di Antonio Bica
L’alba di questo terzo millennio lascia alle sue spalle la storia tormentata del secolo breve (come lo ha ben definito lo storico britannico Eric Hobsbawm) con tutti i suoi fallimenti e le guerre di religione. Ma è un’alba dalla luce fioca, un’alba che ci consegna un’umanità sofferente e costretta a fare i conti con l’identità globale, con la crisi di identità nazional-sociale, con la crisi etica e quella del rapporto col sentimento religioso.
Insomma la nostra civiltà postmoderna eredita dal secolo breve un patrimonio malato, una luce tenue che cerca fra mille insidie di illuminare uno stato di caos e disordine planetario. Chiedersi cos’è la preghiera, dinanzi a queste premesse, può essere l’occasione per un momento di introspezione, di riflessione e di meditazione filosofica. Sono innumerevoli le definizioni di preghiera, e ciascuna racchiude in se stessa un particolare dettaglio, un aspetto, una visione che apre successivamente la mente dell’uomo ad altri interrogativi e considerazioni.
Intanto, possiamo affermare che la preghiera identifica, nel suo essere, una specifica quanto autentica dimensione di universalità, così come universale è il genere umano. La preghiera, in quanto prerogativa dell’uomo, appartiene all’uomo e quindi al genere umano, e questa appartenenza si relaziona per necessità con l’uomo di ogni tempo e si inscrive nel tempo di ogni uomo, tracciandone la storia nel suo divenire, dalla nascita fino alla morte.
Questa universalità trae le sue radici già sin dalla creazione, come narrato nei primi libri della Genesi, dove la relazione fra l’uomo e il creato si rende manifesta in termini di rapporto con quanto ci circonda; non ci troviamo di fronte ad un modello di solitudine dell’essere in quanto tale ma dinanzi ad un modello relazionale fra gli esseri e il creato e, di conseguenza, fra questi e il Creatore stesso.
L’uomo nasce ad immagine del Dio del Vecchio Testamento, ma in una posizione di dominio in quanto essere superiore concepito ad immagine di un Essere Superiore. “Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gn. 1, 2) “E Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra” (Gn. 1, 26). “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gn. 1, 27).
L’uomo, pertanto, è il trionfo delle ‘tenebre che ricoprono l’abisso’. Certamente una bella conquista ma anche una grande responsabilità. È in questa realtà immanente della creazione, del rapporto fra l’uomo e il creato, fra egli e il suo Dio, è proprio qui che nasce e prende vita la preghiera come fatto ed esperienza. In seno a tale forma esperienziale, l’homo religiosus, che è colui che cerca di instituire un ‘legame’ dialettico con il sacro e il sovrannaturale, sacralizza le dimensioni del tempo e dello spazio rendendole universali anch’esse.
Probabilmente questa figura di homo religiosus è andata sgretolandosi nella cultura e nel cuore dell’uomo decaduto dei nostri tempi, i tempi di una modernità che con il suo progresso ha tolto l’essenza alla sacralità del tempo, svuotandola dei suoi contenuti metafisici e riempiendola con modelli relazionali improntati al pragmatismo e al materialismo; ecco allora che la dimensione storica diventa una forma di abisso di cui aver paura, una dimensione senza più immaginazione e senza più la capacità di intuire il trascendente e di relazionarsi con esso.
Questa privazione della sacralità del tempo rende l’uomo della modernità vulnerabile, lo rende preda delle paure ancestrali come la paura del lutto e della morte; lo rende in apparenza forte del proprio pragmatismo nel suo aspetto esteriore ma debole e povero nella sua interiorità. Il suo tempo è un tempo imploso, svuotato del senso eterno che invece dovrebbe appartenergli costituendone l’essenza, è un tempo depauperato del senso e delle grandi promesse della storia, è un tempo malato di vacuità.
La preghiera, per l’homo religiosus, si può anche definire come il luogo dove l’essere umano, consapevole della sacralità e della universalità del proprio tempo e consapevole del proprio essere in termini ontologici, manifesta il proprio naturale desiderio di trascendenza instaurando una relazione col divino, con l’Essere trascendente per eccellenza. Il rapporto, in siffatta prospettiva, si preannuncia come una forma sublime di relazione dialogica con l’Altro, ma non solo, può essere anche un rapporto fatto di ascolto, e perfino di silenzio; insomma il campo esperienziale può non appartenere più alla parola in maniera esclusiva. Già nel Vecchio Testamento troviamo esempi di relazione con Dio in termini di ascolto.
Quando Salomone, terzo re d’Israele, viene interrogato dal suo Dio su cosa egli desiderasse, il giovane re chiede un cuore capace di discernere e ascoltare.
«Ora, Signore mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide mio padre. Ebbene io sono un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che ti sei scelto, popolo così numeroso che non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male» (1 Re 3, 7-9).
