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Le vicende degli studi folklorici in Russia nel corso di un convulso e drammatico secolo

coverdi Mariano Fresta 

Di grande interesse è il libro curato da Emilio Mari [1], il cui titolo, Una Romanza crudele. Estetiche e politiche del folklore nella Russia del ‘900 (Pacini, Pisa 2023), vuole alludere alle vicende, piuttosto tristi anche a leggerle, vissute dal folklore e dai suoi studiosi nella Russia post rivoluzionaria; perché, oltre ad informarci su un argomento quasi sconosciuto per noi, ci permette di riflettere su cosa succede alla cultura quando intervengono i poteri politici a censurarla, a modificarla, ad asservirla. In Italia, come ci ricorda lo stesso Mari nella nota 3 della sua Introduzione, fenomeni simili si ebbero durante il fascismo, quando il regime cercò in tutti i modi di dominare, con il tacito consenso di molti studiosi e la complicità di alcuni, la cultura popolare italiana riducendola in banali e qualunquistiche sagre dell’uva e nell’organizzazione di gruppi corali che del canto folklorico riprendevano solo i motivetti e i testi più ovvi e più innocui.

In Italia allora non ci fu dibattito, né scientifico né politico, che servisse a giustificare l’asservimento del folklore agli scopi del regime, e forse fu un bene, in quanto nel silenzio con cui l’operazione procedeva, continuarono a sopravvivere nelle campagne isolate e nelle zone di montagna le tradizioni orali che avremmo ritrovate, quasi integre, dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

In Russia, invece, l’intromissione del potere politico nella cultura popolare fu piuttosto violenta e rumorosa; né, d’altra parte, poteva essere diversamente, perché mentre il fascismo si serviva di una cultura ancora rurale e conservatrice utile per rafforzare il consenso tra la popolazione in grande maggioranza dedita all’agricoltura, nella Russia i rivoluzionari, avendo la pretesa di aver trasformato immediatamente la coscienza contadina del popolo in coscienza proletaria e di far credere a tutti che la semplice presa del potere avesse di per sé trasformato contadini operai e impiegati in comunisti consapevoli, si adoperarono ad accelerare sia l’eventuale e naturale evoluzione delle tradizioni, sia a volgerle, secondo la propria visione politica, a favore del rafforzamento del nuovo potere, con conseguenze negative, oltre che nella società anche nel campo scientifico.

Il libro è un’antologia di tredici brani tratti dalle opere di studiosi, russi e sovietici, della canzone popolare, in cui, oltre ad essere presentati i testi e le problematiche in essi contenuti, si ripercorrono le vicende del dibattito intorno ai concetti di folklore e di espressività popolare. Con la sua introduzione il Mari ci fa comprendere con facilità gli sconvolgimenti causati dalla Rivoluzione e le contorsioni teoriche degli studiosi che, volendo eseguire gli ordini del Partito, ma anche per convinzione personale, cercavano di riportare sulle nuove posizioni ideologiche la documentazione etnografica che via via veniva prodotta e di indirizzare l’evoluzione della canzone popolare secondo gli interessi del nuovo regime. L’intervento del Mari è anche una buona guida per districarsi tra le varie posizioni degli studiosi che analizzano spesso lo stesso materiale folklorico per giungere a risultati diversi. Se c’è un appunto da fare al Mari è semmai quello di averci offerto da leggere ben dieci contributi relativi al periodo che va dal 1901 al 1941, cioè l’arco di tempo che comprende l’ultimo periodo zarista e gli anni della trasformazione socialista della nazione e dello stalinismo, mentre per gli anni che vanno dalla destalinizzazione fino alla perestrojka di Gorbaciov e alla fine dell’esperienza sovietica, ci sono soltanto tre contributi. Tra l’altro, mentre per il primo periodo le pubblicazioni accolte nell’antologia sono state edite a poca distanza una dall’altra, per il secondo i testi oltre ad essere pochi sono stati pubblicati in anni lontani fra loro come ci dicono le date: 1953, 1979, 1989. Per saper qualcosa in più degli anni 1953-1989, Mari ci rimanda, tuttavia, ad altre sue pubblicazioni, che qui sarebbero state ripetitive e forse editorialmente inopportune.

