nulla diventava un mondo, ci diceva di dove veniva e come la si può usare e mille frasi diverse in cui serve e tutte le sfumature dei suoi significati e come la si ritrova in altre lingue e come si compone con altre parole e quante altre parole ne deriva, finché s’era fatta mezzanotte e le penne erano ancora da intingere e i quaderni bianchi e la radice quadrata vi prometto che si farà domani…» (B. Ferrini, Ho aperto gli occhi, in “Adesso”, 1 ottobre 1958.).
Don Milani era convinto della necessità di privilegiare la lingua in quanto strumento di evangelizzazione, di comunicazione, ma anche di lotta nelle fabbriche e di discussione nel sindacato. Una lingua non meramente funzionale, ma legata a conoscenze e ad un pensiero autonomo, sì da fare dei suoi ragazzi non «una bestia che disegna», ma «un uomo che disegna».
«Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio: “Non si dice lalla, si dice aradio”. Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola. “Tutti i cittadini sono uguali senza distinzioni di lingua”. L’ha detto la Costituzione pensando a lui» (Lettera a una professoressa, cap. I ragazzi di paese - § senza distinzione di lingua: 697).
L’esempio riportato, dà conto di una certa semplificazione circa il problema dell’apprendimento linguistico. In fondo, i giovani e gli adulti del Mugello erano parlanti madrelingua di una varietà toscana non troppo distante dalla lingua ufficiale e i problemi di comprensione riguardavano più che altro la ricchezza e appropriatezza lessicale, ma la decodifica degli altri livelli era in qualche modo garantita. Le vere lingue “altre” sono il latino e l’italiano aulico della tradizione classica, usato a scuola – secondo Milani – come linea di demarcazione classista. Ma il latino, così come il greco, rientrava in ogni lezione milaniana attraverso l’etimologia e l’approfondimento semantico.
E, ovviamente, lontane, ma non irraggiungibili, erano le lingue straniere: alla base della loro acquisizione, a Barbiana, entrarono però la conversazione con gli studenti allofoni e l’ascolto dei nastri registrati. Fu del tutto rigettato il metodo traduttivo. Possiamo dire senza esagerare che don Milani, fu il promotore inconsapevole di quelli che sono oggi gli scambi Erasmus: egli fu il primo a credere che i suoi ragazzi dovessero imparare le lingue in un ambiente immersivo e per realizzare i viaggi-studio scomodava parenti e amici di ogni nazionalità. Ebbe persino un aiuto economico dal Papa:
«Del resto se il papa non guarisce dal vizio che ha preso di mandarmi 100.000 lire al mese potremo fare questo e altro!» (Lettera alla mamma, 23 luglio 1964).
Ancora oggi, invece, nonostante i finanziamenti, molti studenti continuano a non potersi permettere non una visita di istruzione all’estero, ma neanche in Italia. In ogni caso, Lettera a una professoressa è l’elogio della lingua come strumento di democrazia e equiparazione. A partire dagli articoli 3 e 34 della Costituzione sino alla lettura dei programmi della Scuola Media unificata, don Milani insiste ripetutamente su questo punto e l’insegnamento filtra ai suoi studenti che così scrivono:
«La lingua poi è formata dai vocaboli d’ogni materia. Per cui bisogna sfiorare tutte le materie un po’ alla meglio per arricchirsi la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti solo nell’arte del parlare» (Lettera a una professoressa, cap. Un fine - § fine immediato: 760).
Altre condizioni, a mio avviso, costituiscono l’orizzonte di irrealizzabilità della scuola milaniana: da un lato l’utopia di una scuola onnicomprensiva di ogni altro interesse in cui persino i genitori fanno fatica a entrare, dall’altro la figura unica di un maestro/precettore che diventa anche guida spirituale.
Ma oggi, con giovani sempre più sconnessi dalla realtà e dalla vita socio-politica, sempre più in difficoltà nel costruirsi un orizzonte personale e collettivo in cui realizzarsi, con classi in cui al disagio endogeno si aggiungono nuove complessità dovute al multiculturalismo, il processo educativo milaniano dovrebbe finalmente non costituire più un elemento di contrasto o di equivoci, ma un metodo di denuncia delle diseguaglianze, un metodo responsabile che si assume la responsabilità educativa anche a costo di disobbedire a leggi ingiuste e incoerenti e che educa alla responsabilità nei confronti di tutto e di tutti.
Oggi che anche la Chiesa ha fatto pace con questo prete scomodo [12], seppellito in un boschetto ancora poco raggiungibile a dispetto degli anni trascorsi, torniamo a parlare di scuola pubblica se si ritiene necessario, ma lasciamo fuori don Lorenzo Milani dai nostri disastri e dalle opposte faziosità.
Dialoghi Mediterranei, n.62, luglio 2023
Note
[1] Nel cinquantenario dalla morte, a titolo esemplificativo, Il 26 febbraio 2017 Lorenzo Tomasin, docente dell’Università di Losanna, sul domenicale del «Sole 24 ore» pubblica un articolo dal titolo: «Io sto con la professoressa». E nell’occhiello, a scanso di ogni ambiguità: «Rileggere don Milani».
[2] La personalità incandescente del giovane Lorenzo fu il motivo per cui la sua parabola evangelica si confina in due spazi molto isolati dentro la diocesi di appartenenza, San Donato di Calenzano e proprio Barbiana nel Mugello. Il prezzo dei suoi eccessi verbali e dei suoi scontri con gli altri parroci, gli costò un esilio a cui comunque obbedì cristianamente.