La preghiera e il rapporto uomo e Dio, nel loro orizzonte etico ed universale costituiscono un nucleo strutturale fondamentale nella cultura dell’uomo. Già a partire dalla letteratura sumerica, con i suoi testi mitologici e cosmogonici, passando per i testi accadici di Ishtar che discende nel regno degli inferi, fra celebrazioni e rivalità delle varie divinità, proseguendo poi col mondo greco con le sue teologie e i culti misterici e iniziatici, fino ad arrivare alla grande tradizione cristiana, il rito cultuale della preghiera è caratterizzato dalla controversa quanto naturale relazione dell’uomo col divino.
La preghiera è dialogo interiore nel suo riferimento col trascendente e con Dio; linguaggio ed esperienza sacrale che esprime il rapporto fra l’uomo e Dio. È nel momento stesso della creazione che l’uomo, conscio della propria finitezza, avverte una tensione verso il soggetto creatore che si esplica come bisogno interiore di illuminazione e di bellezza, come ricerca del significato eterno del tempo e che diventa preghiera nella sua forma più elevata, tensione dello spirito verso ciò che è infinito. In questo rapporto dialogico di comunione con l’Eterno, l’incontro col proprio Dio, sia che consista di silenzi, di domande o di semplice ascolto, diventa intimità, profondità che unisce, preghiera.
In una siffatta attrazione fra finito e infinito, imperfetto e perfetto, la preghiera va oltre il tempo e la storia, travalica le barriere dell’immanenza, diventa libertà dell’uomo e libertà del suo Dio, tensione mistica verso l’Assoluto, consapevole partecipazione. Si realizza così nella sua pienezza, per mezzo della preghiera, il desiderio più intimo del cuore dell’uomo, saldamente ancorato alle più profonde radici dell’indole umana: comunicare con quel Dio che non comprendiamo, che non vediamo, che non possiamo dimostrare come un fatto scientifico ed empirico, non possiamo percepire con l’ausilio dei sensi, ma che possiamo sentire e immaginare, perfino sperimentare nel silenzio della nostra interiorità, nella pace del nostro cuore.
La preghiera, come tentativo da parte dell’uomo di instaurare un rapporto col trascendente divino, è una linea comune che percorre le vie di tutte le religioni dell’umanità. Pur con le diversità di approccio dialogico proprie della tradizione culturale delle varie confessioni, il desiderio di comunicare col divino è sempre lo stesso, sia che si tratti di un cristiano nelle chiese e fuori da esse, di un musulmano dentro o fuori dalla moschea, di un ebreo che prega rivolto al muro del pianto, di un asceta indù o di un monaco tibetano.
Potremmo obiettare che la preghiera al Dio dei credenti, intesa come elevazione dell’anima a Dio, presupponga che vi sia un Dio, cioè che Egli esista, e che i credenti abbiano di ciò certezza e consapevolezza. È d’obbligo che il credente in quanto tale percorra interiormente il corridoio della fede per mettersi in comunicazione e vivere così la comunione col proprio Dio. Il credente, ancor prima di chiedere o di rivolgersi a Dio per il tramite della preghiera, si sente ‘chiamato’ da Dio, e allora la preghiera diventa una risposta a questa chiamata, in una sorta di ‘inversione’ del rapporto.
Ma fra le cose che sappiamo con certezza, c’è che Dio rimane indimostrabile. Egli non rappresenta una teoria né giammai un oggetto suscettibile di indagine scientifica o razionale. Egli resta inaccessibile, invisibile e misterioso agli occhi dell’uomo. La preghiera supera il senso negativo di tale inaccessibilità e dell’impenetrabilità del mistero stesso e, in quanto risposta alla chiamata di Dio, essa diviene il solo mezzo, l’unica possibilità di comunicazione. Il credente, pur cosciente della ‘alterità’ di Dio, del suo essere ‘Altro’, distante dal sé, nel momento in cui prega ha già acquisito la consapevolezza della sua esistenza, della sua vicinanza e soprattutto della sua capacità di ascolto, altrimenti la preghiera del credente non avrebbe senso e cadrebbe nel vuoto. Anzi è proprio la preghiera a riempire questo spazio metafisico, a dargli un senso cedendo il passo alla parola o anche nella dignità del silenzio, a colmare un vuoto ed una distanza incommensurabile.
Ecco che la preghiera si delinea come un punto fermo, luogo di incontro per tutti i credenti, anche se si muovono da posizioni dottrinali differenti. Se partiamo dal fatto che la preghiera sia una forma di dialogo con Dio, non possiamo prescindere dalla consapevolezza che il nostro interlocutore si trovi in una posizione di superiorità rispetto a noi; pertanto una delle condizioni necessarie e fondamentali di tale rapporto consiste nella nostra disposizione in termini di umiltà. Ecco cosa dice Abramo al Signore: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere” (Gn. 18, 27). Qui sono evidenti l’ammissione di inferiorità e il senso di umiltà.