2019-danza-russian-dances-teatro-saronno-padtaL’Introduzione di Mari ha il titolo Costruendo il popolo e il popolare: il secolo breve della folkloristica russa che, enigmatico a prima vista, diventa molto chiaro dopo la lettura del testo e soprattutto dopo aver letto i tredici contributi. Il titolo del libro si riferisce al fatto che i rivoluzionari, oltre a costruire una società nuova, volevano anche forgiare un “popolo” ad immagine e somiglianza dei principi ideologici che ispiravano la loro opera, un “popolo” molto diverso da quello che l’eredità storica aveva lasciato loro. E di fatti, a leggere i testi dei primi studiosi antologizzati, sembra che i folkloristi non avessero molto chiaro sia il concetto di “popolo”, sia quello di “canto popolare” [2], e che quelli successivi dell’età socialista per qualche tempo abbiano continuato a discutere su un tema ancora per loro non molto definito, per cui, pur parlando dello stesso oggetto, potevano fare considerazioni fra loro contrastanti. Anche quando le idee diventarono più chiare, grazie alla conoscenza di quanto era stato conseguito dagli studi folklorici nell’Europa occidentale, specie in Francia e in Germania, il dibattito fu sempre controverso perché l’intrusione e le direttive del potere creavano un clima di confusione nel quale il concetto di “popolo” visto nella sua autonomia, si mescolava con quello dello Stato e del Partito che del popolo avevano una visione totalmente ideologica e del tutto priva di riferimenti alla realtà.

Pertanto, col senno di poi, tutto ci appare alquanto assurdo; noi, infatti, sappiamo che nel periodo compreso tra il secondo e il terzo decennio del Novecento in Russia si sviluppò al di fuori dell’ideologia rivoluzionaria una critica letteraria fondata su basi linguistiche e semiologiche, che permetteva di trarre dagli stessi testi, sia quelli della letteratura culta che di quella popolare, i modi della loro creazione e della loro fruizione, contribuendo così a definire meglio cos’è l’arte “popolare” e qual è la cultura che la produce. Ma il formalismo, che in Occidente e soprattutto in Italia avrebbe contribuito, a partire dagli anni ’60 del Novecento, a fare molti passi avanti per la comprensione del folklore e del teatro tradizionale, con la sua idea di voler capire il significato di un testo analizzandolo nella sua essenza linguistica senza badare al suo contenuto, fu sentito come incompatibile con quella di stampo marxista, secondo la quale la letteratura, culta e popolare, poteva essere spiegata soltanto con l’esaminare i suoi contenuti alla luce del rapporto dialettico struttura/sovrastruttura. Essendo, perciò, sentito come nemico del marxismo e della propaganda e delle direttive del potere, il formalismo fu messo ai margini, i suoi rappresentanti furono contrastati e costretti al silenzio. A mio parere, se fosse stata seguita, almeno in parte, la strada dei formalisti, gli studiosi avrebbero potuto evitare un dibattito a volte paradossale, ma, forse, avrebbero rischiato di essere presi di mira dal potere [3].

Non conosciamo su quale materiale folklorico discutessero gli studiosi del periodo zarista, dovremo quindi desumerlo dallo stesso dibattito. Il brano che apre l’antologia del Mari è di Dmitrij Zelenin, professore di letteratura, studioso di cultura materiale e della fiaba, il quale interviene nel dibattito sul canto popolare che a quel tempo era rappresentato, secondo lui, dallo stornello e dalla romanza, il primo originario del mondo contadino, la seconda di origine urbana, ispirata da una letteratura stampata di largo consumo, tipica di classi sociali intermedie. Tra gli studiosi c’erano coloro che parteggiavano per il canto campagnolo e chi, invece, preferiva i canti nati in città. Dalla parte di questi ultimi si schiera Zelenin, con argomentazioni che lasciano un po’ perplessi. Per lui, infatti, «lo stornello vuole essere lirico, ovvero vuole avere a che fare con i sentimenti, ma di questi la nostra vita di campagna è così povera … ». Tra l’altro per lui lo stornello sa di vecchiume e difatti così spiega: 

