di Lella Di Marco
Noi continuiamo a dare la parola ai giovani, da un osservatorio un po’ privilegiato come quello di Bologna e, nonostante le notizie poco confortanti dalla stampa nazionale, stiamo incontrando dei giovani estremamente attivi, dotati di grande consapevolezza e voglia di esserci. Un po’ dipende dalle realtà frequentata dalla sottoscritta che giovane non è più, e con tanti anni di attività politica e interventi nelle scuole e nel sociale. Un po’ dipende dal fatto che, nonostante tutto, Bologna è ancora una città piena di giovani, attenti e sensibili, di diverse culture che sono come staccati dall’area urbana in termini sociali ma che vivono il centro e la periferia alla ricerca di spazi dove collocare la loro identità culturale post-moderna, internazionalista, priva di pregiudizi, di posizioni settarie o escludenti e ansiosa di attese e di speranze.
Certo, la situazione complessiva è quella che conosciamo tutti e circola anche la consapevolezza che i mali di oggi non sono calati dal cielo ma frutto di politiche sbagliate, consumate nel passato più o meno recente, penalizzanti per le nuove generazioni che lontane dall’esprimere consenso politico in realtà si interrogano sul proprio destino. La verità è che non sempre i giovani dicono o fanno cose sbagliate: è successo già in passato che hanno cominciato a ribellarsi e hanno fatto tremare i centri del potere.
I giovani aspettano soltanto di essere ascoltati, di avere qualcuno con cui interloquire, ma a chi parlare? e soprattutto con quali risultati? La scuola sembra abbandonata a se stessa, i docenti mal pagati e le università assimilabili a società segrete, scarsi o inesistenti gli incentivi a chi eccelle negli studi e nella ricerca. Ma perché “uccidere” simbolicamente una generazione di ventenni, per non parlare dei preadolescenti e degli adolescenti. Un enorme problema sociale, culturale e politico che non è né di destra né di sinistra, è questione aperta su cui si gioca il nostro futuro, si salva o collassa tutto il Paese. Ignorare o rimanere indifferenti sarebbe colpa gravissima di ogni cittadino. Per questo noi raccogliamo le loro voci, testimonianze di un mondo in fondo poco conosciuto, poco rispettato, poco capito. Specie quello dei figli degli immigrati, nati, istruiti e socializzati in un Paese che ancora non riconosce la loro presenza e la loro identità. Una scandalosa vergogna.
Diego
Sono Diego, ho 32 anni, sono nato a Catania. Da tempo avevo un fuoco dentro che facevo fatica a gestire: volevo dire la mia su come si comportavano le istituzioni nei confronti delle persone giovani, su come il sistema accademico di qualsiasi grado li trattava (me compreso), su tutte le sofferenze e frustrazioni che vivevo in me e vedevo anche nelle persone mie coetanee che mi circondavo e lo volevo dire con una certa libertà. Finalmente adesso posso parlare grazie alla scoperta di questo spazio offerto dalla rivista che mi dà esattamente questa opportunità con la libertà da me desiderata e che ringrazio moltissimo.
Ho avuto l’immensa fortuna di crescere in una famiglia felice e sana che mi ha dato molte possibilità, alcune di queste avendo anche l’opportunità di sceglierle direttamente. Sono stato abituato allo sport (ho praticato per svariati anni il nuoto, giocavo spesso a calcio con amici e ho conosciuto il tennis), quello sano, divertente e sociale; mi hanno sempre stimolato dal punto di vista culturale: sono stato abbonato ai migliori programmi teatrali, cinematografici e alle migliori stagioni di concerti della mia città per svariati anni; ho suonato la chitarra che poi ho abbandonato (non mi ha lasciato granché, adesso non saprei neppure da dove cominciare) e anche il sassofono, un bellissimo strumento che prima o poi riprenderò, dovessero passare cento anni (lì sì che saprei da dove cominciare); ho conosciuto il bellissimo piacere della lettura appassionandomi a scrittrici e scrittori più o meno consigliate e consigliati.