L’essere umano è pertanto mendicante di Dio come ci ricorda sant’Agostino. Nel rivolgerci ad un ‘Altro’ che è Dio, la direzione del nostro pensiero e la preghiera diventano la via e il tramite. Dio è il nostro pensiero e noi stessi diventiamo ‘pensiero’ di Dio. Scrive Tommaso da Celano su san Francesco d’Assisi nella Vita secunda S. Francisci: «non tam orans, quam oratio factus”; non era soltanto uno che pregava, ma era diventato preghiera. E ancora sant’Agostino: “riconosciamo in lui la nostra voce e in noi la sua voce» (Esposizioni sui Salmi 85, 1).
Diversamente dalla filosofia greca e occidentale e anche in riferimento al mondo moderno, dove la soggettività dell’io resta prigioniera del determinismo degli dèi o del determinismo storico, nella tradizione ebraica e biblica l’uomo è reso soggetto responsabile capace di instaurare un rapporto dialogico con l’altro. Il parlare con Dio nella preghiera, riscatta l’uomo dal determinismo storico e gli conferisce una dignità identitaria tutta sua; l’antagonismo fra spirito e materia che troviamo alla base del dualismo greco e che è tanto caro alla prospettiva platonica, rimane estraneo alla tradizione e all’antropologia giudaico-cristiana e viene da esse ignorato; il pensiero ebraico intuisce l’essere umano come una unità psicosomatica indissolubile.
Individuare l’uomo come soggetto non più imprigionato né ostacolato dall’immanenza dei determinismi, conferisce all’uomo stesso quella dimensione di libertà nel rapporto con Dio che si attua attraverso la preghiera. Nel mettere in relazione l’uomo col soggetto di luce, la preghiera dà luce alla vita e all’esistenza dell’uomo e diventa in tal modo negazione della morte. Nella preghiera, l’esperienza di luce diviene il potere in grado di vincere le tenebre e la morte.
Appare evidente come, nel pregare, si istituisca un rapporto di una profondità tale da convergere in una comunione totale con l’Altro, una forma di intesa universale che fa percepire il sé dell’uomo così vicino al sé Dio da sentirsi un tutt’uno alleato con Lui. Questo concetto di alleanza ha radici antichissime. Sappiamo che la Bibbia racchiude in sé tutta la storia del rapporto fra il popolo di Israele e il suo Dio. La via di preghiera, che percorre per intero il testo biblico, si snoda parallela alla storia del rapporto dialogico con la divinità. Qui il Logos è parola e dialogo insieme. È proprio l’idea dell’alleanza che costituisce uno degli assi portanti del testo biblico nella sua interezza e lo caratterizza identificandolo universalmente come testo dialogico; nelle trame complesse della rete ifologica testuale, la concezione del divino si esprime tramite l’istituzione dell’alleanza.
In origine le alleanze facevano parte delle normative e delle procedure giuridiche delle popolazioni semitiche. Nella Bibbia l’alleanza diventa metafora del rapporto con Dio; qui il concetto di alleanza politica fra sovrani e sudditi si trasforma in alleanza divina fra Dio e il popolo di Israele. È in virtù di tale trasformazione metaforica che l’uomo conquista finalmente un’identità sua, libera dai legami del pragmatismo e dagli obblighi del determinismo storico, e che la stessa divinità finisce con l’essere concepita come un Altro assolutamente trascendente; nel rapporto di dialogo che si instaura attraverso la preghiera l’uomo realizza una percezione del mondo libero dal vincolo della storia e lo intuisce come ordine cosmico, come universo ontologico distinto dal caos naturale.
Il mondo si trasforma in un universo buono, illuminato dalla luce dell’Ente Supremo attraverso la preghiera. Per dirla col grande filosofo ebreo Rosenzweig, la preghiera istituisce l’ordine umano del mondo. Ma com’è possibile questa forma di ordinazione cosmica dove il mondo viene concepito come struttura libera dal caos? È proprio il legame speciale con la Luce dell’Ente Supremo istituito nel vincolo della preghiera a consentire il miracolo in seno alla creazione; la creazione viene intuita come ‘ordine’ in una nuova prospettiva liberatoria di catarsi naturale. La preghiera in tal modo restituisce al mondo la sua dignità ontologica e lo colloca all’interno dello spazio libero e ordinato della creazione. Leggiamo in Gn. 2, 8-9: “poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male”. E ancora in Gn. 2, 15: “il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”.
D’altra parte, nella continua ricerca dell’Assoluto, questi due differenti itinerari insiti nella preghiera si incontrano e si completano vicendevolmente. Attraverso la via cosmologica, l’uomo si mette in relazione con il mondo che gli sta attorno e quindi con il creato storico; seguendo invece l’itinerario antropologico, l’uomo si mette in relazione con il mondo che sta dentro di sé, quasi a ricalcare il principio aristotelico “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu”. L’uomo prova stupore, egli trae meraviglia nel contemplare lo spazio in cui è inserito il creato; è una forma sublime di stupore antico che appartiene alla cultura dell’uomo sin dalla notte dei tempi, e lo spinge a relazionarsi con l’Essere che è all’origine del creato in un’ansia di ricerca e un desiderio d’infinito innati e connaturati. È da questa osservazione che hanno origine le preghiere di ringraziamento, di riconoscenza e di lode verso la creazione e il suo Creatore. L’esperienza interiore e quella esterna si fondono in una percezione che arricchisce la coscienza umana nel suo cammino trascendentale, riducendo il divario che divide creatura, creato e Creatore, in una proiezione metafisica che è ricerca e necessità primordiale.
