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Gesù di Nazareth: cosa resta dopo la critica biblica?

coverdi Augusto Cavadi 

Negli ambienti cristiani, soprattutto cattolici, lo studio scientifico dei testi biblici è stato ostacolato in tutti i modi. E a ragione. Se si ritorna alle fonti con gli attrezzi della critica moderna (come l’umanesimo rinascimentale aveva provato con intellettuali del calibro di Lorenzo Valla, Tommaso Moro ed Erasmo da Rotterdam) tutto l’impianto dogmatico e sacramentale delle Chiese così come si sono configurate – almeno dal IV secolo in poi – crolla. Bisogna scegliere: o ci si aggrappa al cristianesimo della catechesi tradizionale perché suona confortevole, rinunziando a indagarne le radici storiche, o si è disposti a ricominciare dall’inizio con l’entusiasmo e la totale incertezza di chi sa che sta aprendo cammini inediti.

I fedeli del primo orientamento proveranno solo fastidio a leggere Il volume Gesù, questo sconosciuto. Cosa sapere prima di credergli o di rifiutarlo (Edizioni Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2024), scritto dal magistrato di Cassazione, ora in quiescenza, Dario Culot. Per chi è già incamminato nella direzione alternativa di una rifondazione del cristianesimo a partire dal Gesù del Secondo Testamento, invece, vi troverà preziose indicazioni sia dal punto di vista destruens che, soprattutto, dal punto di vista construens. 

L’ottica della de-costruzione 

Sin dalla Presentazione l’autore chiarisce, con il tono colloquiale ma non banale che caratterizza queste pagine, il primo dei suoi due obiettivi: 

«Quello che qui cercherò allora di fare è togliere a Gesù quel mantello dorato che il magistero cattolico gli ha messo addosso, facendo vedere che neanche la Chiesa-istituzione è in grado di dire con certezza: «io so chi tu sei! Tu sei vero Dio e vero uomo». Immaginiamo cioè, per un attimo, che Gesù arrivi oggi in mezzo a un gruppo di vescovi a Roma, e riproponga la stessa domanda che aveva fatto a Pietro: “Chi dite che io sia?” (Mt 16,15). Tutti questi vescovi all’unisono risponderebbero, in coro, (…): “Tu sei la seconda persona della Trinità, l’unione ipostatica della divinità e dell’umanità, tu incarni due nature nella tua unica persona (divina)”. Ma siamo poi così sicuri che Gesù non resterebbe sbigottito davanti a questi astratti discorsi teologici che lo riguardano, e magari replicherebbe: “Ma cosa state dicendo? Non capisco». Non vi sfiora mail il dubbio che, a volte, non sia stata proprio la teologia, nel corso dei secoli, a deformare il Vangelo?». 

Ogni esplorazione dell’identità dell’uomo Gesù dovrebbe partire dai “pochi dati di fatto assodati” che si riscontrano nei vangeli (canonici ed extra-canonici) pervenutici: 

«Gesù non ha mai detto chi è, non ha mai dato definizioni di se stesso (…). Quindi l’affermazione che Gesù Cristo è figlio di Dio, nel senso che ha la stessa natura di Dio, è una professione di fede imposta dalla Chiesa, ma non c’è prova alcuna che lo possa dimostrare». 

cristo_pantocratorPaolo sostiene che l’uomo Gesù è costituito “messia” (o nella traduzione greca “signore”) dopo la morte; Marco e Giovanni anticipano questa consacrazione al momento del battesimo sul Giordano per mano di Giovanni Battista; Matteo e Luca addirittura prima della sua nascita. È ragionevole supporre che in queste differenti modalità si sia espressa la convinzione della Chiesa primitiva sul fatto che «un uomo di nome Gesù ha raggiunto la pienezza della condizione umana e per questo è entrato nella sfera della condizione divina». 