Ho avuto la possibilità di vedere il mondo fin da piccolo: sono stato in Grecia, Tunisia, Egitto, Turchia, Spagna, Francia e Inghilterra e questi sono i luoghi di cui ho memoria ma non gli unici che ho visitato. Sono stati tutti viaggi di piacere ad eccezione della Francia che è stato prima di tutto uno scambio interculturale della durata di tre mesi (durante il 4° anno di liceo) tramite l’associazione Intercultura altrimenti chiamata AFS a livello europeo. In quell’occasione sono stato accolto da una bellissima famiglia, ho creato delle bellissime seppur brevi amicizie mentre con la scuola mi son trovato meno bene.
Contemporaneamente alla mia partenza la mia famiglia ha dovuto ospitare necessariamente per un anno accademico una persona sempre facente parte della stessa organizzazione, così quando tornai ho condiviso la mia stanza per i successivi sei-sette mesi con un ragazzo proveniente dalla Svizzera col quale ho legato tantissimo. Quest’esperienza è stata una delle due che mi ha cambiato profondamente e positivamente a livello umano tanto che le relazioni create in quest’occasione hanno prolungato lo scambio culturale anche dopo il mio ritorno a Catania. Invece la prima delle due mie esperienze per me fondamentali cominciò all’età circa di 13-14 anni quando decisi di impegnarmi nel gruppo della Ong Emergency della mia città (Gino Strada era e rimane il mio unico idolo) e sempre grazie al supporto familiare intrapresi un bellissimo viaggio di conoscenza e consapevolezza della mia persona e di una parte del mondo.
Sono arrivato nel gruppo Emergency di Catania quando questo era un gruppo forte e sano, composto da persone attive, coese e mature. Ci sono stati due momenti per me di assoluta importanza all’interno di quest’esperienza: l’aver contribuito nel mio piccolo alla creazione di un grandissimo evento che prese sempre più importanza durante la sua organizzazione e per questo ha visto come ospite direttamente Gino Strada e la possibilità di partecipare al convegno nazionale di Emergency, ad Orvieto. In tutte queste dinamiche, queste esperienze sono stato sempre spinto dalla volontà di fare il più possibile del bene a me e alle persone circostanti nell’assoluto rispetto, conoscere e stare vicino maggiormente a persone interessanti, in mezzo a gruppi più o meno piccoli dove mi riempivo di stimoli. Non so spiegare il perché o il quando è nata questa mia volontà, quasi come fosse un’esigenza, una condizione necessaria; semplicemente c’è sempre stata e continua ad essere la mia spinta vitale. Ho imparato moltissimo in qualsiasi contesto ci fosse un contatto umano in qualsiasi forma: conoscendo uno scrittore attraverso un suo libro, vedendo un film di un regista o semplicemente parlando con una persona che in quel momento particolare della nostra vita ci scambiavamo in modo paritario conoscenze e benessere.
Mentre crescevo in tutte queste opportunità si è fatta strada in me l’idea che la conoscenza più importante fosse quella associata alla visione d’insieme: il vedere le cose non come elementi a sé stanti, indipendenti fra loro ma concatenati, facente parte di un’unica sfera. Anche per questo istintivamente cercavo sempre di stare in mezzo a più persone possibili, sentire come pensavano e vedere come si comportavano (anche in base ai pensieri che esprimevano).
Quasi tutto ciò che ho scritto finora l’ho visto e vissuto fino all’età dei miei 18 anni. Poco prima di questi fino a circa i miei 23 anni la mia famiglia ed io abbiamo avuto una serie di lutti e difficoltà che portarono profondi cambiamenti. In questo periodo sono venute a mancare persone fondamentali nella mia vita e non solo: i miei nonni, i miei zii, mio padre e un mio amico. Mi rendo conto che elencare in questo modo i lutti è abbastanza brutale, forse più per chi legge ma ho maturato tutto ciò. I familiari che ho perso per me non ci sono più solamente da un punto di vista materiale, sotto una certa dimensione perché non posso più parlare con loro, ad esempio, ma sono ancora presenti sotto un altro aspetto dimensionale: i consigli, gli insegnamenti e gli esempi che hanno lasciato nella mia vita mi aiutano e aiuteranno sempre, sono e saranno sempre presenti nella mia memoria e nel mio cuore (così che le persone saranno sempre con me in una certa misura). Cerco sempre di metterli in pratica e di trasmetterle alle persone a me care a quelle che già conosco e a quelle che conoscerò, sperando che loro li metteranno a loro volta in pratica così da rendere in un qual modo la memoria dei familiari “persi” immortale.
