di Paolo Cherchi
Marino viene associato alla “meraviglia” estetica, cioè a quel tipo di creazione artistica che desta stupore perché sorprende il lettore con immagini, finzioni, giri linguistici imprevisti e alquanto inconsueti. Di solito tali sorprese si realizzano nel piano linguistico con metafore ardite o con i “concetti” che si ottengono spesso usando impropriamente i “predicamenti” o le categorie che Aristotele elenca nelle sue Categorie. Sono dieci: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione, averi, azione, patire. Per cui se dico che “Il silenzio scendeva a passi rapidi” sto usando impropriamente il verbo ‘scendere’ e la categoria di “azione”, che non si addice al sostantivo “silenzio’ che semmai “ si diffonde”, e l’idea di dargli piedi e gambe sembra allontanarsi dal principio della mimesi e affidarlo ad una discorso metaforico che ha sempre bisogno di raccordi fra realtà diverse. E quando le metafore di questo tipo sono “oltranzose”, allora si creano quei “concetti” che la letteratura secentesca privilegiava.
Ma Marino trovò altri modi di “stupire”, e di farlo in modo che lo stupore avvenga con ritardo e addirittura come un’illuminazione dopo un’iniziale svalutazione del prodotto che viene presentato. Tale passaggio da una leggera delusione ad un apprezzamento intensifica il piacere della “meraviglia” perché crea la sensazione che questa dipenda da una nostra scoperta effettuata senza il sussidio di una segnaletica particolarmente rilevata.
Facciamo un esempio di quel che vogliamo dire, leggendo un sonetto come il seguente:
Oh che dolce sentier tra mamma e mamma
scende in quel bianco sen ch’Amore allatta!
Vago mio cor, qual timidetta damma,
da’ begli occhi cacciato, ivi t’appiatta.
Da l’ardor, che ti strugge a dramma a dramma,
schermo ti fia la bella neve intatta:
neve ch’ognor da la vivace fiamma
di duo soli è percossa e non disfatta.
Vattene pur, ma per la via secreta
non distender tant’oltre i passi audaci,
che t’arrischi a toccar l’ultima meta.
Raccogli sol, cultor felice, e taci,
in quel solco divin (se ’l vel nol vieta),
da seme di sospir messe di baci.
È un sonetto che non sembra avere niente di quella “preziosità” del Marino che conosciamo: rime come mamma, allatta sono del linguaggio basso, piatto e senza forza; ripetizioni come a dramma a dramma hanno poco del linguaggio illustre, e il prevedibile vivace fiamma non ha alcuna carica memorabile. Ma chissà, forse proprio queste note di pallido colore sono una spia di ciò che Marino intende fare; e in effetti Alessandro Martini [1], che ha per primo ha indicato la “meraviglia occulta” di questo sonetto ha indicato il modo di valorizzare questo componimento annunciato come erotico, ma poi povero di eros. Il titolo lo annuncia come “procace” e molto lontano dall’aura petrarchesca. Ed è un altro indizio che sembra contraddetto dalla scarsa carica erotica che abbiamo notato.
Ma i grandi autori non fanno errori così vistosi senza una qualche ragione. E infatti il sonetto si può leggere seguendo solo i primi emistichi, cioè “o che dolce sentier – scende in quel bianco sen – Vago mio cor – da’ begl’occhi cacciato – da l’ardor che ti strugge – schermo ti fia – la neve ch’ognor – da due soli e’ percossa. – Vattene pur, non distender tant’oltre – che t’arrischi”. Se poi nell’ultima terzina ci fermiano sulla /o/ tonica di “sol” (sillaba 4), di “solco” (sillaba 3) e di /e/ di “se’l”, quindi nel verso ultimo gli accenti sulla /e/ della seme (sillaba 2), su /o/ di “sospir” (sillaba 5) e infine sulla /e/ di “mésse”, sillaba 8), vediamo configurarsi un triangolo così fatto
SO (4)
SO (3) SE (7)
SE (2) SO (5) SE (8)
Quindi vediamo che dal sonetto emerge un disegno fatto da una linea perpendicolare che segue il solco del “seno” e attraversa il componimento dal v. 1 al v. 11, e a quel punto viene a congiungersi con un triangolo dei vv. 12-14. Improvvisamente vediamo che Marino ha voluto “dipingere” la linea amoris o Veneris presente in tanta letteratura medievale e rinascimentale sull’amore! Il sonetto è un carme figurato che contiene un disegno dell’oggetto del desiderio sessuale. Le parole si conformano a disegnare l’oggetto che il pudore poetico tiene celato, ma la disposizione delle parole guida il lettore ad identificarlo. Ricordiamo: è un lettore che a prima vista rimane freddo davanti ad un componimento simile a mille altri, ma poi ne vede e ne apprezza la singolarità compositiva e il messaggio nascosto in essa. Questa è una nuova forma di “meraviglia” che Marino sa creare in modo non clamoroso, anzi in un modo così dimesso da sembrare ingenuo o da principiante; poi però, una volta scoperto il disegno, tutto cambia, e la ‘meraviglia’ che ne consegue diventa d’un colpo intensa e gratificante perché il lettore in qualche modo se l’è conquistata.