[3] Si sa che di vere e proprie ‘opere’, cioè di libri a sua firma, Milani ne pubblicò solo una, Esperienze pastorali, frutto del periodo di apostolato svolto dal 1947 al 1954 a San Donato di Calenzano. Oggi tutte le lettere e gli interventi, compreso il testo uscito postumo come “Scuola di Barbiana”, ossia Lettera a una professoressa, sono apparse nella collana I Meridiani della Mondadori: nei due tomi di quasi 2800 pagine complessive sono comprese Tutte le opere di don Lorenzo Milani. «Fa sorridere che uno come lui, insofferente agli “argomenti spirituali e ‘formativi’” (tomo II: 153) e per il quale “la problematica di sé stesso” è una malattia da signori (II: 336), venga catalogato fra i Classici dello Spirito, nome della serie interna alla collana. Ma prevale il sollievo per l’evento in sé. Era ora», S. Vecchio, Lorenzo Milani, un classico del Novecento, in «Segno» maggio/giugno 2017, dossier allegato: L’I Care di Don Milani e la scuola oggi: 38-44.
[4] In L. Milani, Anche le oche sanno sgambettare, C. Galeotti (a cura di), Millelire, Stampa alternativa, Roma 1995. Il testo è la trascrizione di una discussione avvenuta nel 1965. Cfr. E. Curzel, Bestemmiare il tempo. Don Milani, profeta antipatico, contro le discoteche, in «Il margine», 1996 (6): 27-29.
[5] A seguito di questa ennesima polemica, è intervenuto anche il settimanale «Famiglia cristiana»: E. Chiari, https://www.famigliacristiana.it/articolo/edoardo-martinelli-su-don-milani-altro-che-scuola-facile-a-barbiana-abbiamo-imparato-a-scrivere-e-a-ragionare.aspx (03/06/2023).
[6] Ad esempio, in una lettera a a Mario Gozzini (20 ottobre 1953), così scrive a proposito di un suo studente: «L’ho portato al diploma di 3ª commerciale tutto a furia di urlacci, legnate e un calamaio sul capo».
[7] Il priore voleva che i suoi ragazzi si aprissero al mondo attraverso esperienze significative e contatti reali: quando, però, ottenne i biglietti per portare i ragazzi ad ascoltare la Bohème, don Milani restò fuori perché la Curia di Milano vietava l’ingresso alla Scala ai preti.
[8] Don Milani viene accusato di apologia di reato per la pubblicazione della Lettera ai cappellani militari, in cui giustifica l’obiezione di coscienza; la lettera viene inviata a tutti gli organi di stampa, ma sarà stampata in maniera integrale soltanto da Rinascita diretto da Luca Pavolini. Il 14 dicembre si svolge la prima seduta del processo a cui non potrà partecipare per motivi di salute. Decide quindi di inviare una lettera ai giudici a sostegno della sua azione che non va intesa come incitamento alla diserzione, ma come forma di rispetto alla Costituzione. Cfr. L. Milani, Lettera ai giudici. Il 15 febbraio 1966 don Milani viene assolto dal tribunale di Roma perché “il fatto non costituisce reato”. Il 15 dicembre 1966 si apre il processo d’Appello. Il 5 ottobre 1967 la Corte d’Appello di Roma condanna Pavolini per apologia di reato e per don Milani dichiara il non luogo a procedere per la morte del reo.
[9] In Lettera a una professoressa Pierino è il prototipo del “figlio di papà”, mentre “Gianni” è il figlio del contadino.
[10] Ma in questi anni anche il padre della Educazione linguistica democratica, Tullio De Mauro, ha dovuto fare i conti con criminalizzazioni più ideologiche che scientifiche.
[11] L. Amenta e M. Castiglione, Leggere la Lettera. Il maestro don Lorenzo Milani 50 anni dopo, Palermo, CSFLS 2017.
[12] Papa Francesco è stato il primo a portare un mazzo di fiori sulla tomba in cui Milani volle essere seppellito con gli scarponi da montagna. https://www.laciviltacattolica.it/articolo/il-sacerdote-don-lorenzo-milani-priore-di-barbiana/
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Marina Castiglione, professoressa ordinaria di Linguistica italiana e Coordinatrice del Dottorato di ricerca in Studi umanistici presso l’Università degli Studi di Palermo, ha svolto corsi di Filologia della letteratura italiana, Dialettologia, Storia della lingua, Pragmatica e testualità. Fa parte del Comitato scientifico del Bollettino del Centro di Studi Filologici e Siciliani e della Rivista di studi “Il nome nel testo”. Curatrice della collana editoriale Diàlektos, Piccola Biblioteca per la scuola con Luisa Amenta e Iride Valenti, che si occupa della divulgazione del patrimonio linguistico regionale per la Legge 9/2011. Direttrice del progetto DASES (Dizionario Atlante dei soprannomi etnici in Sicilia) che compone la sezione onomastica dell’Atlante linguistico della Sicilia (ALS), è impegnata nella ricerca sui lessici settoriali, sulla onomastica letteraria, sulla linguistica testuale. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni tra cui: L’incesto della parola. Lingua e scrittura in Silvana Grasso (2009); Parole e strumenti dei gessai in Sicilia. Lessico di un mestiere scomparso (2012); L’identità nel nome. Profili antroponimici in Sicilia (2019). Nel 2020 è uscita la curatela, insieme ad Elena Riccio, del volume Leonardo Sciascia (1821-1989). Letteratura, critica, militanza civile, CSFLS e Dipartimento di Scienze umanistiche.
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