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Alluvioni in Emilia-Romagna. Tra Antropologia e Catarsi

Romagna in treno (ph. Mariangela Vitrano)

Romagna in treno (ph. Mariangela Vitrano)

di Mariangela Vitrano 

In questo articolo mi propongo di scrivere e descrivere in chiave diaristica e, allo stesso tempo antropologica, un evento che, di recente, ha scosso il nostro Paese e dominato le principali testate giornalistiche e i più importanti canali mediatici: le alluvioni nel territorio emiliano-romagnolo. Disastro preannunciato che ha colpito non solo un territorio economicamente e strategicamente rilevante per il nostro Paese ma, più in profondità, anche le sensibilità e la sfera personale di chi l’ha subìto ed esperito con i propri sensi. Nel dare spazio a quanto accaduto tento una lettura alternativa a quella della comunicazione di massa, attraverso una lente più particolareggiante e interna ai fatti, mutuando ciò che ho visto in ciò che sento, successivamente attribuendo un nome, quindi maggior nitidezza, attraverso ciò che studio. Come afferma Concetta Garofalo nel numero 41 di Dialoghi Mediterranei:

«L’antropologo oggi più che mai ha il dovere di interpretare i fatti sociali, partendo dai fatti della quotidianità, per comprenderne la portata culturale e collettiva, restando immune e resistendo al dilagante populismo, al falso dialogismo intercategoriale, affermandosi voce fuori dal coro di massa, di certo settorialismo d’occasione, di certa opinione pubblica di interesse, di certa manipolazione collettiva, di attuale sorda megafonia» (Garofalo, 2020).

In questo senso, inoltre, l’Antropologia e la scrittura si convertono per me in esperienza catartica, più precisamente in strategia terapeutica. Il termine ‘Catarsi’ in psicoanalisi rappresenta un processo di liberazione da esperienze traumatizzanti o da situazioni interiori conflittuali, ottenuto riportando alla coscienza dell’individuo, attraverso varie possibili modalità, gli eventi responsabili, rimuovendoli così dal subconscio. Scrive così, Stefano Montes sul n. 33 di Dialoghi Mediterranei, fondendo insieme sia il concetto prettamente antropologico di auto-etnografia e quello psicoanalitico di catarsi della scrittura, in questo caso etnografica, che convergono in un concetto unico di auto-etno-analisi ipotizzato da Augé:

 «Pensiamo sovente che l’‘io’ sia incarnato da un individuo che, al balcone, osserva il mondo che gli passa sotto gli occhi; pensiamo, ingenuamente, che sia così; in realtà, l’‘io’ è anche ciò che sta al di qua del balcone, alle nostre spalle, persino all’interno del corpo che lo incarna, persino la stessa incarnazione in quanto vissuto e idea. Lévi-Strauss, da parte sua, discuteva giustamente di un osservatore preso nel processo della sua osservazione e da essa inseparabile: in “una scienza in cui l’osservatore ha la stessa natura del suo oggetto, l’osservatore stesso è una parte della sua osservazione” (Lévi-Strauss 1950: XXXI). Un po’ più vicino a noi nel tempo, Augé parla addirittura di auto-etno-analisi. Alla ricerca dei modi in cui si ridefiniscono, nella modernità, le condizioni di rappresentatività del fare antropologico e dei suoi oggetti di studio, Augé fa riferimento a una possibile direzione di ricerca: l’auto-etno-analisi» (Montes, 2018). 

9788869957932_0_536_0_75I principali strumenti di lettura: l’infra-ordinario di Georges Perec e il concetto di antropologia del quotidiano di Billy Ehn e Orvar Löfgren

Nel processo, non mi soffermerò sui momenti di angoscia e paura vissuti, piuttosto sulla concatenazione di riflessioni che ne è scaturita. Lo farò servendomi di uno strumento di lettura molto interessante, ovvero un’antropologia che si occupa di quotidiano e vorrei iniziare chiamando in causa Georges Perec e la sua definizione di infra-ordinario; termine riferito a quella parte delle nostre vite a cui siamo ormai talmente abituati che ci risulta talmente naturale e familiare da essere diventata invisibile, impercettibile. Per questo motivo, come Ehn e Löfgren ci illustrano nell’introduzione al loro saggio  The secret world of doing nothing-, diventa necessario adottare dei metodi specifici per poter tornare a valorizzare l’infra-ordinario, cioè: imparare a decostruire ciò che abbiamo dato per ovvio e guardare con occhi nuovi a quanto pensavamo già di sapere e che davamo per scontato.

