di Francesco Medici
In un suo saggio pubblicato in occasione dei novant’anni di Mikhail Joseph Naimy (Mīḫā’īl Yūsuf Nu‘aymah), l’insigne arabista Francesco Gabrieli (1904-1996) fu il primo in Italia ad adoperare per il grande scrittore libanese la definizione di «triplice anima», alludendo alla triplice lingua e triplice cultura di quest’ultimo: araba, inglese e russa. Se è vero infatti che il mondo anglosassone d’America ha formato la ‘seconda anima’ di numerosi autori della letteratura araba dell’emigrazione d’inizio Novecento, quali ad esempio Kahlil Gibran (Ǧubrān Ḫalīl Ǧubrān, 1883-1931) e Ameen Rihani (Amīn Fāris al-Rīḥānī, 1876-1940), una serie di circostanze che si tenterà nel presente articolo di illustrare mise invece Naimy a contatto con l’ambiente slavo ben prima che egli varcasse l’Atlantico, come molti dei suoi compatrioti tra il XIX e XX secolo, e si stabilisse, seppure non definitivamente, negli Stati Uniti [1].
Naimy nasce il 17 ottobre 1889 [2] da una modesta famiglia di fede greca ortodossa, terzo di sei figli, a Baskinta (Baskintā, talvolta traslitterato anche come Biskinta), un villaggio di 2000 anime a una quarantina di chilometri a nord-est di Beirut, situato sulle pendici del monte Ṣannīn, nell’allora mutasarrifato del Monte Libano, distretto autonomo dell’Impero ottomano a maggioranza cristiana. Nel 1895 inizia a frequentare la scuola confessionale del villaggio natale, composta da un’unica classe tenuta da un paio di insegnanti, dove apprende l’alfabeto arabo e i rudimenti dell’aritmetica. Nel 1899 continua gli studi presso un istituto scolastico fondato a Baskinta dai missionari della Società Imperiale Ortodossa Russa di Palestina. Il corpo docente era costituito da cinque maestri e quattro maestre che impartivano lezioni di grammatica araba, lingua russa, geografia, aritmetica, storia ed educazione fisica.
Grazie all’eccellente profitto, nell’autunno del 1902 lo studente ottiene di proseguire la sua formazione a Nazareth, in Palestina, presso una scuola maschile fondata con gli aiuti della Chiesa ortodossa russa e istituita specificamente per la preparazione dei futuri insegnanti nonché per avviare i giovani al sacerdozio. Uno zio lo accompagna a dorso di mulo fino al porto di Beirut, dove il fanciullo si imbarca su un piccolo piroscafo che lo conduce ad Haifa. Giunge in treno a Nazareth nel mese di dicembre e vi rimane per i successivi quattro anni.
Nuovamente selezionato tra i migliori allievi dell’istituto, nel settembre 1906 parte alla volta della Russia zarista per intraprendere gli studi teologici presso il seminario diocesano della città di Poltava, nell’attuale Ucraina. Il diciasettenne arriva a destinazione dopo un viaggio in nave di due settimane da Beirut fino al porto di Odessa e un paio di giorni di treno. Negli anni seguenti approfondirà la lettura in lingua originale di Puškin, Lermontov, Žukovskij, Nikitin, Nekrasov, Gogol’, Turgenev, Dostoevskij, Čechov, Nadson, Gor’kij, Gusev-Orenburgskij, Belinskij.
A partire dal 23 marzo 1908 inizia a tenere un diario in russo le cui ultime annotazioni si fermano al 21 maggio 1909, per un totale di circa 750 pagine vergate nell’antica ortografia prerivoluzionaria, alcune delle quali, tradotte in arabo, confluiranno cinquant’anni dopo nella sua autobiografia in tre tomi Sab‘ūn: ḥikāyat ‘umr (Settanta: storia di una vita)[3]. Naimy vi riversa tutta la sua passione per la cultura e per gli abitanti del Paese ospitante, con un’attenzione particolare rivolta all’umile e infaticabile classe contadina, ma non tralascia di descrivere i molti mali e contraddizioni di un ormai fatiscente Impero russo a cavallo tra due rivoluzioni (quella fallita del 1905 e quella, ancora da venire, del 1917): le evidenti diseguaglianze e ingiustizie sociali, la crudeltà del sistema feudale, l’inerzia dell’aristocrazia, la povertà di braccianti e operai ridotti a servi della gleba, il dispotismo politico e religioso, la corruzione del clero. Il giovane cerca rifugio in un mondo ideale di semplicità, verità, giustizia e bellezza, e si dedica alla lettura degli scritti etici di Tolstoj.