«Da noi la nuova poesia popolare viene messa a confronto con quella dei tempi passati, senza che si prenda in considerazione l’enorme differenza che separa le due, quasi incomparabili. Una ha completato l’intero cerchio del suo sviluppo, è definitiva; l’altra è acerba, non ha ancora assunto una forma precisa ed è inoltre frutto di un’epoca di transizione». 
Dmytro Zelenin

Dmytro Zelenin

Da un lato c’è in Zelenin la vecchia visione del mondo contadino russo dell’epoca zarista che attribuiva alle genti rurali la mancanza di una vita sentimentale, dall’altro c’è l’idea, piuttosto discutibile, che un aspetto del folklore possa esaurirsi come se esso fosse di natura biologica. In questo contesto, però, c’è una intuizione e cioè che il folklore nasce anche in ambiente urbano.

E difatti, a distanza di un quarto di secolo, a Rivoluzione già avvenuta, interviene nel dibattito Van Straten, uno studioso di idee nuove che, invece di lamentarsi come gli altri per lo stornello campagnolo che si è degradato dopo essersi trasferito in città, preferisce indagare la canzone popolare nata nelle strade durante il periodo convulso della rivoluzione e negli anni immediatamente successivi: 

«Dunque, il prezioso materiale costituito dalle creazioni della strada di città oggi si è in qualche modo defilato dal campo visivo dei raccoglitori, senz’altro solo a causa della tradizionale ignoranza in merito al folklore urbano. Persino ascoltando, in città, canzoni “di strada” a ogni piè sospinto, il raccoglitore in questi anni tumultuosi è passato oltre, dimenticandosene e concentrando tutta la propria attenzione all’attività creativa rurale, chiaramente più ricca, ma comunque non al punto da escludere l’interesse nei confronti delle strade di città, che ha anch’essa valore sia in sé e per sé, sia allo scopo di illustrare gli influssi reciproci della città e della campagna». 

Straten mostra di essere anche in anticipo sui tempi, perché ha capito che la cultura folklorica non risiede solo nelle campagne e che quella urbana ha contenuti e modi diversi da quella rurale. La sua attività di studioso, infatti, è dedicata a raccogliere il folklore delle città, che velocemente si industrializzano, tralasciato dagli altri perché, secondo loro, esso è sì costituito sulle forme antiche ma deturpate da contenuti triviali, degni di “cuoche e di spazzini”. Noi, come Straten, sappiamo che anche le canzoni delle cuoche e degli spazzini appartengono alla cultura e per questo sono degne di essere studiate per capire perché sono prodotte e usate dai ceti popolari.

s-l1600Ancora più audace fu Chandzinskij che, approfittando del clima di liberalità formatosi prima della chiusura staliniana, indagò a fondo negli istituti penali raccogliendo una grande messe di canzoni della mala. Il suo intento, però, non era folklorico, ma politico e sociologico, voleva cioè capire le cause che avevano prodotto la delinquenza e vedere se era possibile facilitare i contatti tra la nuova società sovietica e il mondo della criminalità per un eventuale reinserimento. Molto probabile che il suo lavoro abbia trovato ostilità presso il potere politico: negli anni ’30, quando più infuriò la violenza delle purghe staliniane, di lui si persero le tracce.

Alla fine degli anni ’20, si cominciano a vedere gli effetti dell’industrializzazione del Paese e la crescita della classe operaia. Ad occuparsi del rapporto tra folklore e cultura operaia è Zel’cer. Per lui gli studiosi che lo hanno preceduto hanno preso degli abbagli perché, non badando alla presenza delle nuove classi sociali, hanno voluto vedere una continuità tra il folklore rurale e la poesia letteraria tipica dei piccoli-borghesi di città. Insomma Zel’cer è il primo ad accorgersi che la cultura della classe operaia comincia a manifestarsi nelle canzoni nate dopo il 1870, quando finisce la massiccia circolazione di opere ispirate dalla grande letteratura; e soprattutto nota che la Rivoluzione ha segnato un punto di rottura nella cultura delle classi popolari. Ed è, quindi, in questa nuova situazione che il folklorista pone la sua attenzione a quella “poesia di fabbrica” giudicata negativamente da coloro che lo avevano preceduto. Per fare un esempio di questa nuova canzone, Zel’cer riporta una lunga composizione operaia che ha qualche somiglianza con la canzone narrativa italiana.

