L’essenza dell’arte della poesia sta nell’esprimere attraverso le parole la natura universale dello spirito umano, così il filosofo Daisaku Ikeda [1] spiega le ragioni per cui la poesia supera le barriere etniche e nazionali. La storia che vi sto per raccontare è stata scritta da decine di studiosi e amanti del grande poeta libanese Jubrān Khalīl Jubrān (1883-1931) [2], ma forse questo mio soggiorno a Boston mi ha aiutato a capire qualcosa di più della nostra storia e della fortuna di un povero giovane emigrato.
Tra il 1977 e il 1990 ho vissuto quasi continuativamente in Egitto e ho avuto modo di studiare e frequentare i poeti arabi, dal mio rientro la distanza e soprattutto la ricerca accademica mi hanno portato a rivedere quanto avevo vissuto da una prospettiva lontana. Il ripetersi, non casuale, degli “incidenti” nel Mare Mediterraneo e la recente traduzione di una raccolta di versi del poeta siriano Nūrī al-Jarrāh (Le Monnier 2023) mi hanno spinto a cercare un modo per contribuire a trasformare la diffusa indifferenza verso gli immigrati in un risveglio verso un nuovo slancio di umanità. Ho pensato di indagare sulle ragioni della fortunata carriera del poeta libanese, nell’intento di capire quali condizioni lo avessero favorito.
Jubrān aveva tutte le caratteristiche del ragazzo brillante ma sfortunato destinato a finire sulla strada, o a lavorare in un negozietto per il resto dei suoi giorni se non fosse stato “salvato” da una serie di fortunate coincidenze. Il giovane poeta era nato in una famiglia bersagliata dalle avversità sia per la generale crisi economica del Paese (alla fine dell’800 il Libano era una provincia dell’Impero ottomano) sia per l’incapacità del padre di provvedere al sostentamento dei suoi cari. La madre decise di dare un futuro diverso ai figli e con loro partì verso gli Stati Uniti dove avevano dei parenti. La Chiesa maronita di Boston aiutava gli immigrati, procurando loro contatti per il lavoro, per l’ospitalità dei primi giorni e qualche sussidio. A fare la differenza però era una qualità della città che, oltre ad avere origine dai Padri pellegrini, ha sempre avuto uno spirito indipendente attento all’educazione e alla solidarietà.
Boston è l’unica città, a mia conoscenza, che ha una “freedom trail” ossia un percorso che attraversa i luoghi storici della lotta contro il colonialismo britannico. Tra questi il luogo del massacro che segnò gli inizi della ribellione che portò all’indipendenza dell’America; il complesso bronzeo che ricorda le misere condizioni degli immigrati, e i luoghi e le persone che hanno lottato per l’emancipazione dalla schiavitù. Va ricordato che i primi immigrati già nel XVII secolo avevano raccolto i fondi necessari per creare quella che oggi è una delle più importanti università al mondo, Harvard, per educare i giovani e dare un futuro migliore alla loro società. Già all’epoca avevano creato le condizioni per permettere ai nativi di frequentare gli studi.
In questa istituzione studiò e poi insegnò il poeta filosofo Ralf Waldo Emerson (1803-1882) che ispirò il rinnovamento spirituale di molte generazioni di poeti ma anche di attivisti dediti alle cure dei poveri. Tra il 1845 e il 1850 la grande carestia irlandese portò negli Stati Uniti un gran numero di persone alle quali numerosi filantropi, ispirati dai princìpi di Emerson, dedicarono tempo e passione.
Lo spirito compassionevole dei bostoniani, fu di nuovo messo alla prova nel novembre del 1872 quando in una notte un devastante incendio distrusse una vasta area della città finanziaria (776 edifici) riducendo in miseria una gran parte della popolazione benestante. Molte famiglie dovettero ricominciare da zero. Anche questo evento contribuì a rafforzare il sentimento di condivisione e solidarietà tra gli abitanti.
I nuovi poveri si trovarono a vivere con gli immigrati e, con il passare degli anni e la razionalizzazione del sistema viario della città, il quartiere un tempo dei ricchi si trovò ad ospitare le seconde generazioni degli immigrati che nel frattempo avevano migliorato le proprie condizioni economiche.
Tra i benefattori ispirati da Emerson spicca il nome di Robert Treate Paine che alla guida della potente Associated Charities di Boston (attiva dal 1879), fece proprie le parole del filosofo sollecitando i benefattori a non limitarsi a dare denaro ma a impegnarsi attivamente nell’alleviare le difficoltà dei poveri, donando un po’ del proprio tempo. Paine, assieme ad altri, raccolse i soldi per fare costruire i settlements, ossia case dignitose dove era possibile andare a visitare i poveri e confortarli nelle loro angosce.