Almeno così mi piace pensare, sognare. Questi lutti hanno creato diversi squilibri all’interno della mia famiglia che in maniera prima più istintiva, adesso più consapevole, ne sta tuttora cercando uno nuovo. Sempre i lutti hanno creato reazioni a catena che mi hanno portato a venire a Bologna. La morte di mio padre arrivò nel mio penultimo anno di liceo e da lì cominciò per me un periodo di estrema confusione fatto da scelte quasi esclusivamente istintive, non lucide e per questo parte di queste non giuste. Dopo il liceo provai i test di medicina perché avevo il desiderio di lavorare con Emergency come dottore. Provai in simultanea i test di ingegneria edile e architettura in quanto mio padre era ingegnere, un aspetto che avvertivo molto in casa e nella sua persona, inoltre durante le scuole medie ad ogni occasione formale e informale ai miei genitori è sempre stato detto che ero portato per le materie scientifiche. Entrai subito in ingegneria e non in medicina, nonostante ci provai una seconda volta.
Questo corso di laurea a Catania si rivelò fin da subito abbastanza traumatico e negativo, l’ho sempre trovato completamente privo di umanità sia da parte dei colleghi, delle colleghe, che dai professori, professoresse. È stato durante il quarto anno di università, mentre ero in sessione di esame che persi il mio amico. Stavo preparando una materia di gruppo quindi con altri miei colleghi, fra i quali anche mio fratello. Proprio per la mancanza di umanità di cui sopra, tra colleghi e professori non andò per niente bene, non riuscì a dare quell’esame, fortunatamente ne diedi un altro. Da questa bruttissima sessione parlando in famiglia decisi di continuare gli studi di questo corso in un’altra città e per motivi pratici finii per ritrovarmi a Bologna.
Nonostante l’esperienza accademica fino a quel momento negativa decisi di continuare questo corso proprio perché mi ha aiutato ad avere quella visione d’insieme di cui sopra ma non tramite le persone ma tramite lo studio dei libri. Mentre la scelta della città è stata del tutto inconsapevole, non la conoscevo, non mi ero fatto nemmeno un’idea né tantomeno sapevo in cosa mi sarei imbattuto. Ancora i vari lutti facevano ben sentire i loro effetti: mi sentivo una persona abbastanza spenta, non riuscivo ad avere un’idea sulla mia vita e mettevo in pratica delle scelte istintive, meccaniche, che si basavano su aspetti pratici (cosa devo fare adesso?) senza alcuna progettualità. Non riuscivo a fermarmi, a riflettere su di me, a chiedermi cose semplici come “cosa voglio fare?”. Ci ho messo un po’ di tempo a capire che pormi delle domande così semplici erano altrettanto efficaci e mi avrebbero aiutato moltissimo in molte occasioni passate. Sono riuscito fortunatamente a non perdere mai di vista il bene mio e delle persone care a me attorno e il piacere della conoscenza.
Sotto quest’aspetto venire a Bologna per me è stata una fortuna incredibile. Fino a quel momento avevo visto quasi esclusivamente un unico modello sociale e non mi piaceva affatto. L’ambiente accademico che chiedeva sempre più il tuo tempo cercando di disumanizzarti il più possibile e sentivo fin dalle elementari il desiderio di difendere il mio. Lo Stato, sotto le sue svariate forme cercava di importi come potevi divertirti e facendo cosa, condannando qualsiasi alternativa che non avesse come obiettivo il consumo puro togliendoti sempre più libertà di scelta. In tutto ciò una comunità sempre più lacerata dalla fatica, sempre più diffidente e giudicante nei propri confronti. Vedevo le persone che parlavano sempre meno in modo sincero tra loro e si allontanavano creandosi anche
dei pesi letteralmente inutili.