Lo stesso accade in un episodio che descrive una periegesi di Venere nel Mediterraneo centro-orientale, un episodio di dimensioni ben più vaste del sonetto appena visto, e che è stato notato da chi scrive in tempi recenti [2], ossia ben tre secoli dopo la pubblicazione dell’Adone: questo per dire che la meraviglia spesso non è posta in evidenza, anzi è celata perché la sorpresa sia maggiore nel momento in cui venga rilevata. Si tratta dell’episodio del viaggio di Venere da Cipro – dove la dea risiede con l’amato Adone – all’isola di Citera, l’attuale Kythera nello Ionio di fronte all’Attica. Non è un viaggio lineare, ma, per le ragioni che vedremo, ha un percorso tortuoso e molto ampio che tocca le coste sia dell’Anatolia e del Mar Nero che della Sicilia. Per seguirlo e ricavarne la “meraviglia” che contiene dobbiamo illustrarne il contesto.
Intanto ricordiamo che l’episodio in questione è narrato nel canto XVII dell’Adone, il poema più lungo della letteratura italiana. E per contestualizzarlo nell’insieme del poema, ricordiamo che la storia dell’amore tra il giovanetto eroe e la dea Venere sta per chiudersi, e in effetti nel canto XX, l’ultimo, si narrano giochi funebri per ricordare l’eroe eponimo del poema. Già nel canto XVI Adone viene eletto Re di Cipro avendo vinto un concorso di bellezza. Nel canto seguente, i due amanti accusano segni di stanchezza per cui accolgono senza remore la possibilità di un qualche mutamento. Venere deve e vuole essere presente a Citera fra i suoi devoti che hanno organizzato una celebrazione rituale in suo onore, quindi per la prima volta deve separarsi da Adone. Questi come compenso riesce ad estorcerle il permesso di andare a caccia, rompendo così il divieto che gli era stato imposto perché l’attività venatoria potrebbe riuscirgli fatale.
Venere si accinge a partire e sulla riva del mare fa la sua toeletta assistita dalle Grazie. È un episodio splendido di quell’alessandrinismo mariniano che sa cesellare quadri di indimenticabile preziosismo: e preziosi sono i dettagli con cui si narra dell’acconciatura dei capelli della dea, dell’incipriamento, del colori e pieghe dei suoi veli, della luce dell’alba di un cielo limpido. Il tutto mira a creare una sospensione del tempo che instaura un’aura di felice attesa, e che, come si può dedurre da quanto segue, riorienta la storia dell’amore, vissuto fino a quel momento con grande felicità. A rendere più fastosa e variopinta questa toeletta si aggiunge una schiera di amorini che parte per convocare Tritone il quale dovrà trasportare sul suo dorso la dea anadiomene. Tritone arriva e Venere sale sul suo dorso, e il mostro, proteggendo la dea con la sua coda che si apre ad ombrello, parte alla volta di Citera. Tutto questo episodio dura per circa quaranta ottave (65-102), e già questa lunghezza dà un’idea dell’assaporamento di una descrizione lenta dalla quale emerge Venere con tutta la sua bellezza che irradia luce.
