di Iain Chambers
Non posso parlare a nome e per conto della Palestina. Ma posso provare a dire qualche parola alla luce dell’atroce massacro in corso nel Mediterraneo orientale.
Condannate Hamas? No, altrimenti devo condannare l’FLN in Algeria, i Vietcong, il FRELIMO in Mozambico, la Rivoluzione cubana, l’ANC in Sud Africa e le storie di lotta anticoloniale in tutto il mondo. Tutte comportano le atrocità della violenza coloniale sia per il colonizzatore che, soprattutto, per il colonizzato. Ce lo ha insegnato 70 anni fa Frantz Fanon, e poi Gillo Pontecorvo in La Battaglia d’Algeri. La vera domanda, prendendo in prestito da Hannah Arendt, è: ‘I palestinesi hanno il diritto di avere diritti?’ Se hanno il diritto di avere diritti, la maggioranza delle definizioni impiegate per spiegare la situazione attuale cadono a pezzi.
Ciò significa che Gaza, la Palestina, Israele e il Mediterraneo orientale non possono essere ridotti a un oggetto di analisi e trattati in modo apparentemente neutrale e scientifico. In realtà, a un livello più profondo, Gaza smaschera la fallacia della neutralità, della scientificità, della distanza critica e dei protocolli disciplinari. La terribile, oscena e atroce ferita di Gaza apre una nuova archeologia e antropologia dell’Occidente e ne rovina i suoi linguaggi. Qui incontriamo il passo iniziale richiesta dagli studi culturali e postcoloniali: la elaborazione necessaria del dissenso rispetto alla propria provenienza, cioè il mettere in discussione la propria formazione storica e culturale (cosa rara qui in Italia, anche da parte di chi si professa praticante di questi approcci). In ultima analisi, significa essere ‘indisciplinati’ per disturbare continuamente lo status quo della vita istituzionale e accademica.
La domanda centrale diventa allora come affrontare e annullare l’indifferenza politica e accademica dinnanzi a Gaza (e fra poco il Libano). Come rompere la narrazione dominante stabilita dal potere occidentale, dal colonialismo, dal sionismo, dal razzismo e dall’autoritarismo crescente nell’Occidente? Come interrompere e trasformare il suo linguaggio rovinato e spezzato in un’opportunità storica? A questo punto, diventa imperativo disfare le coordinate della narrazione dominante e smontare le accuse generalizzate di antisemitismo ogni volta che si esprime una critica a Israele.
Il 7 febbraio 2024, in un caso molto noto, l’antropologo libanese-australiano Ghassan Hage è stato licenziato come Visiting Professor dalla Max Planck Society in Germania per aver espresso sui social media critiche ai massacri israeliani a Gaza e sostegno ai palestinesi. Dietro questa azione si cela il contesto più profondo ed esteso della trasformazione ormai generalizzata dell’antisionismo e delle critiche alla politica dello Stato di Israele in accuse di antisemitismo. L’abbraccio pubblico a Israele da parte del governo tedesco come uno Staatsrasön in aperta espiazione per l’Olocausto, rastrella ferocemente la questione, legando, almeno ufficialmente, l’identità tedesca al sionismo. Criticare Israele significa in qualche modo sminuire il genocidio degli ebrei europei sotto il regime nazista e annullare il lavoro di redenzione della Germania dopo il 1945. Questa telescopia morale del tempo storico e dello spazio geopolitico è stata trasformata in un imperativo metafisico.
Si è manifestato in modo eclatante nel racconto di Ground Zero dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2022, come se irrompesse inaspettatamente nel mondo e inaugurasse una nuova storia. Ha messo brutalmente a nudo gli straordinari limiti politici e filosofici del linguaggio occidentale, sia a livello politico che accademico. I primi rumori nella sfera pubblica tedesca si erano già manifestati intorno a figure internazionali note per le loro critiche a Israele, come i filosofi Judith Butler e Achille Mbembe e la scrittrice palestinese Adania Shibli, autrice di Minor Detail [1]. Il fenomeno è stato reso più pubblico nel clamore politico attorno alla mostra internazionale d’arte Documenta Fifteen a Kassel nel 2022, colpevole di esprimere sentimenti filo-palestinesi (e anti-coloniali). È apparso un nuovo verbo, almeno per me: essere disinvitati quando musei, festival letterari e conferenze pubbliche cambiano idea e tornano indietro rispetto all’invito iniziale.