Fra l’altro tutti questi aspetti ad oggi della società non solo non sono diminuiti ma si sono acuiti e rafforzati diventando più costanti e sistematici. Per questo non mi sono mai riconosciuto nelle istituzioni, nel loro potere coercitivo e tuttora cerco sempre di mantenere la mia identità ben distinta da loro e diffido da qualsiasi forma istituzionale. Nonostante ciò, non le ignoro, anzi nel mondo in cui viviamo, per com’è strutturato è necessario sempre dialogare con loro (se non ti viene data l’opportunità di dialogo te le crei). E nei tempi che stiamo vivendo bisogna essere forti e risoluti nell’assoluto nome della non violenza (ne sono un sostenitore, soprattutto dopo aver letto Teoria e pratica della non-violenza di Gandhi) nel cercare e crearsi qualsiasi forma di dialogo con loro e ragionare insieme sugli errori che si stanno commettendo.
Arrivato a Bologna ho avuto modo di entrare in contatto con realtà che parlano e ragionano su modelli di vita alternativi e tentano di metterli in pratica in svariate modalità, su svariati aspetti (sessuale, economico, sportivo, accademico, etc.). Fu anche un’occasione per riprendere vecchie dinamiche che hanno sempre fatto parte della mia persona che avevo accantonato per troppo tempo e che mi hanno ridato linfa vitale: ovvero conoscere persone, vivere le assemblee ragionando e discutendo insieme su obiettivi comuni e concordati. Così ho avuto la fortuna a mia volta di creare una di queste realtà ovvero il collettivo di boxe chiamato “Boxe popolare Lupo Rosso” con persone ormai per me amiche indimenticabili. Tramite questo collettivo ho conosciuto altre persone fantastiche (oltre a vivere esperienze bellissime) e diverse da me che mi danno quotidianamente molto e adesso dopo un anno e mezzo circa posso dire che questo collettivo è in ottima forma (diversa dalla mia, aspetto per me molto importante) anche se mi assento, continuo comunque a farne parte.
Tutte queste realtà che ho visto, in tutte le dinamiche collettive che ho vissuto ho sempre identificato un filo rosso (in misura diversa a seconda della realtà) ben visibile che ho sempre cercato (come già più volte detto) di mettere in pratica fin da piccolo: la ricerca del benessere personale e collettivo nel rispetto della realtà che ci circonda. Così finalmente molte idee che circolavano nel mio cervello con una massa informe e non definita adesso sono precise e nette, diventate capisaldi della mia persona. E questo lo devo all’aspetto fondamentale di essermi riconnesso al tessuto sociale che mi circonda, alle persone in carne ed ossa (ma non solo!). Ho parlato con persone molto diverse da me ma anche tra loro che mi hanno aiutato a riflettere, a migliorare e mi hanno dato strumenti e possibilità per entrare in contatto con una cultura fondamentale per conoscermi al meglio e vivere meglio.
Vedo un futuro sempre più nero, fatto da governi sempre più incapaci ed istituzioni sempre più violente e prevaricatrici, sempre più diritti vengono a mancare, sempre più libertà viene negata. Ma vedo anche un mare di possibilità e la capacità di trovare nuovi modi per vivere meglio nel rispetto di tutto ciò che ci circonda. E gli aspetti che ho riconosciuto fin da piccolo come fondamentali nel fare questo, tanto nella mia famiglia, quanto nelle persone e dinamiche che ho conosciuto sono abbandonare quelle zavorre mentali che rappresentano i pregiudizi, parlare a cuore aperto con noi stessi e tra di noi e condividere progetti ed obiettivi comuni non prevaricatori ma difensori della libertà e del benessere individuale e collettivo.
Ovviamente mi rendo perfettamente conto che parlare schiettamente e non avere pregiudizi non è facile, soprattutto nel mondo che stiamo vivendo adesso pieno di ignoranza e diffidenza. Anche perché bisogna avere più consapevolezza di sé possibile e anche della realtà che si vive. O forse queste difficoltà che abbiamo nel porci domande semplici, nel conoscerci meglio e nel parlare a cuore aperto non sono altro che dei limiti nati una volta adesso diventati mostri imbattibili nel tempo che ci
siamo creati noi stessi?