L’ottica della ri-costruzione

Ma se il Gesù della cristologia pre-nicena (= anteriore al Concilio di Nicea del 325 d.C.) non è Dio in senso ontologico, che ha da dirci ancora oggi? Passiamo così all’obiettivo construens propostosi dall’autore con questo intrigante volume. 

a) La religione – la sua religione di appartenenza anagrafica e, per analogia, ogni religione in quanto tale – va sostituita con una proposta alternativa: 

«Dobbiamo renderci conto che il progetto di Gesù da una parte, e il progetto della religione dall’altra, sono due progetti che non hanno potuto conciliarsi né armonizzarsi. Questo vuol dire che si tratta di due progetti incompatibili. E sono incompatibili perché nel progetto della religione il centro determinante di tutto sta nel sacro, con la sua dignità, il suo potere, le sue norme, le sue proibizioni; invece nel progetto di Gesù il centro di tutto sta nell’umano, nel rispetto verso tutti, siano o non siano religiosi, abbiano o non abbiano credenze, siano persone buone o cattive, siano ortodossi o eterodossi, siano ebrei, musulmani o cristiani. Ed è anche un progetto che ha il suo centro nella dignità e felicità delle persone, nella gioia di vivere, nel piacere e nel godere di tutto il bello e il buono che Dio ha messo nella vita. Invece, grazie all’insegnamento che abbiamo ricevuto, quando si parla di Dio, per la gente è più facile associare Dio al dolore, alla sofferenza, alla penitenza piuttosto che associarlo alla felicità, alla gioia, all’allegria. Associare Dio al piacere sembra quasi una bestemmia». 

b) È nota l’obiezione a questa prima notazione cristologica: così non si “riduce” il vangelo a mera filantropia? Si potrebbe rispondere che se una proposta di vita non è “almeno” filantropica non è degna di essere accolta ragionevolmente. Il cristianesimo dogmatico-istituzionale non è stato certamente contrassegnato da univoco filantropismo e sino ai nostri tempi assistiamo a conflitti di matrice teologica (o almeno sbandierati come tali) fra confessioni cristiane diverse (ad esempio cattolici e protestanti in Irlanda) o addirittura all’interno della stessa confessione (ad esempio fra ortodossi russi e ortodossi ucraini).

Ma anche nell’ottica delle fede tradizionale, a partire dal Secondo Testamento, l’amore “orizzontale” verso il prossimo è stato considerato segno autenticatore dell’amore “verticale” verso l’Invisibile: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Giov. 13, 34-35).

Culot, però, sulla scia di alcuni predecessori, va oltre. L’amore per l’umanità non è solo il presupposto minimo di qualsiasi eventuale proposta teologica né soltanto il banco di prova dell’autenticità di ogni eventuale unione mistica con il Divino: egli sostiene che è proprio in quanto essere-per-l’altro che Gesù rivela il massimo del pochissimo che possiamo conoscere di Dio. Insisto un po’ su questo passaggio che mi risulta particolarmente originale.

c) La “regola d’oro” di tantissime etiche è di fare agli altri ciò che si vorrebbe da loro, dunque del bene in tutte le modalità necessarie e opportune. Ma secondo i vangeli la prassi amorevole di Cristo possiede un significato originale, peculiare: essa allude, esprime, rende percepibile qualcosa dell’atteggiamento di Dio stesso verso l’umanità. Essa veicola il messaggio che «non è vero che Dio discrimina le persone e allontana da sé gli impuri e i peccatori, ma l’amore di Dio è rivolto a tutti». 

d) Troppo poco questo sull’identità divina? Indubbiamente meno di quanto la Chiesa abbia avuto la pretesa di raccontare: 

«Quando si parla di Dio, sembra che la Chiesa sappia tutto: è l’Essere Spirituale Perfettissimo, Soprannaturale (cioè collocato su un piano superiore), Trinitario, Onnipotente, Maschile, Creatore del cielo e della terra, Salvatore, Redentore, Liberatore, Giudice severo ma giusto. Io preferisco la definizione di Dio tratta dalle Upanishad vediche indiane: Non questo, non quello, perché non si può prendere, non si può legarlo, non si può trattenerlo.
L’antica India da millenni c’insegna che, se arriviamo ad avere un concetto preciso e definitivo di Dio, se lo definiamo, questo non è più Dio. È solo una rappresentazione di Dio che noi ci siamo costruiti nella nostra mente, perché Dio resta misterioso». 

e)  Questo “poco” assomiglia a quel che un animale domestico di compagnia, o anche un neonato, sa (o meglio sente) di un adulto umano che lo abbia preso in carico: di essere in buone mani. 