Con l’Olocausto e secoli di antisemitismo europeo, è evidente che non si tratta di una questione esclusivamente tedesca. E questo ci porta a un altro punto ancora più inquietante. Nella migliore tradizione antropologica, dove si registra il ritorno dello sguardo, Gaza è stata trasformata in un’antropologia dell’Occidente. Qui, una presunta ‘scientificità’ – e la lettera di licenziamento di Max Planck al professor Hage è piena di questa retorica – che serve a garantire distanza critica e ‘neutralità’ crolla [2]. La storia stessa dell’antropologia testimonia continuamente il disfacimento cruciale di tali pretese e dei miti bianchi dell’innocenza storica. Allora, perché, al di là qualche eccezione locale di acume disciplinare, il sostegno apparentemente incondizionato dei governi occidentali alla fantasia fanatica del sionismo? È semplicemente legato alla geopolitica e all’allineamento del potere globale? O siamo ancora intrappolati nell’onda lunga del trauma intergenerazionale e del senso di colpa europeo per l’antisemitismo e l’Olocausto? Naturalmente, si tratta di tutto questo e di molto altro.
Ma perché questa misura senza soluzione di continuità fa sì che qualsiasi critica o discussione informata venga immediatamente etichettata come antisemitismo? Cosa sta succedendo? Si tratta anche di una questione antropologica. Sebbene sia nata in una matrice coloniale (come quasi tutte le scienze umane e sociali), quando il mondo, sotto le nuvole del positivismo, poteva essere steso, piatto come una mappa, per essere classificato e colonizzato dalle preoccupazioni occidentali, l’antropologia occidentale ha anche fatto molto per registrare l’asimmetria della sua posizione e potere, mentre lavorava ai limiti della sua autorità disciplinare. Naturalmente, si tratta di uno sviluppo non uniforme. Il sapere disciplinare può anche rimanere prigioniero delle prospettive lineari del ‘progresso’, credendo che il colonialismo sia finito e che il razzismo sia una questione periferica, e quindi, unilateralmente, continua ad appropriarsi e a spiegare il mondo in modo coloniale, spacciandolo per universalismo.
Mettere in discussione la neutralità e smascherare la formazione storica e culturale dell’economia politica universale di una pretesa scientificità significa sporcare e contaminare la spinta alla trasparenza. Riconoscere le lacune, i buchi, i silenzi e il rifiuto di essere rappresentati come parte integrante dei processi di ricerca significa riconoscere nei lavori la giustizia dell’interrogazione dell’inconcludente. È impegnarsi in uno spazio critico più vulnerabile. Lì emerge un linguaggio disposto a registrare questa sintassi spezzata. A questo punto, smontando le premesse della nostra prospettiva e l’autorità del nostro sguardo, ci muoviamo attraverso e fuori da un preciso spazio disciplinare per affrontare l’episteme occidentale. Questo, direi, è stato storicamente, sebbene spesso inconsciamente, implicito nel progetto antropologico.
L’anthropos, in quanto scienza dell’uomo, è intrinsecamente legato al concetto di altro e alla comprensione dei processi di distinzione e differenziazione. In questa modalità più riflessiva, anch’esso non ha escluso di essere analizzato e antropologizzato. Negli ultimi decenni, la sua voce normativa è stata ricollocata su questo terreno più scivoloso e transitorio e molti dei lavori più interessanti hanno orbitato intorno a questa disposizione più aperta e vulnerabile [3]. Scomponendo le pretese di centralità e superiorità occidentali in relazioni e interazioni coeve, la sua autorità viene rinviata nel momento che i suoi ‘oggetti’ insistono sui loro diritti di soggetti storici [4]. È diventato un discorso di confine con ricadute analitiche su entrambi i lati di quella linea di demarcazione mutevole e spesso invisibile.