L’idea di alleanza ci riporta nel suo esplicarsi al concetto di protezione, accoglienza, accordo; all’interno del ‘patto’ o alleanza instauratasi tra l’uomo e Dio è lecito chiedere, ascoltare, protestare perfino. Le alleanze prevedono un confronto con l’altro che può essere conflittuale a volte; avviene così che, nel cuore del rapporto dialogico istituito attraverso la preghiera, confluisca un miscuglio di tutte quelle espressioni, gli umori, i tratti emotivi legati al nostro vivere quotidiano, dalle situazioni semplici a quelle più complesse.
Il rapporto esperienziale, soprattutto nel confronto col dolore e la sofferenza, implica reazioni neuropsichiche anche forti che trovano espressione nella preghiera sotto forma di atteggiamenti sia fisico-posturali che psichici e che intervengono in favore della intermediazione col divino. Già Evagrio Pontico, teologo e mistico greco del IV secolo, nei suoi scritti sulla preghiera, ci parla dell’importanza della concentrazione al fine di mantenere sordo e muto l’intelletto e di come le passioni siano pietra d’inciampo nel pregare; di come regolare la ritmicità del respiro coordinando gli atti respiratori e le relative posture con l’atto del pregare, introducendoci al significato del linguaggio sacro del corpo durante la preghiera. Anche Niceforo Esicasta, monaco calabrese del XIV secolo, argomenta sulla importanza del respiro come mezzo di unione e di incontro fra il cuore e la mente descrivendo pratiche di disciplina del respiro simili a quelle del pranayama, per far sì che la mente si allontani dagli stimoli sensoriali e dai desideri materiali preparandosi così alla comunione col divino.
Nella relazione dialogica, la preghiera si arricchisce di forme espressive molteplici come molteplici sono i nostri stati d’animo; la preghiera ci dà la dimensione dell’esistenza dell’uomo nel suo divenire. Uno degli impulsi più forti dell’esperienza esistenziale è il desiderio; il desiderio è un istinto primordiale insito nella natura umana; l’uomo riversa nella preghiera le proprie privazioni, le mancanze, le frustrazioni, i lamenti, la paura della solitudine, tutto per il desiderio di sentirsi felice, per il desiderio della salvezza eterna, il desiderio di sconfiggere la morte. Ecco allora che nella preghiera troviamo richieste di lodi, ringraziamenti, intercessione, suppliche, lamenti, proteste; le tipologie di preghiera sono praticamente infinite, tutte occupano lo spazio del dialogo fra l’esperienza del quotidiano, la tensione verso l’amore e la nostra ansia d’infinito; ma vi sono anche preghiere di adorazione, di contemplazione, di ascolto, di liberazione, di penitenza, di silenzio e di meditazione.
Una delle forme più semplici e se vogliamo anche più immature di preghiera è quella che esprime vocalmente delle formule già preconfezionate e quindi standardizzate che ci vengono tramandate già all’inizio della nostra personale esperienza spirituale; fra queste l’Ave Maria e lo stesso Pater Noster; si tratta di formulari appartenenti ad una fase di spiritualità appena ai primordi che sono di aiuto per abituare la mente ad iniziare una forma di dialogo. Nella preghiera meditativa invece non esistono vere e proprie formule, ma si dà spazio alla meditazione e quindi alla riflessione sulla parola scritta; si tratta già di un livello un po’ più elevato di comunicazione che presuppone, se non la conoscenza approfondita, almeno la capacità di ascolto della parola espressa nei testi.
La preghiera del cuore piuttosto va oltre la meditazione ed esprime il bisogno intimo di dialogo con la divinità, pretendendo quindi una forma maggiore di consapevolezza interiore. La preghiera contemplativa, è una forma molto alta di rapporto col divino che esclude il ragionamento come modalità propositiva e lascia piuttosto spazio al silenzio e alla contemplazione della meraviglia del divino intuendone il mistero.
Uno dei momenti di maggiore drammaticità nel quale si manifesta l’aspetto umano del figlio di Dio di fronte all’esperienza della sofferenza e del dolore nell’approssimarsi della morte, è la preghiera nell’orto del Getsemani. Sono ore oscure in cui Gesù prega tre dei suoi discepoli perché rimangano con lui e prega Dio che gli conceda la forza per affrontare il momento della svolta definitiva. Ricordiamo Mt. 26, 36-44:
»allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsemani, e disse ai discepoli: Sedetevi qui mentre io vado là a pregare. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. Disse loro: La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me. E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu. Poi tornò dai discepoli e li trovò che dormivano. E disse a Pietro: Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? Vegliate e pregate per non cadere in tentazione… E di nuovo, allontanatosi, pregava dicendo: Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. E tornato di nuovo trovò i suoi che dormivano, perché gli occhi loro si erano appesantiti. E lasciatili, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole».