Nelle opere di Zel’cer si avverte già che negli indirizzi di studio è intervenuta una certa intrusione: è quello, infatti, il periodo in cui, come scrive Mari, «la connotazione militante, o meglio specificamente partitica, della cultura popolare prese il sopravvento». È con Pavel Sobolev che questa pressione esterna si manifesta in maniera più evidente; nello stesso tempo, però, si fanno più consistenti i riferimenti alla storia degli studi occidentali. Lo storico, infatti, riprendendo considerazioni presenti nelle opere dei fratelli Grimm, critica quelle analisi che rappresentano l’apparente ingenuità e purezza del mondo contadino, invita gli altri ricercatori a prendere atto dei mutamenti avvenuti nella società russa dopo la Rivoluzione che 

«ha trasformato la città e la fabbrica in focolai della cultura, in centri della costruzione sociale e amministrativa, in baluardi del potere operaio e contadino e della rinascita economica del Paese … I folkloristi contemporanei dovrebbero rifiutare una volta per tutte la concezione tradizionale di “popolo” e di “letteratura popolare” per dedicarsi allo studio del folklore nelle sue espressioni socialiste». 

Nello stesso tempo dà anche indicazioni su come fare ricerca e su chi coinvolgere in essa: 

«insegnanti dei villaggi, agronomi, medici, bibliotecari delle sale di lettura di campagna e altre figure che si interessano o si interesseranno all’avvincente compito di raccogliere i tesori dell’incommensurabile ricchezza orale e poetica che appartiene alla nostra campagna». 

Un aspetto particolare del folklore studiato da Sobolev è il fenomeno della “discesa” di una forma letteraria dal livello colto a quello popolare: è il caso della “romanza amorosa” letteraria che «assume nell’elaborazione piccolo-borghese lo stile della “romanza crudele”», ovverosia di un canto che narra una storia triste e strappalacrime. Triste, ma con senso diverso, come dovette essere la storia del folklore russo in epoca staliniana. 

Sullo stesso piano sociologico di Sobolev si pone Žirmunskij che, con un approccio più marcatamente marxista, fa sospettare una sua vicinanza alle tesi del Partito, come si può vedere dal seguente brano: 

«Il socialismo, abolendo le differenze di classe sia nella vita pubblica che nella coscienza della gente, sradica al tempo stesso anche il concetto di folklore, fondato sulle contraddizioni alla base dello sviluppo della società di classe (in particolare di quella capitalistica). L’eliminazione del divario tra città e campagna, ottenuto grazie all’industrializzazione e alla collettivizzazione dell’agricoltura, costituisce la premessa necessaria per l’estinzione delle forme residuali di cultura. In una società priva di classi non ci sarà più quell’arretratezza culturale provocata dallo sfruttamento economico e dalla stratificazione sociale». 
Žirmunskij

Žirmunskij

Quello che in questo brano torna poco è l’ultimo periodo, in cui l’affermazione apodittica (la fine dell’arretratezza culturale, quindi anche del folklore, in quanto forma residuale di cultura) rivela una sicumera che la storia dimostrerà velleitaria. Comunque Žirmunskij possiede una strumentazione critica notevole e conoscenze vaste nel campo della folkloristica europea occidentale che gli facevano affermare, come aveva fatto Tylor, che il folklore altro non è che una sopravvivenza (survival) del passato che da lui viene identificato con il feudalesimo; certamente rispetto agli altri, egli sembra avere sulla fenomenologia del canto popolare le idee più chiare. Non per nulla aveva qualche contiguità con i teorici del formalismo, come si può vedere dalla seguente riflessione: 

«La tradizione orale si basa sul fatto che ogni espressione poetica è il risultato di una parziale reinvenzione, variazione, rimaneggiamento (Zersingen), che fa sì che il testo poetico trasmesso oralmente esista in un certo numero di varianti». 