L’antropologia può ricordarci, come sosteneva Patrick Wolfe, che il colonialismo non è un evento limitato a un momento nel tempo, ma un processo [5]. E questo processo continua. I governi e le istituzioni occidentali, forse riconoscendosi inconsciamente come beneficiari di tali processi di accumulazione a scapito delle popolazioni indigene, si rifiutano di condannarne l’incarnazione nell’Israele contemporaneo con il continuare della Nakba fino al presente. Tali pratiche continuano a essere esercitate direttamente dalla governance euro-americana nel continuum di quello che il geografo Derek Gregory ha definito il ‘presente coloniale’ inscritto direttamente nella terra e nelle vite di Afghanistan, Iraq, Libia… Palestina [6]. La brutale appropriazione e distruzione dei modi di essere locali, violentemente trasformati nel valore universale del capitale, è la storia moderna dell’Occidente. Condannare Israele significa, in modo profondo e complesso, condannare noi stessi. Nessun governo o istituzione pubblica occidentale lo farebbe. Fissati in quello specchio scuro, mentre l’“unica democrazia del Medio Oriente” si lancia in una furia genocida, noi restiamo apparentemente bloccati. Nel crepuscolo incombente, accentuato dalla crescente criminalizzazione della protesta pubblica, sembra, come direbbe Hannah Arendt, che i palestinesi non abbiano il diritto di avere diritti. Nella svolta autoritaria dell’Occidente verso la sicurezza (dello status quo), sempre più spesso non ne abbiamo nemmeno noi quando si tratta di insistere sulla Palestina, sulla crisi climatica, sulla povertà e sulla precarietà.
Adottare questo atteggiamento riflessivo e girare l’antropologia sguardo significa suggerire che riferirsi a Gaza oggi significa, in ultima analisi, parlare dell’Occidente, dei poteri che si intersecano, dei saperi accreditati e delle definizioni che esso assembla nella costruzione della Palestina, di Israele e del Medio Oriente. In altre parole, parlare di un Occidente ora criticamente esposto e interrogato dalla Palestina. Questa spaccatura fornisce per un attimo una libertà dal nostro sguardo e dalla prigione della certezza disciplinare. Perfino lo sguardo storico più superficiale non può ignorare che le atrocità commesse in Palestina, ieri ed oggi, sono state create da noi. Esse emergono dalla nostra storia, dalla nostra cultura e dalla nostra politica.
Forse la stupefacente indifferenza istituzionale attuale nei confronti del massacro che avviene nel Mediterraneo orientale tradisce ancora una volta la paura di riconoscere il cuore di tenebra che risiede in casa nostra. Come notava Friedrich Nietzsche, fissa l’abisso abbastanza a lungo, e l’abisso ti fisserà a sua volta. Proprio come per Joseph Conrad, è nei bianchi edifici sepolcrali neoclassici di Bruxelles, Londra e… Washington, e non in Africa, in Congo o nel Medio Oriente, che questo cuore batte. In Germania si parla di vietare gli studi postcoloniali per aver messo in luce le radici coloniali dell’Europa moderna (e delle origini del sionismo).
Forse, però, questa è la scommessa necessaria dell’onestà intellettuale e del lavoro critico. Pensare, ricercare, scrivere ed elaborare significa speculare e ricevere il potenziale dell’immaginazione. Piuttosto che l’applicazione mortificante di premesse metodologiche e la riproduzione del canone disciplinare nello status quo accademico, è proprio riconoscendo il nostro linguaggio come rotto e costantemente in corso e incompleto che si può ricercare una relazione più onesta con il mondo che non è mai solo mio o nostro. Insistere sulla potenzialità etica dell’antropologia (o della sociologia e della storiografia) significa rifiutare le fantasie messianiche del sionismo e la sordità politica dell’Occidente che si rifiuta di ascoltare i palestinesi e le proteste ‘democratiche’ dei propri cittadini. È rifiutare di essere colonizzati da questa retorica micidiale e dalla sua macchina di morte. Il campo di ricerca è diventato noi occidentali. Questo ci porta a toccare la definizione semplice ma tagliente di studi culturali, postcoloniali e decoloniali, stabilita nella mossa inaugurale di litigare sulla propria provenienza.