Quando il viaggio è ben inoltrato, emerge improvvisamente dal fondo del mare il dio marino Proteo che annuncia a Venere che il suo Adone è stato ferito gravemente dal morso di un cinghiale, e può salvarlo dalla morte solo un’erba di cui è in possesso il dio Glauco, il quale si trova nel Ponto Eusino, ossia nel Mar Nero. Venere chiede a Tritone di cambiare rotta e di portarla da Glauco, e di farlo entro quel giorno perché i suoi devoti a Citera l’aspettano per festeggiarla. Comincia quella che abbiamo chiamato la “periegesi” di Venere perché il suo itinerario finirà per essere una vera visita-descrizione delle coste del Mediterraneo. E non solo di quelle che Tritone costeggia nel percorso da Cipro al Mar Nero, ma anche di quelle toccate nello spostarsi dal Mar Nero alla Sicilia, e quindi a Citera. Questo secondo spezzone del viaggio è dovuto al fatto che Glauco risulta irreperibile nel Mar Nero in quanto si sarebbe recato in Sicilia, e, come vedremo, non sarà più neanche in Sicilia. Noi seguiremo questo viaggio perché ci farà scoprire un Mediterraneo che si rivela come un deposito di memorie mitologiche, e nello stesso tempo, produrrà la “meraviglia” che abbiamo annunciato.
Tritone è un mostro marino la cui velocità fa rilevare l’ampiezza del mare. Nel primo tratto del viaggio, tutto a mare aperto, i punti di riferimento che fanno percepire la velocità sono il movimento delle onde, suscitate dal mezzo motorio, e della fauna marina che emerge a salutare il passaggio della dea, ma poi entrano nella scena anche luoghi diversi e genti varie. In effetti il viaggio di Venere dà vita, risveglia, possiamo dire, il Mediterraneo, poiché tutti i suoi abitanti sottomarini salgono alla superficie a salutare il suo passaggio, e le coste ridenti costituiscono il mutevole scenario che sembra testimoniare e festeggiare la fuggevole dea dell’amore:
107
De’ promessi imenei lieto e gioioso
e del’incarco suo Tritone altero,
non fende già del pelago spumoso
per dritto solco il liquido sentiero,
ma va con giri obliqui il campo ondoso
attraversando rapido e leggiero,
rapido sì, che suol con minor fretta
sdrucciolar saettia, volar saetta.
108
Arridon tutti al trapassar di lei
de’ regni ondosi i cittadini algenti.
Alcun non è de’ freddi umidi dei
che non senta d’amor faville ardenti.
Rinovella Alcion gli antichi omei,
ardon l’alghe, ardon l’aure, ardono i venti.
Umili i flutti e mansuete l’acque
riconoscon la dea che da lor nacque.
109
Sorge dal fondo cupo e cristallino
cantando a salutarla ogni sirena.
Ciascuna ninfa e ciascun dio marino
alcun mostro del mar preme ed affrena;
cavalca altri di lor curvo delfino,
altri lubrica conca in giro mena;
e tutti fan da quella parte e questa
a sì gran passaggiera applauso e festa.
110
Nice, una tigre, orribil mostro e sozzo,
terror del’ocean, con alga imbriglia;
Ligia, un montone il cui feroce cozzo
le navi e i naviganti urta e scompiglia;
tien di verde giovenco avinto il gozzo
con molle giunco Panopea vermiglia;
Leucotoe bianca, con rosato morso
di cerulea leonza attiensi al dorso.
111
Regge Temisto a fren pigra lumaca,
Cidippe un ceto con le fauci aperte.
Nele latebre d’una grotta opaca
margarite e zaffir coglie Nemerte
ed a quel sol che’l mar tranquilla e placa
ne fa votive e tributarie offerte.
Corrono in un drappel dal’onda eoa
Ippo, Euanne, Calipso, Acasta e Toa [3].
Sono alcune delle ottave che danno l’idea della festa che il mondo marino celebra al passaggio di Venere. La rievocazione di divinità e personaggi mitici e di altri esseri marini si protrae per altre dieci ottave. È uno squarcio prezioso di grande sfoggio erudito e il miracolo è che, pur essendo una sorta di catalogo, non tedia il lettore, grazie soprattutto all’impressione di velocità vertiginosa creata dall’associazione di personaggi e luoghi ad indicazioni minime essenziali che bastano a identificare le persone e le caratteristiche principali per le quali vengono consegnati alla letteratura e alla memoria. La rapidità consente di moltiplicare i nomi e quindi di popolare la distesa marina di vere moltitudini di personaggi mitici. La natura e la storia sono in tripudio, e potremmo vedervi una forma di quella “simpatia della natura” che ci ha fatto conoscere la lirica petrarchesca. I ricordi geografici e mitologici riportati in vita dal passaggio di Venere portano un’aria di mare greco, di quel mare che è stato la culla della mitologia, e con questo ricordo il tempo storico si perde indietro all’infinito.