Tra tutti gli autori presenti nell’antologia Lebedinskij è il più ligio ai dettami che venivano dall’alto. Il potere ha bisogno del folklore di massa, di uno strumento, cioè, capace di raggiungere la maggioranza del popolo attraverso il canto; non il canto del singolo, ma quello eseguito da un coro. Il senso di collettività che promana da un coro di voci legate dall’armonia può benissimo rappresentare la collettività nazionale. Nascono così associazioni, circoli di canto, gruppi corali e nasce una produzione di canti adeguata. Lebedenskij s’incarica di definire cos’è questo folklore “ufficiale”, di propagandarlo come genuino canto popolare, come gioioso modo di manifestare le nuove condizioni di vita conquistate con la rivoluzione. Si tratta di rivisitazioni di canti tradizionali e soprattutto di nuove creazioni spesso suggerite dal Partito tramite i folkloristi che ne devono attestare l’autenticità, ma soprattutto devono suggerire vicende e storie da mettere in versi e musica.

Anche noi abbiamo conosciuto questa canzone di massa nelle tournée che, prima della dissoluzione della Russia sovietica, l’Armata Rossa si preoccupava di far conoscere agli altri popoli, a dimostrazione della bontà del loro sistema politico: qualche bel motivo, belle voci maschili, ma soprattutto propaganda basata sulle emozioni.

Sokolov è certamente uno tra i maggiori responsabili della manipolazione del folklore ad uso politico, pur se tra gli autori presenti nell’antologia mostra di essere teoricamente il più competente ed anche il più agguerrito. La sua affermazione, tuttavia, che la differenza tra letteratura popolare e quella culta sta nel fatto che la prima è «quantitativamente più copiosa» dell’altra, ci lascia piuttosto stupefatti ma gli fu utile per propugnare e dare la stura ad una produzione vastissima di falso folklore: 

«… È risaputo che il personaggio di Don Giovanni e lo schema narrativo composto dalle sue avventure amorose sono stati rielaborati da un gran numero di autori (Moliere, Byron, Puškin, A. Tolstoj e altri), eppure nessuno ha mai contestato l’autonomia e il valore intrinseco delle loro opere. È esattamente così che ci si deve approcciare al folklore: bisogna andare oltre i tradizionali e ripetitivi schemi narrativi, oltre le classiche figure stereotipate degli eroi delle fiabe». 

A rafforzare questa convinzione gli viene in aiuto lo scrittore più importante di quegli anni, Gor’kij, che in un convegno aveva detto che 

«i tipi di eroi più azzeccati e perfetti dal punto di vista artistico sono stati creati dal folklore, dalla creazione orale del popolo lavoratore … tutte figure nate da una combinazione armonica di ragionamento e intuizione … possibile solo quando si ha la partecipazione diretta del creatore alla lotta reale per il rinnovamento della vita». 
Azadovskij,

Azadovskij

Le considerazioni dello scrittore in parte sono vere perché la creazione nasce sui presupposti da lui indicati, ma si dimentica di dire che la creazione popolare fino a quel momento storico era stata sempre autonoma e non imposta dall’alto. Sokolov è ancora più drasticamente chiaro: egli ritiene, infatti, che c’è nei periodi di ricostruzione «la necessità di intervenire attivamente nel processo di creazione del folklore, espressa più volte da me e da altri folkloristi».

Sulla stessa lunghezza d’onda si posizionano Azadovskij e l’Astachova; il primo pubblica nel 1939 un testo in cui fa l’elogio del nuovo folklore promosso dallo Stato e il suo vivo legame con la contemporaneità che «ha abbattuto e ribaltato i confini a cui eravamo abituati». Infatti, «ora i cantori e i cantastorie sono circondati da una generale cura e attenzione, sono rispettati in patria e ospiti frequenti nelle capitali e nei centri territoriali, nelle gare, negli incontri scientifici, nei congressi dell’Unione degli scrittori». Azadovskij, insieme con Sokolov, è convinto assertore della individualità e autorialità della creazione folklorica, al pari di quello che avviene nel campo delle opere letterarie colte.

Astachova interviene nel 1941, anno dell’entrata in guerra della Russia. Il momento esige compattezza della Nazione ed ecco che il folklore arriva in soccorso per tenere alto il morale. L’Astachova nel suo contributo parla del nuovo epos russo, esamina molti poemi nati negli anni precedenti, esalta l’attività di poeti e cantastorie popolari; spiega poi quali sono i generi di canti più in voga e parla della nuova moda di comporre storie più o meno autobiografiche che parlano delle nuove esperienze di fabbrica (skaz): «Dunque, abbiamo notato quattro tipi principali di opere epiche: opere con fabula che raccontano un evento – la bylina, opere con fabule più complesse – il poema, lo skaz descrittivo e lo skaz-riflessione». Ovviamente, seguendo le indicazioni di Sokolov, Astachova dice che solo quello recente è il vero folklore russo e spende molte energie per dimostrarlo.