Questo, in fondo, è ciò che propone il potente film di Jonathan Glazer La zona d’interesse (2023). L’apparente distanza temporale dall’Olocausto e il non-luogo dei campi di sterminio in qualche parte dell’Europa orientale si trasformano nell’immediatezza di uno spazio domestico. I dettagli quotidiani del cibo, dei vestiti, del giardinaggio e del sesso in prossimità della logistica della morte industrializzata risuonano profondamente nel presente. A questo livello, la questione dell’etichettatura non è importante. Forse Gaza come campo di concentramento si sta trasformando in Auschwitz, e il sionismo in fascismo, ma a questo punto i dettagli e le differenziazioni storiche escono dalla scala dell’osservazione neutrale e della valutazione astratta. L’indifferenza pubblica della politica e dei media occidentali al massacro di Gaza suggerisce chiaramente l’urgenza di un’analisi e di una cura [7]. Se l’indifferenza richiede una complicità attiva nell’evitare, ignorare e negare l’oggetto rifiutato, allora lo specchio di questo ristretto narcisismo deve essere infranto. Come si può fare? Il paziente può essere guarito?
Ovviamente, è necessario rimuovere i palestinesi e gli arabi dalle gerarchie geopolitiche razziali ridotti meramente ad essere oggetti della politica e della categoria della vittima. La straordinaria produzione contemporanea di romanzi, poesia, teatro, cinema e musica in Palestina e nella sua diaspora ci indica chiaramente questa direzione. Il ragionamento artistico incrina sempre una razionalità monocromatica. L’insistenza sulla formazione della soggettività attiva e creativa propone un campo affettivo di corpi, vite e voci che contestano il silenzio anonimo in cui il palestinese è abitualmente condannato. Ma rompere il silenzio non significa semplicemente liberare delle voci di opposizione. Attraverso la sua poetica, ci trascina anche nella rielaborazione e nell’estensione di ciò che significa essere un palestinese oggi. E questo, a causa delle condizioni storiche del processo, non è un affare culturale isolato.
Infatti, se Israele e la sua millantata democrazia sono un laboratorio dei suoi fallimenti emergenti, sia a Tel Aviv che a Londra, Berlino e New York, la Palestina propone coerentemente un esperimento pedagogico di una democrazia a venire in cui la fiducia nell’etnonazionalismo, le aspirazioni omogenee della moderna forma di Stato-nazione e l’imperativo razziale della dominazione bianca occidentale vengono meno. L’attaccamento simultaneo alla terra, all’ulivo e al diritto alla libertà sfida la comprensione del rigido contenitore dell’identità e della cittadinanza. Costretto a elaborare continuamente un rapporto con un paesaggio distrutto, sia nella fisicità del territorio che sta scomparendo sia nelle ibride relazioni prodotte nella diaspora, l’eccesso del linguaggio della Palestina prefigura altre politiche e modi di essere ancora a venire [8].