Ora, durante questo viaggio quasi oblioso di Venere, succede qualcosa di anomalo. Improvvisamente, dagli abissi emerge Proteo con un messaggio funereo che turba la gioia alla quale tutta la natura sembra prender parte:
120
Ed ecco insu quel punto uscir di fianco
Proteo, del ciel del’acque umido nume,
Proteo, che’l gregge suo canuto e bianco
menar ai salsi paschi ha per costume,
Proteo, saggio indovin che talor anco
si cangia in sterpo, in sasso, in fonte, in fiume,
talor prende d’augel mentito volto,
talor sen fugge in fiamma o in aura sciolto.
L’annuncio forza Tritone ad essere ancora più veloce, perché il viaggio sarà più lungo, ma il tempo previsto rimane sempre quello di un giorno, e avremo un nuovo viaggio entro un viaggio previsto. La rassegna dei luoghi sarà più ampia ma anche più sommaria, ma non andrà a scapito di ciò che Marino intende fare
Il percorso di Tritone alla volta del mar Caspio è marcato da una serie di luoghi intravvisti dal largo ma mai toccati. Sono isole, porti e città di cui viene menzionato il nome e un mito o un epiteto che serve a identificarli, collocandoli nella storia della mitologia. Il viaggio «rade pria Rodo» (143) dove nacque la figlia di Ciprigna (Venere) e del Sole, cioè Armonia; e dove Minerva ebbe i suoi primi altari e dove si erge il Colosso «immensa mole Simulacro del sol ch’offusca il sole» (143). Sfiora Creta, di cui vengono ricordate le “cento città”, il bosco di Giove, il labirinto, il monte Ideo “che ’l dittamo conserva” (144). Riportiamo le due ottave che seguono per vedere come le allusioni mitologiche si susseguano con un ritmo che dà il senso della velocità del viaggio:
145
Ad Egla poi, che fu poi detta Sime
dala figlia d’Ialiso, ne viene.
E Telo incontra che le glorie prime
de’ fini unguenti dala fama ottiene.
Dele Calinne le frondose cime,
d’Astipalea le pescarecce arene
varca e pur degli amori amato nido,
di duo porti superba, addita Gnido.
146
Scopre Nisiro al cui pesante sasso
Polibote soggiace e poscia vede
l’alto muro e ’l castel d’Alicarnasso
de’ principi di Caria eccelsa sede,
e’l mausoleo che’n quel medesmo passo
dela fè d’Artemisia altrui fa fede,
e non lontano Salmace che ’n doppia
forma duo sessi, osceno fonte, accoppia.
Sono due campioni del modo in cui procede il viaggio, fatto di tappe appena sfiorate e nell’insieme creano l’impressione che il Mediterraneo sia un immenso archivio di vicende tutte distinte ma tutte appiattite nel tempo, e tutte facenti parte di un immenso affresco dipinto sulla grande tela del mare: i personaggi e i paesaggi sono antichi, ma i colori non hanno perso la freschezza originale. L’escursione suscita l’impressione surreale di muoversi sulla stessa tela e vedere personaggi che però esistono solo come ricordo. La magia del mare sa conservare le isole anche quando chi le ha abitate non è più, o meglio, esiste ancora nella memoria perché i luoghi li commemorano. In questo modo il grande mare conserva la storia di tutti i tempi perché sopravvive a tutto ciò che passa.
Tritone si muove velocissimo compiendo una periegesi delle coste dell’Asia minore, dell’attuale Turchia, fino a giungere al mar Caspio. Ma ecco una prima delusione: Glauco è irreperibile e Venere viene a sapere dalle Nereidi che si è recato in Sicilia a trovare Scilla. Il giorno non è ancora tramontato, per cui Venere decide di recarsi a trovare il «ceruleo nume» (156). Inizia così la seconda parte del viaggio alla volta della Sicilia, quindi attraversando nuovamente il Bosforo e immettendosi nel mar Egeo.