Aggiunge Luca in Lc. 22, 44: «in preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra». Qui ci troviamo dinanzi ad un fenomeno a dir poco strano che sembra essere la diretta conseguenza di un momento culminante ed intensissimo del pregare, e per spiegarlo ci vengono in aiuto la moderna psichiatria e la dermatologia. È un uomo in piena crisi di panico quello descritto dagli evangelisti. Prega faccia a terra, come un ebreo qualunque; non è una preghiera ufficiale dunque, ma si tratta di un’invocazione personale. È questo che esprime la posizione del corpo durante la preghiera ‘faccia a terra’. Poi c’è l’ematoidrosi, il sudore di sangue puntualizzato da Luca (ricordo che Luca, greco di Antiochia, al tempo provincia romana di Siria, era medico e pertanto non stupisce la sua analisi dei particolari). Si tratta di un fenomeno molto raro che si produce in condizioni eccezionali di stress e spossatezza fisica accompagnata da emozione violenta o grande paura. Il terrore e l’angoscia hanno avuto il sopravvento sull’uomo. La fortissima tensione produce la rottura dei sottilissimi capillari al di sotto delle ghiandole sudoripare, allora il sangue si mescola al sudore ed emerge raccogliendosi sulla pelle come gocce.
Il racconto evangelico evidenzia l’insistenza di Gesù nel pregare in quel particolare frangente e con i suoi che addirittura si addormentano. Ma Gesù prega anche quando, sulla croce, sente che la vita a poco a poco gli sfugge. Qui, la sua, diventa una preghiera per il perdono degli uomini che lo perseguitano: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” Lc. 23, 34. Ma nei testi esiste anche una preghiera della luce, per mezzo della quale l’uomo chiede che gli si faccia dono della sapienza e del discernimento per illuminare il suo pensiero: Sap. 7, 10:
«per questo pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito della sapienza. La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto; non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte ad essa l’argento. L’amai più della salute e della bellezza, preferii il suo possesso alla stessa luce, perché non tramonta lo splendore che ne promana».
La luce della conoscenza che si chiede attraverso la preghiera, è tale da superare i misteri della magia. Nel libro di Daniele si racconta come questi fosse in grado di svelare enigmi sui quali era stato interrogato dal re Nabucodonosor, enigmi sconosciuti perfino ai maghi della corte reale. Dan. 2, 27-28: “il mistero di cui il re chiede la spiegazione non può essere spiegato né da saggi, né da maghi, né da astrologi, né da indovini; ma c’è un Dio nel cielo che svela i misteri”. Ciò è possibile solo grazie al contatto col divino per il tramite della preghiera.
Un posto a sé merita poi la preghiera del silenzio. Qui il silenzio interiore occupa il luogo della parola. Ma non si tratta di un silenzio percepibile come vuoto, come semplice assenza di parola, un silenzio fatto di nulla; è piuttosto un silenzio consapevole dentro il quale si rivela la presenza di Dio, un Dio pensato nel silenzio di un momento in cui lo spazio della parola assente si riempie di comunicazione interiore.
È lo spazio più intimo della preghiera dell’uomo, dove la parola taciuta è presente ed è viva come parola interiorizzata ma con lo stesso valore espressivo e pari dignità comunicativa.
Rivediamo in proposito il testo di Matteo in Mt. 6-8:
«quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate».
Una forma eloquente di silenzio è quella di Elia che cerca Dio e si incammina nel deserto verso il monte Oreb, la montagna di Dio (il Sinai biblico). Elia è perseguitato e spaventato, vuole morire per porre fine al suo tormento, ma è desideroso di incontrare ancora il suo Dio. Le teofanie avevano sempre un qualcosa di ‘rumoroso’ nella tradizione biblica, ed Elia attende la manifestazione divina in una fiamma di fuoco o uno stravolgimento della natura. Il primo libro dei Re ci narra di quell’incontro. I1 Re 19, 8-13:
«si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb. Ivi entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco il Signore gli disse: Che fai qui, Elia?. Egli rispose: Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita. Gli fu detto: Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore. Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: Che fai qui, Elia?».
In quella silenziosa brezza leggera del vento si rivela il Dio d’Israele; anche qui un silenzio che diventa comunicazione e incontro. Altre volte la parola prorompe in maniera più determinata ed enfatica a sottolineare la sua potenza in grado di sconvolgere la storia: libro della Sapienza 18, 14-15:
«mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile».
Il silenzio, come spazio di canalizzazione del pensiero, identifica in sé il luogo dove confluiscono i flussi della coscienza; la ricchezza di un tale fluire di coscienza è veicolo di comunicazione. Probabilmente è questo il significato dell’invito al silenzio negli ordini monastici medievali, fino a farne proprio una regola. Una forma di meditazione profonda che ha come punto di partenza il silenzio è l’esicasmo. Si tratta di una pratica ascetica in uso nell’Oriente cristiano. Il silenzio è mirato al raggiungimento del massimo grado di raccoglimento interiore e della pace nel cuore. La preghiera diviene quiete assoluta che culmina nell’abbandonarsi totalmente a Dio in uno stato di comunione profonda fino alla sublimazione nell’estasi. Esiste un’affinità fra la preghiera dell’esicasta e il dhikr dei Sufi. Qui ci confrontiamo con un atto devozionale nel rispetto dei dettami coranici che esortano al continuo ricordo di Dio.