Il sionismo, infatti, è un progetto razzista dichiarato. La politica che propone è esclusiva, riservata solo agli ebrei. Se questo è stato recentemente reso esplicito nella Legge fondamentale del 2018 che conferma Israele come Stato-nazione del popolo ebraico, esso precede di molto la fondazione di Israele nel 1948. Già negli anni ‘20, in Palestina, il regime sionista del lavoro di Avoda Ivrit era riservato esclusivamente ai coloni ebrei [9]. Come insistono giustamente Walaa Alqaisiya e Nicola Peruginia, la Nakba come espressione diretta del colonialismo è un continuum. Stiamo parlando di un processo coloniale che continua a produrre e punire il presente. In questo preciso senso storico e politico, la Palestina è una scena del crimine che l’Occidente si rifiuta di indagare, nel timore che la denuncia del crimine riveli che siamo noi i veri responsabili [10]. Come suggerisce Lyndsey Stonebridge, autrice di un bel saggio su Hannah Arendt, dobbiamo ascoltare József Debreczeni, Cold Crematorium: Reporting from the Land of Auschwitz, quando chiede perché a così pochi viene in mente che stiamo commettendo un crimine? [11]
Tuttavia, questa scena del crimine non è ovviamente limitata alla Palestina. La continua negazione ha molto a che fare con il fatto che non si adatta alla narrazione stabilita, in cui l’altezza morale è stabilita e pattugliata dai bisogni e dalle preoccupazioni occidentali [12]. Questo permette di rovesciare con forza le sfide storiche che vengono schiacciate in un monotono piatto dove qualsiasi critica a Israele, dall’insediamento-colonialismo al sionismo, è semplicemente etichettata come ‘antisemitismo’. È qui che coloro che hanno il potere di architettare questo gioco si presentano come vittime, vittime di potenziali terroristi (arabi, palestinesi), intrusi (migranti) e popoli non bianchi che minacciano il loro stile di vita e li sostituiscono [13]. La maschera liberale si dissolve per svelare l’aggressività diretta della supremazia bianca.
A questo punto, diventa imperativo disfare le coordinate della narrazione dominante e smontare le accuse generalizzate di antisemitismo ogni volta che si esprime una critica a Israele.
Nella valanga di accuse di antisemitismo che ha caratterizzato la mostra dell’arte contemporanea documenta 15 fin dal primo giorno nel giugno 2022, venti film conservati a Tokyo e presentati dal gruppo palestinese Subversive Film documentavano la lotta palestinese negli anni Sessanta e Settanta. Nelle ultime settimane della mostra hanno portato a Kassel la richiesta, da parte della commissione scientifica (?) stabilita per identificare dell’antisemitismo nell’opere d’arte esibite, del loro ritiro a causa della loro ‘violenza antisemita e terroristica’. Questi film sono prima di tutto un archivio. Senza dubbio un archivio scomodo e inquietante che suggerisce che anche i palestinesi hanno dei diritti. Gli anni ‘60 e ‘70 sono stati gli anni della lotta armata anti-coloniale a Cuba, in Algeria, Vietnam, Sudafrica, Angola, Mozambico, Palestina e in molti altri Paesi del mondo. In quel momento, la lotta anti-coloniale e il cinema condividevano con forza quella che Walter Benjamin chiamava la democrazia comunicativa del cinema.
Criticare questi film come antisemiti significa rimanere intrappolati in una storia locale che si rifiuta di esporsi a domande non autorizzate dall’Occidente. Le loro immagini fanno esplodere quel particolare racconto del tempo con la responsabilità per uno spazio-tempo che non è solo mio da decifrare o gestire. È qui che il concetto impegnativo di responsabilità dovrebbe sostituire la categoria passiva del senso di colpa. Altrimenti, restiamo prigionieri di una fantasia coloniale ossessionata da una supremazia bianca sotto assedio. Qui, l’arabo è sempre il nemico, da scacciare ed eliminare, dell’Occidente cristiano (?) e della colonia sionista d’Israele.
Un annullamento critico dell’autorità assoluta dell’antisemitismo sulla narrazione nazionale in Germania e in Occidente dovrebbe quindi rispondere non solo all’Olocausto come evento storico specifico, ma anche, e soprattutto, alle condizioni coloniali da cui è emerso nel cuore dell’Europa. Sia Aimé Césaire e Frantz Fanon che Hannah Arendt hanno spiegato molto bene questo intreccio. Più che vigilare solamente sull’antisemitismo, ciò richiede, come ci ha insegnato un filosofo ebreo del Maghreb, Jacques Derrida, la volontà di assumersi la responsabilità di un passato (di cui anche le radici profonde dell’antisemitismo e del razzismo fanno parte) ancora da registrare e da elaborare; cioè di una storia che non abbiamo ancora riconosciuto e di cui non ci siamo assunti la responsabilità. Una storia che deve ancora venire. Solo così si potranno affrontare e smantellare le relazioni asimmetriche di un potere che continua a confinare la Palestina nell’ingiustizia e l’Occidente nell’abisso di Gaza.