Ma ecco ancora una parentesi: ora Venere, passando per le Echinadi, ossia l’arcipelago del mare Ionio, fa una meditazione e profezia, ricordando e prevedendo due grandi battaglie navali, quella di Azio e quella di Lepanto:
168
Passando per l’Echinadi la dea
a quel tragico mar rivolse il ciglio
che del sangue latin prima devea
e del barbaro poi farsi vermiglio.
– O sacre al crudo Marte acque (dicea)
quant’ira, quant’orror, quanto scompiglio,
quai l’Europa da voi, quai l’Asia attende
sciagure e mali in due battaglie orrende?
169
Di due pugne famose e memorande
sarai campo fatal, piaggia funesta.
Per l’una, celebrar Roma la grande
deve al suo vincitor trionfo e festa.
Per l’altra alte ruine e miserande
Bizanzio piangerà misera e mesta,
e per questa e per quella in mille lustri
Leucate fia ch’eterno grido illustri.
170
Questo, e sarà pur ver, ceruleo flutto
che diè nel mio natal culla al gran parto
sepolcro diverrà sanguigno e brutto
del vinto egizzio e del fugace parto.
[…].
173
L’altro esterminio onde di por s’aspetta
al turchesco furor morso e ritegno,
fia d’ingiuria immortal poca vendetta
contro il distruggitor del mio bel regno.
No no, fuggir non puoi malvagia setta
il castigo del ciel ben giusto e degno
d’aver guasti ad Amor gli orti suoi cari
e cangiate in meschite i nostri altari.
174
Vedrò pur la tua luna, empio idolatra,
nemico al sommo sol, mastin feroce,
pallida, fredda, sanguinosa ed atra
romper le corna in questa istessa foce.
Fremi, furia, minaccia, arrabbia e latra
contro l’invitta e trionfante croce;
vedrò con ogni tua squadra perversa
l’armata babilonica dispersa
175
grazie al valor del giovinetto ibero,
difensor del’Italia e dela fede,
che del corsar per molte palme altero
fiaccherà i legni e spoglierà di prede,
spaventerà l’orientale impero,
farà di Costantin tremar la sede,
lasciando, Arabi e Sciti, i busti vostri
scherzo del’onde e pascolo de’ mostri. –
Questa inserzione “storica” in un tessuto ostentatamente mitologico avrà le sue ragioni. E la prima, ma non la più importante, sarà quella di ricordare ex contrario che l’Adone è un poema di pace e non di guerra, ma Bellona, ahimè, funesta l’Europa. Il secondo motivo è quello di far pronunciare da Venere una profezia entro un contesto in cui Venere stessa si muove per scongiurare l’avverarsi di una profezia. Il valore delle profezie, si sa, dipende dal loro esito, e niente può dire quale esso sia se non ad eventi accaduti, poiché la veracità delle profezie si verifica dai post-facta. Entra così in discorso il problema della cronologia. La storia di Adone è mitologica, quindi non legata ad un tempo storico o cronologicamente definibile, mentre lo sono le battaglie di Azio e di Lepanto.
A parte i messaggi di tipo politico che si potrebbero ricavare da questa parentesi “storica”, sembra che il messaggio generale dell’intero contesto sia abbastanza chiaro: Venere vede “in contemporanea” il presente e il futuro, e vede quindi la “continuità” del mare sul quale si gioca la storia, quell’immensa distesa d’acqua salata in cui si consumano storie, si decidono destini, si realizzano vite, quell’immensa distesa in cui la vita marina e la vita terrestre si incrociano, e dove il sale conserva intatto ciò che le viene affidato per consegnarlo ai posteri. Quel vasto viaggio di Venere ha per scena il mare, il Mediterraneo, e su quella scena cambieranno gli attori ma essa non cambia, anzi rimane per conservare l’ombra di chi l’ha calcata, e nel momento stesso in cui questo attore diventa ombra non è più corruttibile dal vento e dagli animali. Il Mediterraneo conserva intatte le ombre, e sono sempre lì per chi sa vederle. Le due battaglie ricordate sono eventi del passato e hanno modificato la storia, ma su di esse il mare si è chiuso e non conserva traccia se non nel ricordo, passando, quindi, dalla realtà al mito, come prima si è passati dal piano mitologico, astorico, a quello storico, vale a dire cronologicamente identificabile.