Io ho molta speranza nel vivere in un modo migliore tanto per me quanto per le persone a me care ma bisogna muoverci, lottare (in un modo assolutamente non violento per quel che mi riguarda) se necessario non da soli ma insieme stando e rimanendo connessi sempre di più. Conoscersi e parlare, parlare e conoscersi. Infatti a tal proposito non mi è mai piaciuta questa fuga di giovani che sono andati via. Molti miei colleghi e colleghe sono andati e andate via da questo Paese prima o dopo il corso di laurea e nonostante ne capisco i motivi (anch’io ci ho pensato, anche a me è stata data questa possibilità) ho sempre avuto la percezione che fosse una presa di posizione non costruttiva fino in fondo per nessuno. In tutto ciò non ho mai perso di vista l’obiettivo che mi ha portato a Bologna ovvero quello di laurearmi in questo corso di studi e per questo ho chiesto aiuto visto le difficoltà crescenti (sia personali che esterni); così seguo un percorso terapeutico e ho trovato una soluzione per continuare a permettermi di rimanere qua dal punto di vista economico visto la situazione relativa ai costi degli affitti e gli aumenti dovuti alla guerra nella totale assenza delle istituzioni.
Nel frattempo, resisto e la laurea si fa sempre più vicina, sperando di tornare nella mia città e contribuire alla creazione di un ambiente migliore per me e la comunità che mi starà vicina. Ringrazio le persone che mi hanno supportato, che mi stanno supportando (anche a loro insaputa) e che mi supporteranno.
Alice
Mi chiamo Alice Andreea Asztalos, ho venticinque anni e sono nata in una piccola cittadina della Transilvania, in Romania. Nell’estate del 2007, all’età di nove anni, ho raggiunto mia madre in Italia, trasferitasi qui per assicurare a me e mio fratello un futuro migliore.
Ho frequentato parte della scuola primaria in Italia, proseguendo con la scuola secondaria di primo grado e completando i miei studi ginnasiali presso l’Istituto Linguistico “Sophie Scholl” di Trento. Dopo aver conseguito il diploma, ho lavorato per circa un anno come barista, studiando per superare il test di ammissione all’università. Mi sono laureata nell’estate del 2022 in Filosofia all’Alma Mater Studiorum di Bologna, proseguendo subito dopo nello stesso ateneo con la Magistrale di Scienze Filosofiche.
Prima di iscrivermi a Filosofia ho tentato di entrare alla facoltà di Psicologia, senza alcun successo per due volte di fila. L’ho sempre preso per un segno del destino, e ne ho avuto conferma dalle prime lezioni di filosofia che ho seguito. La costante ricerca di risposte, le molte domande che mi ponevo e mi pongo tutt’ora, le divergenze di pensiero e altro ancora mi hanno indirizzata verso la scelta di questa facoltà.
Attualmente, oltre allo studio, lavoro presso un bar a Bologna in un ambiente giovane e multiculturale. Non ho avuto grandi difficoltà nel conciliare studio e lavoro, dato l’orario lavorativo notturno e le lezioni o lo studio diurno. Certo, il tempo da dedicare alla socialità e allo svago è ridotto, ma non eliminato. Per avere una certa indipendenza e per non gravare troppo sulle tasche dei genitori è stato necessario trovare un lavoro part-time.
Non ho mai riscontrato problemi vivendo in Italia da straniera. Sono stata e sono tutt’ora molto fortunata in quanto non sono mai stata vittima di razzismo o di altre discriminazioni. Mi sento assolutamente inserita, tant’è che mi sento più italiana che rumena. La mia forma mentis, inevitabilmente, ha una matrice italiana. Non ho mai notato atteggiamenti critici nei miei confronti per via della mia provenienza, né in passato né nel presente. L’unica caratteristica che mi manca per essere italiana è la cittadinanza che sono in procinto di richiedere e per la quale l’iter è alquanto lungo. Certo, molte volte mi è capitato di rispondere alla simpatica e fatidica domanda di amici, conoscenti e compagni, ovvero “In che lingua pensi e sogni?”. Spoiler: italiano.