L’alternativa cupa e assassina è quella di continuare a sostenere una politica per cui l’Israele, racchiuso nel suo etnonazionalismo omicida e restando sempre e solamente alla difesa di sé stessa, non riuscirà mai a vincere la sfida della Palestina, e l’Occidente non riuscirà mai a sfuggire dal suo passato e presente coloniale.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Adania Shibli, Un dettaglio minore, trad. it. Monica Ruocco, La nave del Teseo, Milano, 2021. La narrazione racconta dal punto di vista palestinese dei pericoli e la morte nella ricerca del passato della Nakba nel deserto del Negev.
[2] La dichiarazione ufficiale della Società Max Planck sul suo sito web può essere letta qui: https://www.mpg.de/21510445/statement-ghassan-hage. La presenza di Ghassan Hage presso l’istituzione è stata cancellata dalle pagine web della Società.
[3] Clifford Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna, 2019; James Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.
[4] Johannes Fabian, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, Meltemi, Milano, 2021. Più esplicito il titolo originale in inglese: Time and the Other: How Anthropology Makes its Object, Columbia University Press, New York, 1983.
[5] Patrick Wolfe, Il colonialismo di insediamento e l’eliminazione dei nativi, in Enrico Bartolomei, Diana Carminati e Alfredo Tradardi (a cura di), Esclusi. La globalizzazione neoliberista del colonialismo di insediamento, DeriviApprodi, Roma 2017. Disponibile qui in inglese: https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/14623520601056240. Si veda anche il suo Settler Colonialism and the Transformation of Anthropology, Continuum, Londra, 1999.
[6] Derek Gregory, The Colonial Present, Wiley-Blackwell, Hoboken, 2004.
[7] Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Roma, Laterza, 2024.
[8] Hamza Badran, ‘The Stars in the Sky Are Closer: Being a Palestinian Artist’, estetica… studi e ricerche. Numero 2/2023, maggio-agosto.
[9] Walaa Alqaisiya & Nicola Perugini, ‘The Academic Question of Palestine’, Middle East Critique, vol.33, n.3, 2024, 302. L’articolo può essere consultato qui: ttps://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/19436149.2024.2384009., 302.
[10] Shivangi Mariam Raj, ‘Architecture of Sanitized Fictions’, The Funambulist, n.55, September-October 2024.
[11] Lyndsey Stonebridge, ‘Mythic Banality: Jonathan Glazer and Hannah Arendt’, Journal of Genocide Research, 2024: https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/14623528.2024.2351263. Lyndsey Stonebridge, We Are Free to Change the World, Londra, Jonathan Cape, 2024; József Debreczeni, Cold Crematorium: Reporting from the Land of Auschwitz, Londra, Jonathan Cape, 2024.
[12] Atef Alshaer, ‘Writing Gaza during genocide’, Radical Philosophy 216, Summer 2024. Disponibile qui: https://www.radicalphilosophy.com/article/writing-gaza-during-a-genocide
[13] Walaa Alqaisiya & Nicola Perugini, op. cit.
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Iain Chambers, ha costantemente sviluppato un lavoro interdisciplinare e interculturale nel campo della cultura contemporanea presso l’Università di Napoli, l’Orientale. Ha portato avanti questa linea di ricerca in una serie di analisi critiche sulla formazione del Mediterraneo moderno tramite pubblicazioni quali Le molte voci del Mediterraneo (2007), Mediterraneo Blues (2020) e con Marta Cariello, La questione mediterranea (2019). Nel 2022 è stato membro del collettivo «Jimmie Durham & A Stick in the Forest by the Side of the Road» e ha partecipato a Documenta fifteen. Scrive regolarmente per il quotidiano il Manifesto.
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