Passano gli anni e poi il 5 marzo del 1953 muore Stalin. Solo cinque mesi dopo questo evento, si comincia a parlare in termini negativi del presunto folklore creato secondo le direttive del regime. A farlo sulle pagine di Novyj Mir è N. Leont’ev, la cui confessione e il cui articolo appaiono nel campo della folkloristica come un clamoroso manifesto della destalinizzazione. È anche vero che Leont’ev era stato negli anni precedenti tra coloro che avevano fornito a poeti e cantastorie il materiale necessario per la costruzione del nuovo epos russo, ma alla fine si era accorto che folkloristi e burocrati di partito avevano fatto la fine dell’apprendista stregone di Goethe: si erano adoperati per istruire e appoggiare una miriade di “creatori di folklore” e adesso si erano trovati a non poter più fronteggiare l’alluvione di una letteratura pseudo-folklorica e pseudo popolare. Per questo motivo il titolo del contributo, Stregoneria e sciamanesimo, sembra quanto mai appropriato.

Totale, ed anche autobiografica, è infine la sua condanna nei confronti del falso folklore e della cattiva poesia prodotta da persone che non solo non appartenevano al popolo ma erano anche privi di spirito poetico e banali imitatori della poesia folklorica. A Sokolov rimprovera parte della responsabilità di questa moda per aver diffuso una definizione generica del folklore, inteso come creazione orale-poetica delle vaste masse popolari; per l’altra parte possiamo aggiungere che responsabile era il potere politico che l’aveva favorita per avvantaggiarsene.

Ventisei anni dopo, ci prova Vladimir Bachtin a separare il folklore autentico da quello falso prodotto nell’ultimo cinquantennio. C’è però nella sua visione del mondo popolare un residuo di ideologia, in quanto l’accezione di popolo è ripresa dal Romanticismo che vedeva in esso tutte le classi componenti la Nazione, con in più il fatto che per lui nel 1979 il popolo è quello proletarizzato che compone la società sovietica. La sua valutazione dello stato del folklore a lui coevo, pertanto, risulta ambigua, come si può dedurre dal fatto che loda i canti dell’antica tradizione rurale, mentre le opere popolari contemporanee, prese però senza alcuna distinzione, gli appaiono come un “chiacchiericcio confuso”.

Bachtin ha tuttavia il merito di guardare la realtà senza filtri: 

«Voglio sottolineare che le principali difficoltà oggettive che uno studioso moderno di arte popolare affronta non solo sono rimaste, ma aumentano. Un nuovo contenuto viene attribuito a concetti già ampiamente noti, quali “popolo”, “contadino”… Nel 1928 quasi il 75% della popolazione era composto da contadini e il 17,6% da operai e impiegati, mentre nel 1970 i contadini sono diventati il 20,5%, laddove la percentuale di operai e impiegati è salita all’84,3. Ciononostante il folklore è considerato per tradizione un genere appartenente all’arte contadina. Significa che è spacciato?». 
Manifesto del Festival Generale della Canzone Lettone del 1910

Manifesto del Festival Generale della Canzone Lettone del 1910

La risposta alla domanda di Bachtin arriva dieci anni dopo, alla vigilia della dissoluzione della Russia sovietica. Il’ja Zemcovskij, ci informa che il folklorismo contemporaneo per lui è composto da tre forme: quella organizzata e nata negli anni ’30 dei cori e dei canti autoriali; quella originata dal folklore urbano e che trova espressione negli spettacoli teatrali; quella, infine, che riguarda la nascita di nuovi rituali, nuove usanze e festività e nuovi spettacoli di strada. Non si parla più soltanto di canto, ma di una nuova cultura popolare complessa che si può studiare solo con teorie e strumenti altrettanto nuovi. Intanto egli separa il folklore dall’arte popolare, con il primo che alimenta costantemente la seconda, ma che non può essere confuso con essa come accaduto nei decenni precedenti. Nella situazione che gli si presenta davanti Zemcoskij vede che c’è ancora confusione tra folklore e folklorismo e si chiede come salvaguardare il primo. La soluzione sta nella futura attività dei ricercatori che devono indagare profondamente la realtà sociale, dove ancora risiede la “popolarità”.  Come esempio di folklore, in cui risiede la “popolarità”, porta quello di un gruppo spontaneo itinerante che ripropone l’epos tradizionale del Kazakistan. 