Per me l’Italia non è più il Paese straniero che conobbi nel 2007, non mi sento e non mi si dà modo di sentirmi straniera qui. Posso assolutamente affermare di sentirmi più straniera nel Paese in cui sono nata. La cultura e le tradizioni di questo Paese fanno parte di me. Non so cosa mi riserva il futuro, ma non lascerei l’Italia con serenità.
Certo, l’attuale scena politica è a dir poco problematica, il timore per un futuro meno inclusivo e dal pensiero unico è diffuso e presente. Tuttavia, ho grande fiducia nella maggior parte delle mie coetanee e dei miei coetanei che davanti a decisioni politiche, economiche, sociali e climatiche non stanno fermi a guardare. Certamente il malessere giovanile è preponderante in questi ultimi anni, sono molti coloro che richiedono l’aiuto psicologico scolastico e universitario, richiesta che però non trova facilmente risposta date le lunghe attese per poter ricevere sostegno. Gli studi parlano chiaro: 4 adolescenti su 10 rilevano sintomi di ansia, depressione e isolamento. Siamo davanti a un’emergenza di salute mentale giovanile che richiede un pronto intervento delle istituzioni e maggiori fondi per far fronte e per recuperare i molti giovani in difficoltà. Se da una parte la maggioranza dei giovani è in questa situazione, dall’altra, nonostante tutto, essa lotta contro una realtà politica e sociale deludente.
Tuttavia, in alcuni casi, i giovani d’oggi vengono tacciati per fragili e insicuri. L’atmosfera che respiro tra di noi è un coscienzioso risveglio, una voglia di rivincita sulle vecchie idee, abitudini e pregiudizi che finora hanno caratterizzato le vecchie generazioni. L’eredità lasciataci parla di diritti negati, misoginia e desiderio di possesso, femminicidi, disastri ambientali e ferite interiori personali mai curate. Se i giovani d’oggi si sono accorti di tutto ciò e cercano di trovare delle soluzioni valide, allora, mi chiedo io, come si può arrivare a denominarli ‘fragili’?
Non mi è facile rispondere a questa domanda in quanto il mio rapporto con il mondo del lavoro è stato minimo e, fortunatamente, senza problemi. Quello che posso dire a riguardo è che lo Stato non sempre difende i diritti dei lavoratori, basti pensare al lavoro in nero, alla disuguaglianza stipendiale tra uomo e donna, alla maggiore difficoltà delle donne di essere assunte in quanto potenziali madri. Ricorderei a proposito l’impegno e la forza delle nuove generazioni nel rifiutarsi di lavorare in nero con la conseguente etichetta di “fannulloni senza voglia di lavorare”, le lotte femministe contro il gender gap e una sempre maggior consapevolezza di come dovrebbe essere un lavoro degno di essere chiamato tale, senza sfruttamento e discriminazione alcuna. Fortunatamente l’Italia è un Paese democratico, un vero punto di forza per poter cambiare rotta dopo aver visto e vissuto scelte politiche di un Paese che tale potrebbe non esserlo più.
I giovani a cominciare dalla scuola sono oggetto di attenzione politica o alla fine prevale chi ha una famiglia ricca alle spalle e quindi può vivere anche senza lavorare. Non mi sbilancerei su uno dei due estremi, c’è da dire però che i capi dei vari partiti politici, a partire dalle scorse elezioni, sono approdati su social come per esempio “Tik-Tok”, segno del fatto che stanno cercando di arrivare ai più giovani parlando la loro lingua, con il risultato di venire derisi e tacciati per ‘cringe’. Credo che vivere senza lavorare non possa portare questi ragazzi su ottime strade, rischiando di perderli tra abuso di sostanze, alcool e malavita.
Siamo nel bel mezzo di molte crisi, a partire da quella climatica che in queste settimane ha colpito molte zone del territorio italiano. Le crisi sono presenti ora come in passato, non ho una risposta o la soluzione a nessuna di queste. Certo è che fino a quando non ci sarà una metamorfosi nel campo dell’educazione e dell’istruzione poco ci possiamo aspettare dal futuro. Non basta introdurre la tecnologia nelle scuole per tenerle al passo coi tempi e allo stesso tempo non riformare la modalità di assunzione dei maestri e degli insegnanti.