Dal Corano 63, 9: «o credenti, non vi distraggano dal ricordo di Allah i vostri beni e i vostri figli. Quelli che faranno ciò saranno i perdenti». E ancora 24, 35-37:
«Allah è la luce dei cieli e della terra… Luce su luce. Allah guida verso la Sua luce chi vuole Lui e propone agli uomini metafore. Allah è onnisciente. (E si trova questa luce) nelle case che Allah ha permesso di innalzare, in cui il Suo Nome viene menzionato, in cui al mattino e alla sera, Egli è glorificato da uomini che il commercio e gli affari non distraggono dal ricordo di Allah, dall’esecuzione dell’orazione, dall’erogazione della decima e che temono il Giorno in cui i cuori e gli sguardi saranno sconvolti».
Seguendo la raccomandazione coranica di ricordare e menzionare il nome di Dio, i dervisci prendono il distacco dalle lusinghe mondane per entrare in comunione col divino. Il dhikr è preghiera continua anche silenziosa, è menzione e ripetizione incessante del nome di Dio, è un abbandonarsi estatico nel quale il derviscio acquisisce gradatamente una condizione ‘extraordinaria’ di coscienza in un perfetto equilibrio fra mente e corpo, movimento e respiro. La psicofisiologia dell’estasi troverebbe qui elementi di relazione con la neurofisiologia; ma l’indagine tecnico-scientifica non è detto che possa analizzare totalmente lo stato di coscienza, almeno non tanto da spiegare tutto ciò che accade al sé individuale; rimane sempre un limite oltre il quale l’esperienza spirituale dell’uomo non è analizzabile dalla scienza moderna.
Sulla via di Dio ogni sforzo non è mai sufficientemente adeguato; il divino va desiderato, va cercato con convinzione, non vi sono concessioni gratuite. Il dialogo che si realizza con la preghiera richiede un impegno, uno sforzo che può diventare una lotta con se stessi. Questa necessità è testimoniata già nella Scrittura, sono i testi che ci raccontano come il pregare sia una lotta. Mosè, nel libro dell’Esodo, invoca in battaglia l’aiuto del Dio d’Israele e tende ad Esso le mani in uno sforzo che non è capace di sostenere da solo. Es. 17, 8-16:
«allora Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim. Mosè disse a Giosuè: scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio. Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne, e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek. Poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo passandoli poi a fil di spada. Allora il Signore disse a Mosè: Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalek sotto il cielo!».
È necessario dunque che l’uomo si sforzi senza interruzione, che non si lasci sopraffare dalla stanchezza, per vivificare il rapporto di comunione e di sostegno reciproco. E ancora in Gn. 32, 25-33:
«Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora. Giacobbe rispose: Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!. Gli domandò: Come ti chiami?. Rispose: Giacobbe. Riprese: Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!».
Qui Giacobbe è solo e impaurito al pensiero di incontrare suo fratello Esaù; viene afferrato e inizia così la sua lotta con quell’aggressore che non conosce ancora. La lotta si protrae fino allo spuntare dell’aurora. Giacobbe intuisce che sta lottando con il suo Dio, e Dio lotta con l’uomo per infondergli coraggio.
Un elemento che caratterizza la preghiera in tutte le religioni è la necessità del combattimento inteso come sforzo, lotta, impegno sulla via di Dio che poi comprende anche la preghiera. La tradizione islamica intende così il jihad. L’islam distingue un jihad esterno, la cui finalità è la difesa dagli attacchi esterni, ma anche la diffusione della propria fede; questa forma di jihad, può in alcuni casi degenerare fino alla lotta armata e alle sue estreme conseguenze; il credente può perfino giungere a sacrificare la propria vita in nome di Dio, e diventare così un martire, uno ‘shaid’, un testimone della propria fede. Basti pensare al cristianesimo primitivo e ai suoi martiri per trovarvi elementi comuni. Vero è che nella forma degenerata del jihad esterno, in riferimento all’islam, il martire della fede si identifica con un guerriero armato, ma è altrettanto vero che, nel cristianesimo medievale, l’impegno dei fedeli assunse pure caratteri di guerra traducendosi in lotta armata come nel caso delle crociate.
V’è poi un jihad interiore, una lotta dell’individuo rivolta verso se stesso, un jihad dell’anima, un impegno spirituale dell’uomo finalizzato alla conoscenza di Dio e alla comunione con Lui. Si tratta di un notevole sforzo etico in nome della religione. Nel suo significato più intrinseco e genuino, la lotta di cui l’uomo è protagonista nella preghiera, si rivolge alle tentazioni del vivere quotidiano, ai vizi, gli ozi, gli agi che distolgono lo spirito dalla via di Dio. La preghiera di certo prevede delle condizioni cui lo stile di vita dell’uomo moderno dà poco spazio; risulta sempre più difficile trovare lo spazio e il tempo per il raccoglimento e la meditazione. Può perfino apparire insensato ricercare un Dio invisibile in una società ormai strutturata in rete, caratterizzata dalla civiltà della comunicazione dove ha un senso solo ciò che ha un’immagine e dove non c’e posto per il silenzio né per l’ascolto interiore.