Non sempre è possibile seguire gli autori Russi quando parlano dei canti che ci rimangono sconosciuti. Possiamo ovviamente capire cosa è la bylina, cosa sono lo stornello e la romanza, ma basandoci soltanto sul nome dei generi non riusciamo a vedere dove sta la loro connotazione di popolarità, la loro natura di creazione popolare. Nei contributi spesso sono riportati i testi delle composizioni, che a volte sono poetici a volte banali; ma essendo riportati in traduzione questi testi non hanno la formalizzazione originaria, ci rimangono dunque ignote sia le modalità di composizione sia le loro strutture metriche, non sappiamo se c’erano rime e che disposizione avevano, non sappiamo nulla delle melodie su cui erano cantati. Per cui, quando gli autori parlano della “popolarità” di queste composizioni non riusciamo a capire in pieno il significato del termine. Ovviamente, l’assenza di questi aspetti non sminuisce il valore contenutistico dei testi antologizzati che compongono il libro, ma la loro presenza avrebbe orientato meglio la lettura [4].

In conclusione: il saggio è molto interessante, anche molto impegnativo e denso di numerose questioni che, purtroppo, non possono essere tutte citate nello spazio limitato di una recensione. Da leggere e meditare è pure l’introduzione al volume di Emilio Mari che, oltre a fornirci la chiave di lettura dell’antologia, ci mette in grado, seppure in modo molto veloce, di seguire anche le vicende del folklore nel periodo che va dalla fine del Novecento fino ad oggi. Sono questi gli anni in cui gli studi sul folklore russo ripartono quasi dagli esordi ottocenteschi, ma questa volta in compagnia di quelli già consolidati dell’Europa occidentale, e si avviano ad incontrare la scuola di Tartu a Mosca, dove formalismo e semiologia, nonostante tutto, hanno continuato ad operare. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024 
Note 
[1] Il titolo è ripreso da una frase di Sobolev, riportata anche in questa recensione. 
[2] Mentre in Italia, negli ultimi ottanta anni circa, abbiamo distinto il  folklore, inteso come “cultura di classi subalterne”, da “cultura popolare”, espressione usata per indicare qualcosa di largamente diffuso (“il calcio è uno sport popolare”; “la musica leggera è molto popolare”),  in tutti i contributi presenti nel volume non c’è una distinzione netta tra “canto folklorico” – di origine  rurale –  da “canto popolare” – di origine urbana; perfino fenomeni che potremmo definire di “cultura di massa” sono collocati nel campo del folklore. Nel periodo stalinista la confusione terminologica (e quindi teorica) fu massima, perché l’unico folklore consentito era quello ispirato dal Partito. 
[3] In Italia sul formalismo russo fu edito nel 1973 il volume Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nell’URSS, a cura di Jurij M. Lotman e Boris A. Uspenskij, edizione italiana a cura si Clara Strada Janovič. I contributi contenuti nel libro risalgono però grosso modo agli anni dal ‘25 al ’40 del Novecento.
[4] Per avere un’idea intorno ai generi, ai contenuti e alla formalizzazione di componimenti popolari russi si può ricorrere all’antologia di Vl. Propp, I canti popolari russi, a cura di Gigliola Venturi, Einaudi, Torino 1966 (edita in URSS nel 1961). Propp, famoso per la sua Morfologia della fiaba, faceva parte dei formalisti, le cui metodologie di analisi sono da lui usate per esaminare i canti popolari; ma questo poté avvenire ufficialmente solo nel 1961, quando i controlli del Partito ormai si erano allentati di molto. Da sottolineare che nella sua bibliografia non è ricordato nessuno dei folkloristi presenti nella raccolta curata da Mari.
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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadinoLo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003.  Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici. É stato edito nel 2023 dal Museo Pasqualino il volume, Incursioni antropologiche. Paesi, teatro popolare, beni culturali, modernità.

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