Siamo e diventeremo sempre più saturi di tecnologia, ma non di umanità, empatia, profondità e, come sappiamo, la tecnologia in merito non può fare molto. Le Istituzioni sembrano essersi dimenticate il valore che una sana educazione è in grado di apportare alla società. Malavita, prostituzione e illegalità diffusa hanno una matrice sociale comune, l’abbandono degli studi e la mancanza di lavoro regolato e sicuro.
Ripeto, si respira aria di indignazione e voglia di cambiamento tra noi giovani, un’aspirazione a rimettere in questione il modus vivendi e il modo di pensare che ci ha portati a questo punto. Ci stiamo accorgendo di mancanze ed errori del passato ai quali vogliamo apportare modifiche e cambiamenti, ma senza un appoggio da parte delle Istituzioni tutto questo lavoro sarà arduo, ma non inutile.
Rischiamo di andare incontro ad un nichilismo totale se non ritorniamo a noi stessi, alle cose stesse, a relazioni vere che vadano oltre il nostro “indisturbato possesso del mondo”, oltre lo spazio comodo della nostra camera e delle nostre chat. L’interconnessione tecnologica può aiutare le lotte comuni, farci vedere che non siamo soli nelle nostre battaglie quotidiane, ma non risolverà i nostri singoli dissidi. Se da una parte siamo più uniti di fronte alle ingiustizie grazie ai social e al web, d’altra parte rischiamo di perderci singolarmente nello stesso mare. Credo fermamente che i momenti di crisi personale siano il punto di partenza per una splendida fioritura e questo mi permette di essere ottimista per il nostro futuro. Se prima non ci prendiamo cura dei nostri pensieri e delle nostre azioni, allora non possiamo pretendere di cambiare il mondo.
Kevin
Mi trovo in Italia per una scelta fatta dai miei genitori quando ero molto piccolo. Non dico questo perché non sono soddisfatto del luogo dove lavoro e vivo una vita soddisfacente ma proprio per chiarire meglio il mio percorso, quali sono i miei impegni in questo momento, le responsabilità che sento e come vivo le mie relazioni sociali e affettive.
Se devo parlare della mia cultura etnica di appartenenza, il mio riferimento è la Cina, le usanze, la mentalità diffuse in quel paesino della zona agricola dal quale sono partiti i miei genitori per migliorare la loro vita in senso economico. Lavorare con la certezza di poter soddisfare le necessità quotidiane della famiglia. Insomma loro volevano “fare fortuna” lavorando seriamente, senza sussidi o elargizione di danaro come beneficenza.
Noi abbiamo un senso etico molto forte del lavoro e goderne i frutti non è soltanto un fatto materiale. A sottolineare tale concetto mi piace ricordare il valore simbolico del “Secchiello d’oro”’. È abitudine diffusa in Cina che quando guadagni il primo salario, lo conservi, in bella mostra, in casa con orgoglio, ben visibile agli ospiti ai quali mostra che quella è una casa di lavoratori. È come l’acquisizione della certezza che puoi mantenere la tua famiglia e servire anche lo Stato. Per noi il massimo della soddisfazione è poter lavorare nelle strutture statali, come la sicurezza per esempio. Se ogni individuo, cioè ogni cittadino riesce a fare il suo dovere ed è un buon cittadino, anche lo Stato è come rafforzato. Studiare e lavorare nella cultura cinese sono valori primari è chiaro che l’individuo singolo si forma prevalentemente nella realtà sociale in cui è inserito.
Il mio primo rapporto sociale con l’Italia è avvenuto a scuola tra Parma e Reggio Emilia dove i miei genitori hanno subito cominciato a lavorare nella ristorazione, tipo di lavoro che con evidenti trasformazioni continuano a fare nel corso degli anni. Ho frequentato sia il liceo scientifico che l’istituto tecnico, conseguendo il diploma in ragioneria. A diciassette anni ho cominciato a lavorare subito con i miei genitori. Ero il più piccolo ma l’unico dei tre figli ad essere rimasto in famiglia. I due miei fratelli maggiori hanno fatto scelte diverse: uno studia a Forlì per conseguire la laurea in medicina e poi esercitare la professione di medico e l’altro è partito volontario in Tanzania, spinto da motivi di solidarietà umana.