Gli autori descrivono questa disciplina come una branca dell’antropologia chiamata etnologia europea, incentrata proprio su elementi di vita quotidiana nelle società occidentali, sia antiche che moderne. Gli antropologi che si dedicano a questa disciplina non prediligeranno quindi, come da tradizione, culture esotiche, lontane, ma scenari quotidiani pubblici e/o privati. Gli studiosi insistono sul fatto che a forza di guardare alle grandi cose, ai contrasti culturali palesi ed evidenti, siamo finiti col confondere ‘the visible for the important’, il visibile con l’importante (Ehn, Löfgren, 2010: 4-5). È così che viene introdotta da Fabio Dei La Materia del Quotidiano, opera che si avvale degli studi precedentemente citati per trasferire anche nel dominio italiano i saperi relativi a questo poco sondato spazio antropologico.

Ravenna, Giardini pubblici, prima dell'alluvione (ph. Mariangela Vitrano)

Ravenna, Giardini pubblici, prima dell’alluvione (ph. Mariangela Vitrano)

Dopo aver introdotto le prospettive dalle quali osserverò e gli strumenti di cui mi avvarrò, possiamo intraprendere questo viaggio ben equipaggiati. Nutro molta affezione per la Romagna, mia terra di adozione, nella quale vivo ormai da circa quattro anni. Punto di partenza per tutti i sogni di un’umile studentessa universitaria siciliana fuori sede; punto di raccolta e di delicata accoglienza di tutti gli sforzi, i sacrifici, le speranze investiti in questo processo migratorio in cui con ansie e trepidazioni si lascia il conosciuto per approdare verso l’ignoto. Questi e mezzo sono stati intensi, ricchi e, a volte, dolorosi come il momento in questione. Mi addolora lo scenario che questa regione sta vivendo, e solo di una cosa mi sento sicura, cioè del fatto che è un po’ di solitudine ciò che mi serve. Ho bisogno di occupare da sola uno spazio fisico, perché mi aiuta a crearne uno mentale tutto mio da poter abitare e osservare, in silenzio. Mi ci vuole tanto silenzio, il rumore delle televisioni e dei telegiornali mi confonde, non mi è mai tanto piaciuto. Le parole servono, ma in alcuni momenti non sono necessarie; in altri anche superflue, di troppo, inopportune, fuori luogo, invadenti, prepotenti, poco bilanciate, poco pensate, poco pesate. Mancano di qualcosa queste parole, e mancano proprio del silenzio necessario per riflettere, per rimettere tutte le emozioni al proprio posto.

9780520262638“Oggi sono stata al supermercato”: l’invisibilizzazione del quotidiano da un punto di vista antropologico e umano.

Banale, scontato, cosa potrà esserci di eccezionale in questo gesto così quotidiano?
Provo a riformulare: oggi sono stata una delle poche persone fortunate a poter raggiungere un supermercato. E lo sono sempre, solo che me ne rendo conto solo oggi; è la prova che sono umana, che mi abituo facilmente alle cose, come direbbero Löfgren ed Ehn le ‘invisibilizzo’, non le percepisco più come importanti, essenziali, fondanti. Percorrendo il breve tragitto da casa (sì, Casa, quella che non ho perso non so esattamente per quale incrocio di fattori ed eventi favorevoli) ciò che sapevo stesse accadendo intorno ha anche preso forma, si è fatto vivido e materiale ai miei occhi, ho dovuto farci i conti. Ho dovuto smettere di crogiolarmi sull’eventualità che non fosse reale.

Sono entrata al supermercato. Ho visto anche gli scaffali vuoti, mi sono sentita più che altro svuotata dentro. Ho trovato quasi tutto ciò che mi serviva, ma dentro sono rimasta vuota. Sono rimasta vuota e io sono una tra le persone più fortunate che non ha perso affetti o sacrifici e attività di una vita. In queste circostanze di emergenza, si profila un inevitabile ribaltamento delle priorità; in automatico ci sono delle cose che acquisiscono priorità rispetto ad altre, e ci sorprendiamo a riscoprire le cose semplici, piccole, elementari, essenziali che avevamo fatto passare dalla parte del non visibile. Ed è questo che mi è successo: ho disimparato l’ovvio, ho re-imparato a vedere l’invisibile.