In un modo imprevisto la meditazione di Venere su eventi storici, e uno di questi recentissimo, avvicina la storia di Adone a noi in modo quasi inquietante, come se avvenisse in un luogo e in un tempo a noi adiacenti. Ma ancora non è solo questo. La mise en abîme della profezia di Venere abbandona il Mediterraneo ellenico per passare a quel mare “nostrum” romano, e poi ancora, al Mediterraneo occidentale che, come si sa, ai giorni di Marino era ormai nettamente diviso da quello orientale dominato dal regno ottomano. Questo mare contemporaneo è certamente la scena su cui si svolge la storia, ma è anche il mezzo che tramanda in forma liquida la memoria degli eventi, e che se non ha confini tracciabili con chiarezza, ha aree di contestazione che ne fanno il teatro della storia sia antica che moderna. Adone, che arriva dal mare al palco della sua storia, e Venere che nasce dal mare, devono concludere la loro storia ponendo fra di loro il Mediterraneo che prima li unisce e ora li separa.
Riprende il viaggio con la rapidità rilevata nello spezzone precedente, e con lo stesso procedimento di marcarne le tappe ricorrendo al nome di luoghi, porti, isole e personaggi sufficienti per individuarli nella storia e nello spazio. Ma anche questo viaggio va a vuoto: Glauco non è in Sicilia e Venere desiste dall’impresa di cercarlo perché è stanca e vuole riposarsi. Così si chiude il canto con un “niente compiuto”, quindi all’insegna di quella formula “anti-narrativa” che domina l’Adone, in cui le azioni tendono a non avere conseguenze dirette.
Eppure non bisogna lasciarsi abbagliare: Marino ha sempre una ragione quando fa qualcosa, e questa è più certa quando è meno ovvia. Il viaggio inutile di Venere sembra almeno giustificato dall’impegno che la dea vi mette: vuole a tutti i costi trovare il rimedio per salvare Adone, e ciò giustificherebbe il suo viaggio anche quando risulta inutile, e in un certo senso (implicito ma non dichiarato) il tentativo libera la sua coscienza, avendo fatto tutto il possibile per salvare l’amato. Ma non è solo questo. Venere nel suo percorso ha scritto il nome del suo amato nell’archivio dei miti che il Mediterraneo conserva gelosamente. Rivediamo, infatti, la rotta del viaggio. Ricordiamo che il ragguaglio nautico che ne ricaviamo è regolato da una chiara simmetria, sempre segno di una mente che calcola e calibra bene i termini della sua esposizione.
Il viaggio da Cipro a Citera viene deviato per la ricerca di Glauco, e da questo momento procede come unità narrativa rispetto al disegno precedente, anche se poi nell’ultima ottava del canto Tritone approda a Citera. Le due fasi del viaggio si bilanciano in modo perfetto. Il primo tragitto fino al Mar Nero è composto di quattordici ottave, e il secondo di ventidue, ma se si considera che otto di queste sono dedicate alle profezie di Venere vediamo che anche il secondo tragitto occupa quattordici ottave. Due parti uguali, dunque, divise a metà da uno spezzone che sospende il percorso del viaggio. Le ottave che raccolgono le tappe maggiori del percorso sono poche rispetto alla ricchezza dei materiali che raccolgono, e questo perché, come abbiamo osservato, il viaggio offre una rivisitazione rapidissima di luoghi mitologici denotati nel modo più economico.