Ci fu un periodo della mia vita in cui pensavo che non appena mio fratello avesse completato gli studi universitari io mi sarei iscritto all’università in Scienze alberghiere e avrei gestito un albergo tutto mio. Poi sono cambiate tante cose. La maggiore conoscenza di me stesso e la percezione dei problemi del mondo mi hanno fatto cambiare idea e oggi a 24 anni dirigo una attività di ristorazione che si è affermata nel tempo, collocata in un posto strategico del territorio bolognese, lontano dal centro storico ma vicino ai centri produttivi del territorio. Il mio locale dove lavorano anche i miei genitori è frequentato da persone che ci stimano e ci apprezzano. Notiamo che la clientela è molto legata a noi e speriamo non deluderla in futuro
Mi chiedi come mi trovo io di fatto cinese a vivere fra italiani, se ho mai sentito avversione nei miei confronti o forme di razzismo o discriminazioni di qualche tipo. In tanti anni qualche elemento del genere affiora. Noi siamo in ordine con tutte le regole sociali ed economiche e di rispetto dei diritti in vigore in Italia. Lavoriamo a pieno ritmo per l’intera giornata, dandoci il cambio nei turni di lavoro al banco. Nessun elemento negativo è mai emerso. Modi gentili e cortesia sono presenti nel rapporto con i clienti, nessun senso di prevaricazione o di comando imposto da parte dei proprietari del lavoro. È successo che qualcuno entrando, visto che siamo cinesi, abbia esclamato: “ecco i soliti cinesi, non se ne può più”, però poi ha alzato i tacchi ed è uscito dal locale senza alcun incidente. Libero di farlo, non costringiamo i cittadini a frequentare il nostro locale. Ho notato piuttosto che un certo senso di razzismo, di respingimento delle persone, è presente fra il Nord e il Sud dell’Italia. Probabilmente è un conflitto antico mai risolto. Non ho conoscenza approfondita della storia dell’Italia.
Come vedo il presente e il futuro in questo Paese? Non mi sembra che le cose in Italia vadano molto bene. Non mi soffermo volutamente sulla questione politica ma mi sembra che ci siano dei settori piuttosto trascurati. La scuola, ad esempio, che è fondamentale per la crescita dei ragazzi per una formazione culturale e umana ma anche per una corretta socializzazione. A me sembra trascurata con una notevole differenza di qualità fra quella privata e quella pubblica. E questo significa poi aumentare le differenze sociali legate alla condizione economica. In pratica chi ha i soldi può frequentare la scuola migliore e poi magari fare la specializzazione all’estero. E la causa di quello che chiamano “fuga dei cervelli”. In Cina la scuola ti dà tutto, dall’istruzione allo svago, alla vita sociale con i coetanei.
Adesso c’è una informazione martellante sulle bande giovanili, sulle loro trasgressioni continue, sugli atti di piccola criminalità e di autolesionismo che si spingono, fino al suicidio. Io vedo ragazzi soli in una scuola fragile e in famiglie deboli. I ragazzi non hanno adulti con cui confidarsi, spesso subiscono torti e nella loro solitudine non hanno la capacità di elaborare le sconfitte o semplicemente le emozioni negative di cui sono investiti.
Non vedo bravi politici in grado di capire che nelle difficoltà globali nessuno può isolarsi ed essere autonomo basandosi sulle proprie risorse. Ritengo che anche i giovani italiani dovrebbero essere con lo sguardo lungo verso l’estero come fosse una salvezza e nello stesso tempo più determinati e disposti a liberarsi dalla gabbia di protezione della famiglia. Uscire da una sorta di provincialismo che pure esiste in Italia, andare all’estero per conoscere altre organizzazioni sociali; serve ai giovani ma anche al paese Italia per un suo sviluppo più all’altezza dei bisogni che emergono.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
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Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’Associazione Annassim.
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