«Probabilmente anche noi dovremmo fermarci qui nel nostro rapporto uomo-Dio: Gesù, divulgando la Buona notizia, ci ha fatto sapere che Dio ci ama e che ci si può fidare di Lui; non molto altro ci ha detto Gesù di Dio in tutta la sua vita. Tutto il resto ce l’ha detto il magistero. A questo punto sarebbe forse meglio fare come aveva ammonito Ludwig Wittgenstein: “Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”». 

162357325-a9cdd28d-df78-4af0-a4db-8f0b8566cca2Obiezioni a Dario Culot 

Poiché il discorso di Culot è indubbiamente di grande rigore logico e di altrettanto grande onestà intellettuale invita il lettore a reagire con proporzionale senso critico e a formulare delle domande. Molte obiezioni, perplessità, vere e proprie aggressioni egli le ha effettivamente registrate negli incontri pubblici e nella corrispondenza privata durante gli anni precedenti alla pubblicazione di questo testo. Alcune di queste osservazioni critiche sono state raccolte nella Parte II del volume: ad esempio, dal momento che «la formula Gesù è vero Dio e vero uomo è dogmatica, e non è lecito mettere in discussione un dogma», «come fa a mettere in dubbio un dogma?”; oppure: «Lei dice che Dio si manifesta in Gesù, senza che Gesù sia Dio, e che Gesù non ha mai detto di essere Dio. Ma come è venuta allora fuori, fra i cristiani, l’idea della divinità di Gesù che Lei nega?».

Le domande riportate nel libro, a cui l’autore risponde con molte pagine in maniera sempre pacatamente argomentativa, provengono tutte da un pubblico di cattolici credenti e praticanti. Evidentemente ne sono possibili altre da versanti ‘esterni’ all’ambito cattolico [1] e, in particolare, mi pare se ne imponga una centrale. Per Culot del Mistero che chiamiamo Dio non sappiamo nulla, tranne quel pochissimo/moltissimo che ce ne ha raccontato Gesù di Nazareth: che non è un Principio antropomorficamente raffigurabile come sovrano giusto e implacabile, ma una Fonte inesauribile di tenerezza, cura, misericordia. Questa “buona notizia” (evangelo) è frutto non di un’autorivelazione di Dio (come si affermava quando si vedeva in Cristo l’incarnazione della Parola stessa divina) bensì dell’intuizione teologica di un rabbi palestinese (dalla vita interiore intensa e certamente informato del filone profetico biblico): dunque, la si può accogliere o meno, ma non senza sottoporla al setaccio della ragionevolezza.  Il che, nel XXI secolo, significa chiedersi se si possa credere in un Dio amorevole nonostante l’oceano di sofferenze in cui siamo immersi. Non si tratta solo, o principalmente, dei mali evitabili che l’umanità è così brava nell’infliggersi o nel non saper evitare, ma di quelle sofferenze inevitabili a cui tutti i viventi senzienti siamo esposti nel nostro pianeta (non sappiamo altrove) dalle tremende leggi dell’evoluzione.

Per quanta ammirazione, simpatia, devozione si possa provare per il Maestro, come fare a condividere la sua fede in un Padre attento e benevolo che si occuperebbe di ciascun essere umano, anzi di ciascun uccello del cielo e di ciascun giglio dei campi? Tante volte ho ascoltato la risposta a questi dubbi laceranti (e talora geni sommi come Dostoevskij l’hanno saputa formulare in parole di fuoco): se Gesù si sbaglia, se l’Assoluto non è come lo presenta egli, l’alternativa logica è il nichilismo. Se a Fondamento dell’universo non c’è nessun principio Intelligente né ancor meno Amorevole, che senso ha per ciascuno di noi (ma prima ancora per la grande famiglia dei viventi senzienti di cui siamo parte) venire alla luce e, tra difficoltà e travagli d’ogni genere, trascinare un’esistenza precaria che troppo presto s’interrompe con la morte? Che valore hanno i nostri pensieri, le nostre scelte, i nostri slanci di eroismi, le nostre colpe imperdonabili… se siamo dentro un flusso senza Alfa e senza Omega? È certo che un tempo non esisteva l’homo sapiens, anzi neppure la vita biologica, anzi neppure il pianeta Terra; ed è altrettanto certo che tra un certo tempo non esisterà più né l’umanità né altri viventi né la stessa Terra. Tra l’inizio e la fine la somma delle sofferenze più strazianti sarà compensata dalla somma delle ore gioiose, o per lo meno serene, vissute da noi animali senzienti?