Nello stesso periodo veniva fondata la Denison settlements school per dare ai giovani un’educazione e offrire attività extrascolastiche a cui partecipavano anche gli universitari bostoniani. Lì era attiva Jessie Fremont Beale, una donna che aveva realizzato la biblioteca itinerante, per consegnare a domicilio i libri da far leggere ai ragazzi, sollecitandoli a commentarli insieme alle attiviste. Ma non solo, quella parte visionaria dell’élite bostoniana volle portare arte e cultura ai poveri costruendo la Public library (1848), con il contributo dei migliori architetti e artisti del tempo.
Ventisei anni dopo, in quel contesto, visse e studiò Jubrān. Il giovane, allora dodicenne, fece un disegno di una scultura posta nell’atrio della Public library. La Signora Beale rimase colpita e lo indirizzò prima ad un’insegnante di disegno e poi ad un artista, Edward Day, affinché lo aiutasse a sviluppare le sue doti artistiche.
Day era un uomo particolare per quell’epoca, affascinato dall’Europa e dall’Oriente era interessato a sperimentare l’arte della fotografia sulla gioventù multietnica del quartiere degli immigrati. Le opere esotiche di Day colpirono l’attenzione di alcune benestanti che vollero aiutare il giovane apprendista disegnatore aprendogli le porte dell’élite bostoniana. Aiutare un giovane artista allora, come ancora ora, significava dargli l’opportunità di continuare a studiare. Inoltre, le fotografie di Day fecero conoscere a Jubrān le opere d’arte europee. A Jubrān Day, che era anche un editore, offrì la possibilità di disegnare le copertine di alcuni libri e di ricevere un’educazione fondata sui testi classici e moderni tra cui le opere di Oscar Wild e Walt Wittman. Grazie alla presentazione di Day riuscì a soli 16 anni a vendere i suoi disegni a un editore di New York.
Poté frequentare artisti e intellettuali prima a Boston e poi a New York, dove conobbe un gruppo di poeti influenzati da Emerson, tra cui Richard Hovey (1864-1900) e i simbolisti Bliss Carman (1861-1929) e Maurice Maeterlinck (1862-1949, premio Nobel 1911); Jubrān del primo amò lo spirito indipendente e dell’ultimo il concetto emersoniano di religione caratterizzato da un «forte sentimento di Dio e spirito di fede».
Ma la vita del poeta non era soltanto gloria ed onori, soprattutto sino alla prima fase. La madre restava nel quartiere povero e sostanzialmente legata alla tradizione, pertanto lo mandò a studiare l’arabo a Beirut tra il 1898 e il 1901, grazie ad una colletta organizzata da Day. Lì approfondì la conoscenza della cultura araba, soprattutto la poesia classica; da questi studi trasse nutrimento, imparando dalla sua sete di conoscenza, come scrisse, che «Il desiderio è metà della vita; l’indifferenza è metà della morte».
I grandi poeti arabi ispirarono gran parte della sua prima produzione nella sua lingua di origine. Pur trovandosi all’estero, il giovane non perse i contatti con il mondo culturale bostoniano, anzi nel viaggio di ritorno riuscì ad avere i soldi per fermarsi a Parigi ad approfondire le sue conoscenze artistiche. Il rientro per il giovane fu durissimo perché i debiti contratti dalla famiglia, le malattie e la miseria lo costrinsero a lavorare nella piccola bottega di famiglia. In quella fase fu anche colpito da tragici lutti, primo fra tutti quello della sorella più giovane, poi il fratello e infine la madre.
Lo sconforto per la perdita delle persone a lui più care e le difficoltà economiche non lo fecero sprofondare nella disperazione proprio per quella continua linfa vitale che traeva dal rapporto con il mondo dell’arte e degli artisti. Per capire il poeta del libro best seller del secolo, Il Profeta, non bisogna perdere di vista il contesto in cui visse. La doppia formazione culturale del giovane poeta, arabo e americano, ebbe un ruolo fondamentale nell’approfondire la sua ricerca filosofica e spirituale che lo portò a sviluppare in modo originale la sua arte. Visse a lungo tra la miseria dei quartieri poveri e i fasti del bel mondo sino a quando un’educatrice Mary Haskell, anch’essa ispirata da Emerson ma anche da Maria Montessori, si prese cura di lui e lo sostenne per buona parte della sua carriera artistica. La Haskell gli permise di tornare a Parigi e poi di lasciare Boston e trasferirsi a New York. Lì la sua vita entrò in una più forte relazione con quella di altri artisti immigrati; contribuì alle iniziative culturali arabe anche sostenendo la causa dei nazionalisti e le associazioni siriane a favore delle vittime della Prima guerra mondiale. Di nuovo la morte e la sofferenza incrociavano la vita del poeta, che sviluppò l’idea che Dio è in eterna evoluzione e l’amore è la forza che porta l’essere umano a migliorare se stesso, e la sua anima – forma più alta di materia – a trasformarsi sempre.