Il senso di vertigine che questo rapido percorso provoca è ancora più forte perché nella rassegna si perde assolutamente ogni senso di diacronia, e tutte le storie e i luoghi sono come sospesi nel tempo senza alcuna altra funzione che quella di dare il senso del movimento nel passare dall’una all’altra. Si può dire che tutto si posi in uno scenario che appiattisce il tempo ma simultaneamente “decori” il paesaggio visto di corsa. Dal punto di vista nautico il viaggio ha qualcosa di assurdo. Chi lo segue su una mappa coglierà inversioni, brevi retrocessioni e deviazioni di ogni tipo, creando un percorso arabescato quasi in modo pretestuoso per poter ricordare miti e luoghi marini nel numero più alto possibile. Ma trascurando queste minori eccezioni rispetto ad un viaggio lineare — eccezione che, oltre al fine ricordato, ne presenta anche un altro che è quello di accentuare l’inutilità del viaggio — è possibile vederne il tracciato principale che si può ricostruire nel modo seguente: partendo da Cipro e seguendo la periegesi fino al Mar Nero per poi fare un’inversione di rotta e approdare prima in Sicilia e poi a Citera:
Il ductus forma una A maiuscola corsiva nel cui apice i due tragitti si sovrappongono nell’attraversare il Bosforo. Improvvisamente tutta la periegesi che sembrava dilungarsi per il piacere di accumulare dati mitologici e storici acquista una funzione che non prevedevamo in modo alcuno. Ora capiamo che tutto il viaggio intende costituire un “carme figurato” con un messaggio nascosto nelle “lettere” del testo. Il lungo itinerario di Tritone che trasporta Venere disegna la prima lettera dell’alfabeto che è anche l’iniziale di Adone. In questo modo il nome del protagonista assente viene inscritto sul mare, e il tempo lo assocerà ad altri miti che il mare immenso ospita e conserva. Venere rende l’omaggio più grande al suo amato stampandone l’iniziale (e di che altri potrebbe essere se non del suo Adone?) in un mare dove non si vedono le righe e i disegni, ma dove ciò che si traccia permane perché la pagina liquida ha altre risorse per conservare la scrittura: fa alitare come vere le cose che l’acqua rende evanescenti e nella loro levità durano eterne.
Solo un genio come Marino poteva immergere il suo Adone nel mondo dei miti che ha rievocato con tanta leggerezza. Anzi, ha fatto di più: da tutti quei miti ha ricavato quello più potente che egli intendeva celebrare facendolo venire dal mare, e usando il mare come un foglio su cui tutti i miti ricordati formano un piccolo tratto di quella A maiuscola del suo Adone. Il topos “se il cielo fosse carta e il mare inchiostro” sembra trasformato in un altro che però è unico per poter essere definito un “topos”: se il mare è carta, Venere è la penna che vi scrive sopra imprimendovi le iniziali del suo amore. E si sa, come diceva Rabano Mauro delle grammata «sola carent fato mortemque repellunt». Il Mediterraneo è l’enorme folio su cui si stampa la storia di Adone, ed essendo un foglio magico conserva le lettere che vi si imprimono anche se le rende invisibili assorbendole nella sua duratura liquidità.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Giovan Battista Marino, AMORI, Introduzione e note di Alessandro Martini, Milano, Rizzoli 1982. Il sonetto è il numero 15 di questa raccolta, e è a p. 71, e il commento che qui seguiamo, è alle pp. 135-137.
[2] Ho messo in luce il gioco mariniano nella mia analisi de Il canto XVII dell’Adone, in Lectura Marini, a cura di Francesco Guardiani, Dovehouse, Toronto 1989: 285-99, poi in forma rielaborata in Paolo Cherchi, Le ‘meraviglie’ di Eco, Lecce, Millella, 2024: 137-149. Il presente saggio rielabora ulteriormente quello appena ricordato.
[3] Si cita qui e sempre da Giovan Battista Marino, L’Adone, a cura di Giovanni Pozzi, Milano, Mondadori, 2 voll., 1970.
_____________________________________________________________
Paolo Cherchi, “professor emeritus” della University of Chicago, dove ha insegnato letteratura italiana e spagnola e filologia romanza dal 1965 al 2003, anno in cui è stato chiamato dall’Università di Ferrara come Ordinario di letteratura italiana, e da dove è andato in congedo nel 2009. Si è laureato a Cagliari in filologia romanza, ha conseguito un PhD a Berkley (1966). Si è occupato prevalentemente di letterature romanze nel periodo medievale e rinascimentale. Fra i suoi lavori più recenti ricordiamo Il tramonto dell’onestade (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016); Petrarca maestro. Linguaggio dei simboli e della storia (Roma, Viella, 2018); Maestri. Memorie e racconti di un apprendistato (Ravenna, Longo, 2019); Ignoranza ed erudizione. L’Italia dei dogmi verso l’Europa scettica e critica (1500-1750) (Padova, libreriauniversitaria.it.edizioni); Quantulacumque lucretiana. Nuove piste di ricerca sulla fortuna di Lucrezio nel tardo Rinascimento (Generis Publishing, 2022); Studi ispanici. Fonti, topoi, intertesti (Milano, Ledizioni, 2022). Nel 2016 è stato cooptato come socio straniero dall’Accademia dei Lincei.
______________________________________________________________