Ho anche assistito a questo processo da spettatrice, da ‘osservatore esterno’ (se mai ci si possa veramente posizionare all’esterno di una situazione, di un contesto di interazione). Sono stata a Faenza e a Castelbolognese per dare una mano a spalare il fango e ho visto tanta tristezza negli occhi di chi ha perso tutto, ma anche un’enorme forza reattiva aggrappata alle piccole cose, che si rivelano sempre le più potenti, anche se a volte diventano impercettibili ai nostri sensi, invisibili ai nostri occhi. Invece avevamo tutti, per un attimo, smesso di essere ciechi e vedevo persone aggrapparsi a un sorriso, allo stupore per quanta umanità esiste ancora, alla meraviglia del ricevere aiuto senza neanche aver avuto il tempo di chiederlo, alla convivialità che ne scaturisce, ai legami che nascono e/o si rinvigoriscono.

Ritornare a vedere e a ri-conoscere somiglia a un grande processo di rinascita. È incredibile la macchina di solidarietà messa in moto e il senso di comunità che d’improvviso prende forma, si materializza. A tal proposito vorrei proporre un passaggio tratto da un articolo scritto da Stefano Montes in cui vengono introdotte la figura di Boris Cyrulnik (medico, etologo, neurologo e psichiatra francese) e le sue argomentazioni psichiatriche sul concetto di resilienza, che, seppur studiato in un contesto diverso da quello da me descritto, credo possa comunque essere ad esso facilmente applicato.

 «Cirulnik è un sopravvissuto della Shoah e ha costruito la sua psichiatria sul concetto di resilienza, cioè quella capacità che hanno gli individui di affrontare le difficoltà e di superarle, anche grazie all’aiuto degli altri, senza quindi rifiutare la potenza insospettata della fragilità e della convivenza solidale» (Montes, 2018).
Faenza, Parco Bucci, prima dell'alluvione (ph. Mariangela Vitrano)

Faenza, Parco Bucci, prima dell’alluvione (ph. Mariangela Vitrano)

L’impatto dal virtuale al reale

Sono stata anche a Faenza, una delle zone più colpite dalle alluvioni, sia nella giornata del 3 che del 16 maggio, in quanto il centro della città è quasi interamente attraversato dal fiume Lamone. Ci sono state zone in cui l’acqua è arrivata a raggiungere i quattro metri di altezza, altre in cui ha superato i cinque e ha quindi raggiunto anche i secondi piani delle abitazioni. Avevo seguito tutto virtualmente fino a quel momento, via social o in televisione, e quando mi sono recata in loco, nel vivo della situazione, mi sono resa conto di quanto fosse stato infinitamente meno doloroso e spiacevole guardare tutto attraverso uno schermo. Mi ha sorpreso la mia incredulità nel vedere cataste di oggetti, alcuni anche molto personali della gente coinvolta, in mezzo a tonnellate di melma, di fango o accatastate sui marciapiedi. Piccoli scorci di vita e di quotidianità riversi per le strade o impigliati ai rami degli alberi, quasi in una richiesta ultima di voler rimanere al proprio posto mentre venivano travolti dall’impeto dell’acqua. Come scrive Fabio Dei nell’introduzione al saggio da lui curato sulla Materia del quotidiano: 

«E ancora, una volta che li abbandono, gli oggetti possono continuare ad avere una esistenza autonoma, portando tracce di me e di altri soggetti che li hanno prodotti e usati. Una riflessione, questa, che ci immerge in un clima maussiano: il modo in cui gli oggetti recano traccia indelebile delle persone è uno dei grandi temi unificanti del Saggio sul dono» (Dei, 2011: 8).

È evidente che, in questo caso, non si tratti di un dono ma di un abbandono ‘forzato’ da eventi di natura superiore. Eppure, entrare in contatto con quegli oggetti mi ha trasmesso un senso rispetto a chi li possedeva. Mi sono chiesta cosa stessero facendo un momento prima che l’acqua portasse via i propri oggetti, le proprie sicurezze (non solo materiali), ho provato ad immaginare il loro carattere e la loro personalità celata dietro il loro acquisto, mi sono chiesta quanto fossero sensibili e a quali tematiche in maggior modo, mi sono augurata che stessero bene e che ne fossero usciti illesi, almeno fisicamente. 