Dalle pubblicazioni in arabo alle mostre e alle letture in inglese nei circoli culturali newyorkesi trasse fama e l’apprezzamento per la sua visione profonda della vita. La consapevolezza di sè e la filosofia del poeta nel frattempo evolvevano e maturavano sino a giungere a compimento nella stesura de Il Profeta. Nel parlare dell’opera Jubrān scriveva in Egitto all’amica scrittrice May Ziyadah che questo libro non esprimeva che una minima parte di ciò che aveva percepito dagli sguardi e dalle espressioni delle persone che aveva incontrato nella sua vita. Il poeta affermava che non avrebbe potuto realizzare nulla se fosse stato da solo, senza il contributo e la compagnia degli altri esseri umani. L’essenza del suo spirito si coglie nei versi: Bellezza è l’eternità che si contempla in uno specchio/ e noi siamo l’eternità, e noi siamo lo specchio.
Quest’anno a New York si è celebrato il centenario della pubblicazione de Il Profeta, inaugurando una mostra delle sue opere e una scultura dedicata a Jubrān. Il poeta che ha contribuito a fare conoscere in Oriente la cultura occidentale, deve la sua prima fama all’Occidente per la speranza che ha trasmesso a molte generazioni mettendo in relazione i due universi spirituali sulla base principi etici condivisi.
In una fase storica critica come quella attuale, con il numero crescente di emigrati, la sua visione della fratellanza e la sua fede nelle infinite potenzialità latenti in ciascuno individuo sembrano un’utopia, ma la sua storia di vita indica invece il contrario. L’esperienza di Jubrān dimostra che una filosofia umanistica può cambiare il destino di molte persone.
L’educazione ispirata ai suoi princìpi ha formato generazioni di giovani di valore; un’accoglienza solidale e la determinazione degli immigrati può contribuite a costruire una società nuova, capace di manifestare un ordine creativo nella disordinata e confusa paura dell’altro.
Ad un secolo di distanza Boston è ancora la città che ospita numerosi giovani provenienti da tutto il mondo che sognano di realizzare le loro idee. A Cambridge coesistono l’avanguardia scientifica del MIT e gli studi classici e giuridici di Harvard, i due atenei collaborano anche in molti campi della ricerca. Le architetture moderne si armonizzano con le più antiche villette in stile inglese dove si respira ancora l’atmosfera dell’antica tradizione emersoniana. Lo spirito innovativo e solidale, che a partire dall’iniziativa personale cerca risposte pratiche alle crisi, dando il meglio di sé per trasformare le difficoltà in occasioni di cambiamento positivo.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Note
[1] Daisaku Ikeda, Cultura, Arte e natura. Protagonisti del XXI secolo, Esperia, Milano 2015; D. Ikeda, A new humanism: The university addresses of Daisaku Ikeda. I. B. Tauris. 2010.
[2] Jean Gibran and Kahlil Gibran, Kahlil Gibran. His life and World, Interlink Books, New York, 1991 (1971, 1981). Suhail Bushrui e Salma Kuzbari, The love letters of Kahlil Gibran to May Ziadah, a cura di e trad. di Suhail Bushrui Salma Kuzbari, Longman house, Arlow (Essex) 1983. Tra le opera principali di Jubrān si ricordano quelle risalenti alla prima fase in arabo, che va dal 1905-1914: al-Musīqah (La musica, 1904), Arā’is al-Murūj (Le ninfe dei prati, 1906), al-Arwāh al-mutamarrida 1908), al-Ajniha ‘l-mutakassirah (Ali spezzate, 1912), Da‘amah wa Ibtisamah (Una lacrima e un sorriso,1914), altre 3 opere al-Mawākib (Le processioni, 1919) e due raccolte di lavori già pubblicati, al-Awasif (Le tempeste, 1920), e Badā’y wa –tarā’yf (Meraviglie e scherzi, 1923). Una seconda fase include le opere in inglese The madman (Il matto, 1918), The forerunner (Il precursore, 1920), The Prophet (Il profeta,1923) Sand and Foam (Sabbia e schiuma, 1932), e The garden of the Prophet (Il giardino del profeta, 1933) completata da Barbara Young dopo la sua scomparsa (con interventi della curatrice). Quest’ultima opera era la seconda di una trilogia iniziata con Il Profeta, e che avrebbe dovuto concludersi con La morte del profeta. Per una sintesi della sua opera si veda la versione inglese della voce Jubrān, e quella italiana per la bibliografia delle opere tradotte in italiano: https://en.wikipedia.org/wiki/Kahlil_Gibran.
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Francesca Maria Corrao, ordinario di Lingua e Letteratura Araba, alla Luiss Guido Carli Roma, ha studiato in Italia e al Cairo la cultura del mondo arabo e islamico. Tra le sue pubblicazioni numerosi articoli in sedi internazionali e nazionali e gli approfondimenti su: La rinascita islamica (ed. Laboratorio antropologico, Università di Palermo 1985); Poeti arabi di Sicilia (Mondadori 1987, Mesogea 2001) Le storie di Giufà (Mondadori 1989, Sellerio 2002), Adonis. Ecco il mio nome (Donzelli 2010), Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea (Mondadori università 2011). Assieme a Luciano Violante ha recentemente curato il volume edito per i tipi de Il Mulino L’Islam non è terrorismo.
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