terra-patria-312Se l’opzione è tra la “buona notizia” di Gesù e la “cattiva notizia” di Morin («Tutti i viventi sono gettati nella vita senza averlo chiesto, sono promessi alla morte senza averlo desiderato. Vivono tra nulla e nulla, il nulla prima, il nulla dopo, circondati dal nulla durante» [2]), come negare che la seconda ha dalla sua la conferma dell’esperienza (per lo meno scientifica e collettiva se non individuale)? Si può accogliere il vangelo solo per evitare la disperazione, il senso di angoscia e di frustrazione all’idea sartriana che «ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione» [3]?

Per me filosofo sarebbe il rinnegamento radicale della tensione verso la verità.  Perciò sono convinto che – dal punto di vista teoretico, cognitivo – l’annunzio cristiano sia irricevibile: non si può accettare una teoria dell’universo solo perché non si avrebbe la forza di vivere secondo quanto l’intelligenza – debitamente coltivata – ci attesta. L’uomo adulto del XXI secolo potrà far sua l’intuizione stupenda e incoraggiante di Gesù solo quando essa sarà integrata e supportata da un contesto dimostrativo (o per lo meno di un apparato di contro-obiezioni) che, sinora, a mia conoscenza, nessuno ha saputo offrire. Gesù per primo non ha dato, non ha voluto dare e probabilmente (estraneo com’era alla mentalità speculativa greca) non avrebbe potuto dare nessuna argomentazione razionale/ragionevole su come conciliare l’idea di un Dio Amorevole con i disastri dolorosi che si registrano nel piccolo, nel medio e nel grande ogni volta che apriamo gli occhi sull’universo. Intesa come via verso la Verità, la fiducia esistenziale nel vangelo non solo non esclude ma – in linea di diritto – esige un lavoro intellettuale immenso e incessante (a tutt’oggi lontano dall’essere compiuto) affinché la si possa esercitare al di là della logica, non contro la logica [4]. A mio avviso, il vangelo non va ellenizzato, metafisicizzato; ma accoglierlo e provare a viverlo rientra nella sfera esistenziale, fuori della quale permangono domande ontologiche e cosmologiche cui solo la filosofia, in stretto dialogo con le scienze, può tentare di offrire risposte (ovviamente parziali e provvisorie). 

iccd8270994_sa084578Una possibile prospettiva interpretativa 

Ma allora il cristianesimo è, ab ovo, tutto un inganno (o comunque una proposta che può risultare tanto veridica quanto ingannevole)? Nelle pagine del suo volume Culot non affronta, esplicitamente e frontalmente, questo dubbio cruciale. Però, se non erro, apparecchia tutti gli elementi per inquadrarlo da una prospettiva diversa, molto più fedele all’ottica dei primi cristiani. Infatti, finché restiamo nella mentalità critica dei figli di Atene, il nodo (almeno sino ad oggi) appare insolubile. Ma pur avendo il diritto – anzi, prima ancora il dovere – di rispettare le esigenze della ragione, possiamo anche ammettere che nelle varie culture dell’umanità sono possibili altri orizzonti, altri paradigmi. Nella mentalità ebraica di Gesù e dei discepoli, ad esempio, la preoccupazione prevalente non è di ordine intellettuale, bensì operativo. Per i figli di Gerusalemme non si tratta di convincere (se stessi e gli altri) della tesi filosofico-teologica che all’origine del tutto vi sia un Principio vitale generoso, bensì di ‘vivere’ secondo questa convinzione: di testimoniarla, di metterla a frutto nella concretezza della visibilità storica. Infatti, 