71bhtgaqpl-_ac_uf10001000_ql80_Cosa dicono di noi gli oggetti del quotidiano

Questi pensieri mi hanno involontariamente catapultato ad un brillante lavoro etnografico portato a compimento da Daniel Miller in collaborazione con una sua dottoranda in antropologia, Fiona Parrot, pubblicato con il titolo Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra. L’etnografia ha come fieldwork una via londinese e consiste nella selezione di alcuni appartamenti, su un totale analizzato, attraverso la quale si articolano i capitoli del libro. Miller, insieme alla sua collaboratrice, innanzitutto prova a guadagnarsi la fiducia e l’indispensabile consenso dei residenti per avere accesso alle abitazioni. Loro vi entrano per comprendere, attraverso l’osservazione, il rapporto che le persone hanno con le loro case e con i loro oggetti, per decifrare il complesso linguaggio della materialità, rivelatore delle relazioni interpersonali dei soggetti oltre che della loro identità. Ho sentito la mia esperienza coincidere un po’ con questo modo di fare etnografia, ho sentito di entrare nelle case della gente, immergermi nella loro identità o più precisamente dovrei dire che è accaduto esattamente il processo inverso: più che essere entrata io, è stato il loro privato ad essere stato trasportato violentemente dentro la sfera pubblica in maniera incontrollata, involontaria e irrevocabile.

Impotenti di fronte alla stessa violenza che noi stessi ogni giorno riserviamo alla natura, rimanendo più e più volte sordi al suo urlo di dolore, mentre continuiamo a sfruttare ciò che non è neanche lontanamente più sfruttabile, che non ha quasi più nulla da darci indietro se non la stessa violenza e intensità con cui le facciamo del male. Quanto, dopo un evento del genere, rimaniamo ‘vedenti’? Riusciamo a mantenere la nostra vista o ci basta il paziente lavoro del tempo per ritornare ad abituarci e regredire alla cecità? Tutto questo coinvolgerebbe inevitabilmente anche altre tematiche, come quella ambientale e di adozione di pratiche sociali e politiche che siano sostenibili e  non più asservite alle logiche della cementificazione e, al contrario, volte a valorizzare la costante manutenzione la cura dei corsi d’acqua che sono reticolari nell’intero territorio, per preservarli dalla fauna che potrebbe potenzialmente provocare dei danni senza che per forza quest’ultima venga eliminata ma soltanto controllata o, eventualmente, spostata in luoghi più consoni per essa e per  l’ambiente.

Ravenna, Rocca Brancaleone, prima dell'alluvione (ph. Mariangela Vitrano)

Ravenna, Rocca Brancaleone, prima dell’alluvione (ph. Mariangela Vitrano)

Senza ombra di dubbio le responsabilità dell’accaduto non ricadono solo sulla sfera pubblico-amministrativa. Esiste tutta un’altra serie di fattori appartenenti alla sfera individuale che comprendono l’adozione di attività rispettose dell’ambiente a partire dal proprio piccolo (differenziazione dei rifiuti, cessazione del supporto a rovinose pratiche intensive sia industriali che d’allevamento, riduzione del consumo della carne e così via). Tutte tematiche queste che meriterebbero di essere approfondite una ad una in uno spazio a sé stante e dedicato.

Se è vero che la teoria interpretativa di Clifford Geertz vede l’uomo non più come soggetto passivo, ma finalmente attivo nella produzione di senso e di cultura, più precisamente come «un animale impigliato nelle reti di significato che egli stesso ha tessuto» (Geertz 1988: 11), anche noi, umanamente, dovremmo concepirci non solo come individui ma anche come agenti sociali in sinergia con gli avvenimenti stessi che accadono e da cui non è possibile rimanere distaccati, perché la loro natura è in noi, non lontana o fuori di noi ma dentro di noi.

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Riferimenti bibliografici
Bernardi S., Dei F., Meloni P. (a cura di), La Materia del quotidiano. Per un’antropologia degli oggetti ordinari, Pisa, Pacini Editore, 2011.
Ehn B., Löfgren O., The secret world of doing nothing, Barkeley, University of California Press, 2010.
Garofalo C., L’antropologo del quotidiano, in Dialoghi Mediterranei”, n. 41, gennaio 2020.
Geertz C., Antropologia Interpretativa, Bologna, Il Mulino, 1988.
Lévi-Strauss C., Introduzione all’opera di Marcel Mauss, in Mauss M., Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965 (1950).
Mauss M., Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Torino, Einaudi, 2002.
Miller D., Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra, Bologna, Il Mulino, 2014.
Montes S., Diario di un antropologo insonne e bricoleur, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 33, settembre 2018.

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Mariangela Vitrano, attualmente impegnata a completare gli studi magistrali in Cooperazione Internazionale e Protezione dei Diritti Umani all’Università di Bologna; laureata in Lingue e Letterature moderne e Mediazione Linguistica all’Università degli Studi di Palermo, si interessa di antropologia e in particolare dei processi migratori, non solo in quanto fenomeno sociale ma anche artistico ed esistenziale.

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