Ma vediamo adesso quali sono sull’uomo gli effetti della preghiera. Fa bene la preghiera? E soprattutto, ha ancora un senso pregare, oggi, all’alba del terzo millennio? Alexis Carrell, scienziato francese del secolo scorso e Nobel per la medicina nel 1912, nel suo libro La preghiera (1941), spiega il rapporto fra l’uomo e la preghiera come forma di necessità e analizza le sue ripercussioni sul piano fisico e psichico. La preghiera non è un rifugio per mendicanti, ma una prerogativa che appartiene ad ogni uomo. Eppure, in una civiltà come la nostra, che ha perso il senso e la cultura del sacro, praticare la preghiera è ritenuta un’abitudine aliena.
«La preghiera agisce sullo spirito e sul corpo in un modo che sembra dipendere dalla sua qualità, dalla sua intensità, dalla sua frequenza. È facile conoscere qual è la frequenza della preghiera e, in una certa misura, la sua intensità. La sua qualità, invece, resta sconosciuta, perché noi non abbiamo il mezzo di misurare la fede e la capacità di amore degli altri. Tuttavia, il modo di vivere di colui che prega può illuminarci sulla qualità delle invocazioni che egli innalza a Dio. Essa (la preghiera) fortifica nello stesso tempo il senso sacro e il senso morale.
Gli ambienti nei quali si prega sono caratterizzati da una certa persistenza del senso del dovere e della responsabilità, da una minor gelosia e malvagità, da qualche bontà nei rapporti col prossimo. Sembra dimostrato che, a parità di sviluppo intellettuale, il carattere e il valore morale sono più elevati negli individui che pregano, anche in modo mediocre, che in quelli che non pregano. A poco a poco si produce una pacificazione interiore, un’armonia delle attività nervose e morali, una maggiore resistenza alla povertà, alla calunnia, alle preoccupazioni, la capacità di sopportare, senza accasciarsi, la perdita delle persone care, il dolore, la malattia, la morte. La purezza dello sguardo, la tranquillità del contegno, la gioia serena dell’espressione, la virilità della condotta e, quando è necessario, la semplice accettazione della morte del soldato o del martire, rivelano la presenza del tesoro nascosto nel fondo degli organi e dello spirito.
Sotto quest’influenza anche gli ignoranti, i tardi, i deboli, i poco dotati utilizzano meglio le loro forze intellettuali e morali. La preghiera – come pare – solleva gli uomini al di sopra della statura mentale loro propria per eredità o per educazione. Gli effetti della preghiera non sono un’illusione. Non bisogna ridurre il senso sacro all’angoscia dell’uomo davanti ai pericoli che lo circondano e davanti al mistero dell’universo. Né bisogna fare unicamente della preghiera una pozione calmante, un rimedio contro la nostra paura della sofferenza, della malattia, della morte. Qual è dunque il significato del senso sacro? E quale posto assegna la natura stessa alla preghiera nella nostra vita? In realtà è un posto molto importante.
In tutte le epoche gli uomini dell’Occidente hanno pregato. La città antica era principalmente un’istituzione religiosa. I Romani innalzavano templi ovunque. I nostri antenati del Medio Evo coprivano di cattedrali e di cappelle gotiche il suolo della Cristianità. E ai nostri giorni ancora, al di sopra di ogni villaggio s’innalza un campanile. Con le chiese, come con le università e le officine, i pellegrini venuti dall’Europa trapiantarono nel Nuovo Mondo la civiltà occidentale. Nel corso della nostra storia pregare è stato un bisogno elementare come quello di conquistare, di lavorare, di costruire o di amare. Noi abbiamo imparato, attraverso una dura esperienza, che la perdita del senso morale e del senso sacro nella maggioranza degli elementi attivi di una nazione porta alla decadenza di essa e al suo asservimento allo straniero.
La caduta della Grecia antica fu preceduta da un fenomeno analogo. È evidentissimo che la soppressione delle attività mentali volute dalla natura è incompatibile con la riuscita della vita. In pratica, le attività morali e religiose sono legate le une alle altre. Il senso morale svanisce poco dopo il senso sacro. L’uomo non è riuscito a costruire, come voleva Socrate, un sistema di morale indipendente da ogni dottrina religiosa. Le società nelle quali scompare il bisogno di pregare generalmente non sono lontane dal processo irreversibile di degenerazione. «La preghiera potrebbe dunque essere considerata come l’agente delle relazioni naturali fra la coscienza e il suo proprio ambiente. Come un’attività biologica dipendente dalla nostra struttura. In altri termini come una funzione normale del nostro corpo e del nostro spirito» Carrel 1986: 28,44).