«il cristianesimo non è un sistema di nozioni, bensì una via da seguire, tracciata da una persona in carne ed ossa. Ecco perché ho detto che il centro del cristianesimo è la sequela dell’uomo Gesù. Gesù, su questa terra, ci ha fatto conoscere Dio, non rivelando la vera natura del suo essere, ma vivendo in un certo modo. Quella di Gesù non è stata perciò una lezione magistrale sui concetti filosofici di ousia, physis, prosopon, hypostasis ecc., ma una storia nella quale quel modesto galileo, povero di mezzi ma ricco di umanità, ha presentato per l’appunto un progetto di umanità, è vissuto in un modo ben preciso, si è relazionato con la gente in maniera tale da attrarre alcuni e respingere altri, ha espresso con chiarezza le sue preferenze e i suoi valori ecc. In questo modo Gesù ci ha rivelato Dio, senza mai analizzare categorie metafisiche od ontologiche». 

Il Secondo Testamento vacilla quando, condizionato dalle influenze greche, vuole spiegare l’inspiegabile: come sia possibile che un Dio infinitamente buono abbia potuto creare un universo dove non c’è divenire senza scarti, non c’è evoluzione senza vittime, non c’è progresso senza tragedie. Molto più convincente quando testimonia, con gesti, azioni, opere che Dio è dalla stessa parte degli esseri umani nella lotta contro il male in tutte le sue molteplici forme, senza sbilanciarsi nel (vano) tentativo di spiegare l’origine e il senso di questa lotta millenaria. Se Dio è il Creatore dell’universo, se «esso è suo possesso assoluto ed egli ne è il Signore assoluto», ci è debitore di molte risposte sulla inesauribile miniera di dolore da cui l’universo sembra attingere il combustibile per vivere e progredire. Con Gesù queste risposte non arrivano, ma «questo concetto di Dio cambia, perché egli ci presenta Dio in modo completamente nuovo: Dio non è più il padrone assoluto, ma è il servitore, o meglio il diacono della vita: “Io sono venuto per servire e non per essere servito” (Mc 10,45)». Gesù si fa – o per lo meno viene interpretato dai primi discepoli – come icona, plastica e vivente, del Mistero invisibile, 

«non inculcando dogmi, non imponendo di credere al catechismo, non imponendo pratiche religiose. L’ha fatto, da vero servitore della vita, chiamando alla vita, mostrandosi più umano e rendendo anche gli altri non più religiosi, ma più umani, perché quando siamo pienamente diventiamo anche noi – come lui – un canale di ciò che è pienamente divino, di quell’amore misterioso che diffonde la vita». 

192051463-f846ae38-3362-438c-9cfd-8260b8abdd45Essere cristiano oggi 

Se essere cristiano oggi non significa appartenere necessariamente a una determinata Chiesa (in senso istituzionale) né condividere un’idea chiara e distinta del Mistero divino né avere ragioni a supporto della fede nella Bontà divina (poiché, se tali ragioni ci sono, è in quanto pensatore che può trovarle, non in quanto credente), cosa resta di specifico? In un certo senso, nulla. Il cristiano non è un tipo particolare di essere umano: è uno di quei “laici” (= membro del popolo, della grande famiglia terrestre) che vogliono capire se la vita ha un senso e, sul versante etico, liberarsi e liberare i simili da ogni dis-umanità.

In un altro senso, il cristiano è caratterizzato in maniera peculiare, se non addirittura esclusiva. Egli si auto-interpreta come uno che, sulle orme di Gesù, nel perseguire la pienezza umana, in sé e negli altri, ritiene di rendere visibile e tangibile nella storia l’Amore originario che chiamiamo anche “Dio”. Egli dà un’interpretazione specifica e speciale alla sua prassi (che, in quanto prassi agapica, è potenzialmente condivisibile da ogni altro essere umano), ma sapendo che a costituire il fattore basilare e prevalente sia la prassi, non certo l’interpretazione che di essa ne dà: 

«La comunità cristiana non può e non deve essere un circolo intellettuale, dove si discute di argomenti teologici astratti, magari anche molto profondi e interessanti, disancorati però dal Vangelo che, lungi dall’essere una dottrina, è una testimonianza di una comunità che si è vista trasformata dalla sequela di Gesù, cioè da un’esperienza che ha vissuto stando accanto a Gesù, attraverso la quale ha scoperto che Gesù è il Messia atteso, il Figlio di Dio (Gv 20, 31) in senso messianico. Da questa esperienza nasce la volontà di continuare su quella strada». 

Una strada che può portarci molto più in là dell’essere “servi fedeli” di Dio, ma “amici”, anzi “figli” del Padre (Gv 15,15): 

«Sequela significa voler assumere la forma di Gesù, che vediamo come la miglior forma di uomo possibile. Sequela è allora credere non ai dogmi, ma che il Dio di Gesù è al nostro fianco – se uno lo vuole – per aiutarci a raggiungere quella forma che ha assunto il figlio. (…) Il progetto della sequela di Gesù è il progetto della libertà al servizio della misericordia. In questa formula si trovano il cuore stesso del Vangelo e la sua sorprendente attualità» (con rimando a un commento di J. M. Castillo a Lc 9, 51 – 62). 
«Senza sequela non si è discepoli. Gesù chiede adesione alla sua persona, non a dottrine, sì che la conoscenza di Gesù è pratica quotidiana, è farsi plasmare dai suoi comportamenti, non è conoscere la dottrina cristiana insegnata dalla Chiesa e poi credere che questa conoscenza ci salvi». 

cristo-ppPiù di una volta ho ascoltato da parte di cattolici istruiti (per la verità più nelle discipline professionali che in teologia) che questo identikit del cristiano sarebbe d’impronta irrazionalistica e basato su una visione riduttiva e fuorviante del Gesù storico. In effetti egli era anche un rabbi, un conoscitore delle Scritture e un predicatore efficace né abbiamo prova alcuna di una sua postura anti-intellettuale. Chi si appella ai vangeli per attaccare il dono e la responsabilità della ricerca teoretica, del pensiero metodico, o è poco informato o è in cattiva fede. Solo che – in sintonia con la mentalità ebraica – egli ha giocato un altro gioco e ha scelto di essere (o per lo meno così è stato recepito) uno che parla facendo, che annunzia attraverso gesti concreti, che predilige la testimonianza rispetto all’insegnamento. È per questo che un fisico nucleare o un compositore musicale, un filosofo o un politologo possono benissimo essere bravi cristiani, ma non grazie alla musica che producono o alle scoperte che realizzano: la loro “fede” sarà valutabile sul metro dell’agape, della donazione costante, della generosità nell’impegno per il bene comune. Dunque non necessariamente sarà nota ai contemporanei, prossimi o lontani. Don Cosimo Scordato, un amico che ha insegnato per decenni teologia sistematica, adesso che come noi coetanei sta tirando un po’ le somme di una lunga e appassionata ricerca, è pervenuto alla conclusione che, dal punto di vista biblico, sarebbe preferibile sostituire alla dicotomia credente/non credente il binomio amante/non amante.

In ogni caso la sequela cordiale e pro-attiva non può identificarsi, come per secoli ha insegnato la Chiesa cattolica, con una separazione fisica dal contesto sociale (per esempio scegliendo l’eremitaggio o entrando in un ordine cenobitico) [5]: 

«Il vero dilemma posto da Gesù non consiste nello scegliere tra l’amore a Dio e l’odio per il mondo terreno […]. Il vero dilemma è scegliere fra la nostra “umanità disumanizzata o l’umanità piena” sempre presente in Gesù. In questo punto stiamo toccando il nocciolo stesso della sequela di Gesù. Seguace di Gesù è solo chi è pienamente umano così da superare e vincere ogni possibile disumanizzazione (Lc 14, 25). Nulla dunque di astrattamente religioso, ma tutto concretamente terreno e profano». 