Carrell pone l’accento sulla pacificazione interiore di chi prega, su un equilibrio armonico fra l’attività nervosa e quella morale; un individuo che prega ha una struttura etica più elevata rispetto a chi non lo fa; nella preghiera, il senso del sacro supera l’angoscia sublimandola e consegna l’uomo consapevole al mistero dell’universo.
Non è poco in una civiltà come quella occidentale che ha perduto strada facendo il proprio senso d’identità; la forte crisi identitaria che è anche crisi politica e religiosa, unitamente alla perdita del senso etico, si trasforma in debolezza, in mancanza di forza che rende la nostra civiltà vulnerabile e facilmente aggredibile da chi, per mire di conquista o per diffondere una fede che crede migliore o per recriminazioni storiche e vendetta (l’Occidente ha una storia pesante sulle spalle) guarda la nostra civiltà e la vede come una terra desolata che non ha più nulla da trasmettere, nulla da insegnare a nessuno.
In tal senso possiamo affermare che la preghiera a suo modo fa la storia e istituisce l’ordine del mondo. Se la secolarizzazione della società occidentale col suo processo di desacralizzazione rivendica all’uomo un’autonomia ontologica dinanzi alla fede e al trascendente, il periodo postmoderno demolendo ogni forma di certezza, ci consegna al dominio del nichilismo etico ed esistenziale. Si assiste ad una frammentazione del tempo dell’uomo dove si perdono le certezze conquistate nella storia. In una civiltà svuotata dei suoi significati costituenti, la stessa razionalità dell’Illuminismo si ritrova a cedere il passo a nuove forme speculative.
Rimane almeno una certezza: gli uomini hanno sempre elaborato il loro pensiero nella ricerca di Dio seguendo le proprie disposizioni culturali e le proprie convinzioni. Vale la pena ricordare come nel cristianesimo delle origini, già all’alba del II secolo, vi fu un proliferare di culture, tradizioni e dottrine che confluirono insieme in correnti, dando vita ad un ‘universo polemico’ dentro il quale gli esponenti delle varie fazioni ebbero modo di scontrarsi e di confrontarsi per fare prevalere le proprie convinzioni, ciascuno con la propria interpretazione del divino e tutti in lotta per la supremazia del pensiero. Muovendo da diverse concezioni filosofiche e dottrinali, nacquero numerose correnti interpretative, alcune di stampo più sociale e progressista, altre più in sintonia con una matrice politica nazionalista ed estremista, altre ancora con tendenze e vocazioni orientate verso lo spiritualismo e l’ascetismo; ma il credo nel Dio di Abramo restava un punto fermo per tutti.
Ancora oggi il mondo dei credenti si ritrova a confrontarsi con questo universo polemico, crogiolo di culture diverse in cui si scontrano differenti ambiti dottrinali. Materia comune, in seno alle confessioni abramitiche, ebraismo, islam e cristianesimo, è la consapevolezza del proprio credere in un essere superiore chiamato Dio, e questo vale per tutti e tre i monoteismi. Di sicuro il desiderio, il bisogno, l’istinto dell’uomo nella ricerca di Dio, rappresenta qualcosa che trascende i confini della singola appartenenza, della tradizione politica o religiosa, di una corrente di pensiero piuttosto che un’altra. Nel suo personale cammino alla ricerca di Dio, l’uomo travalica il limite di se stesso, i confini del sé materiale, divenendo Dio egli stesso in quel momento, perché proietta il suo pensiero verso un pensare universale ed eterno; diventa sogno poiché Dio è sempre stato il grande sogno dell’uomo e forse, se un Dio esiste veramente, tutta l’umanità potrebbe essere il grande sogno di Dio.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Riferimenti bibliografici
CARREL A., La Preghiera, Morcelliana, Brescia, 1986.
EHRMAN B.D., I Cristianesimi perduti, Carocci, Roma, 2005.
HALLESBY O., La preghiera, G. E. Laiso (Curatore), B. Gasparotto (traduttore), Uomini nuovi, 1997..
HELLER A., Per un’antropologia della modernità, Ugo Perone, Rosenberg &Sellier, Torino, 2009.
PADIGLIONE V. (a cura di), Le parole della fede: forme di espressività religiosa, Dedalo, Bari, 1990
ZAGANO P., Lettera sulla Preghiera, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2018.
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Antonio Bica, specializzato in Studi Orientali all’Università di Napoli “L’Orientale”; studioso di cultura e civiltà del Medio Oriente, ha svolto studi antropologici e linguistici nella Valle dell’Eufrate, Sud-est asiatico, Yemen, Nepal, Subcontinente Indiano, Etiopia e Corno d’Africa. Autore di reportages fotografici in zone di guerra, Libano, Siria, Alture del Golan, Valle di Quneitra. Si occupa di studi di fisiopatologia e aspetti medico-legali della morte di Gesù di Nazareth. Premio Speciale per la Cultura 2012 e 2015, Ordine dei Medici-Chirurghi della provincia di Trapani.
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