Un’ultima annotazione mi pare opportuno aggiungere per restituire l’affresco di Culot in misura meno incompleta. Per chi si ritiene cristiano, il rapporto con il Divino passa, anche e soprattutto, attraverso la partecipazione alla prassi di Gesù e dei suoi più fedeli seguaci nei secoli: ma questa fede attiva, operativa, non ha nessuna pretesa di esclusività [6], dal momento che ogni essere umano può trovare i suoi canali per unirsi all’Assoluto (o per prendere consapevolezza del suo esser-già-da-sempre in rapporto con l’Assoluto). Questa apertura mentale, opposta a ogni tendenza fondamentalista, il cristiano la adotta non per cedimento alle mode relativistiche che tanto preoccupavano papa Benedetto XVI (come se fosse «irragionevole affermare che tutto nella storia è relativo, tranne Dio»,), quanto per fedeltà al magistero gesuano che, stando ai testi evangelici, 

«rifiuta ogni assolutismo che cerca di monopolizzare come l’unica via di accesso a Dio la propria: ecco perché Dio non va adorato né nel monte Garizim come facevano i samaritani, né a Gerusalemme come facevano i giudei, essendo invece entrambi sicuri di essere gli unici adoratori del vero Dio (Gv 4,21). L’importante è essere aperti e pronti ad accogliere lo Spirito, come fanno la donna siro-fenicia (Mc 7, 26 ss) o il centurione pagano (Mt 8, 5 ss). La fede può essere grande anche senza profonde comprensioni teologiche e senza grandiose celebrazioni. E agli apostoli, che non avendo capito nulla di Gesù vogliono proteggere il monopolio di essere solo essi gli unici veri seguaci di questo maestro, Gesù dirà: «Chi non è contro di voi è con voi” (Mc 9, 40)». 
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024 
Note
[1] Ad esempio ci sarebbe da discutere a fondo se davvero si possa prevedere/auspicare la fine di ogni religione in quanto tale o se non sia più realistico concentrarsi sulla revisione radicale delle religioni storiche dal momento che, ogni volta che si è tentato di cancellarle (come nei regimi totalitari di Destra e di Sinistra nel XX secolo), sono state sostituite da nuove strutture religionali ancora più dogmatiche, disumane e intolleranti delle antiche.
[2] E. Morin – A.B. Kern, Terra – patria, Cortina, Milano 1994: 104.
[3] J. P. Sarte, La nausea, Mondadori, Milano 1965: 191.
[4] Culot stesso, che pur denuncia più di una volta (con ragione) l’ellenizzazione metafisica del cristianesimo, ogni tanto avverte la necessità di supportare il kerigma evangelico con delle considerazioni filosofiche: «Dobbiamo convincerci che Dio, come creatore, offre possibilità, ma non si sostituisce alle creature. E tutte le cose create sono limitate: non solo l’uomo, ma tutta la natura è limitata, per cui la materia in sé non può esistere per sempre, e anche il male della natura (terremoti, frane) si spiega con questa limitazione». Purtroppo queste considerazioni mi sembrano sufficienti per conciliare l’idea di un Dio-Amore con i limiti fisici delle “creature”, ma non con le atrocità che da milioni di anni accompagnano l’evoluzione degli esseri senzienti, sino alle malformazioni genetiche dei neonati odierni. Sulla scia di Tertulliano o di Kierkegaard si potrebbe dire che la visione del mondo cristiana va accettata nonostante sia assurda, anzi proprio perché assurda: ma è un “sacrificio” dell’intelletto che molti (Culot compreso) non riteniamo di poter consumare per rispetto della nostra dignità e dell’eventuale Creatore che – attraverso le vie dell’evoluzione – ce ne avrebbe fatto dono.
[5] Vedi in proposito la lettura critica della vicenda di Tommaso Moro in H. Küng, Libertà nel mondo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2014.
[6] Culot cita in proposito una poesia di Tagore e un detto attribuito al celebre monaco buddhista Thich Nhat Hanh: «Il vero miracolo non è camminare sull’acqua o camminare nell’aria, ma semplicemente camminare su questa terra e farla fiorire dove sei passato». 
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Augusto Cavadi, già docente presso vari Licei siciliani, co-dirige insieme alla moglie Adriana Saieva la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo. Collabora stabilmente con il sito http://www.zerozeronews.it/. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica (con particolare attenzione al fenomeno mafioso), nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2010); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); Il Dio dei leghisti (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015); La mafia desnuda – L’esperienza della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone” (Di Girolamo, 2017); Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi (Di Girolamo, 2018), Dio visto da Sud. La Sicilia crocevia di religioni e agnosticismi (SCe, 2020); O religione o ateismo? La spiritualità “laica” come fondamento comune (Algra 2021).

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