Nel corso dell’estate del 1909 si concede una vacanza a Baskinta e in quegli stessi mesi si cimenta con la composizione di alcune liriche in lingua russa, quali Rybaki (Pescatori), K stoletiju godovščiny Nikolaja Vasil’eviča Gogolja (Per il centenario dalla nascita di Nikolaj Vasil’evič Gogol’), Son (Sogno) e Pochorony ljubvi (I funerali dell’amore), tutte sistematicamente sottoposte al vaglio di Ivan Vasil’evič Avramenko, il suo docente preferito nella scuola di Poltava nonché suo mentore letterario. I manoscritti originali di alcune di tali opere, tutte rimaste inedite, sono contenuti in un suo taccuino personale dell’epoca, custodito dal 2015 presso la biblioteca dell’Università di Harvard (Cambridge, Massachusetts) [4], mentre altri sono purtroppo andati perduti.
La sua poesia Mjortvaja reka (Il fiume morto), anche nota come Zastyvšaja reka (Il fiume ghiacciato), composta una sera d’inverno dopo una passeggiata lungo il fiume Sulà [5], viene pubblicata nel 1910 sotto lo pseudonimo di «N.-Rêveur» (ovvero «N.-Sognatore», in francese) sul primo numero di «Avrora» (Aurora), periodico non ufficiale del seminario interamente redatto a mano dagli studenti [6]. Sebbene si tratti di versi ancora acerbi, essi costituiscono di fatto l’esordio poetico dell’autore, che a quel tempo non aveva ancora dato alle stampe alcunché nella sua lingua madre. Se ne fornisce qui di seguito un’inedita traduzione in italiano:
Perché giaci addormentato,
Sulà, come fossi morto,
con il corpo tutto avvolto
in un bianco sudario?
Perché hai arrestato
la tua corsa tra le steppe,
perché più non s’ode il sussurro
delle onde tue d’argento?
Sei forse stanco di fluire,
Sulà, hai forse subìto un maleficio?
Oppure è colpa dell’inverno
se la morsa bruciante del gelo
ti ha incatenato mani e piedi?
Contristate sono ora le tue sponde,
congelate le tue acque cristalline.
Più non vi naviga sulla barchetta
con le sue reti l’audace pescatore.
Sopra di te pendono mesti i salici,
reclinando dolenti i rami spogli.
L’usignolo impertinente
più non canta tra quelle fronde
né li carezzano i venti del sud.
Soltanto i corvi neri in stormo
vi accorrono in volo
penosamente gracchiando.
E mi pare che quel gracchiare
sia un inno di morte,
che quel coro straziante
sia un canto funebre
alla tua consumata giovinezza.
***
Eppure tornerà primavera
e spezzerà il suo tepore
le catene dell’inverno,
e tra le foreste e i campi
tu riprenderai la corsa verso l’azzurro mare.
Fioriranno le tue rive tutt’intorno,
rinverdiranno i salici.
L’usignolo, non già i corvi,
v’intonerà le sue gaie melodie.
***
Ma anche per me, mi chiedo,
tornerà primavera? Torneranno
i dolci anni dell’infanzia,
la mia verde giovinezza?
Rifiorirà il mio arido cuore?
Si rischiareranno le tenebre della mia anima?
Mi sorriderà ancora la dura vita?
E ritorneranno i miei giorni felici?
No, non torneranno più, e io,
tutto solo, non rivedrò primavera!
Ché volati via sono i miei sogni spensierati,
andata per sempre la mia pace, e tutto è ormai perduto!
***
E si risveglierà la nostra Madre Russia
dal sonno antico dei bogatyri [7]?
L’attraverseranno le acque primaverili
a portare nuova linfa alle nude steppe?
Tornerà a risplendere il bel sole
nei suoi cieli eternamente cupi?
E nei campi silenti e addormentati
danzerà di nuovo l’allegra vita?
Vedranno ancora i loro giorni beati
i figli laboriosi della Santa Russia?
***
Oh, noi non perdiamo la fede, cara Russia,
crediamo con tutto il nostro cuore
che anche per te tornerà primavera.
Ma sai dirci quando questo accadrà?
No, tu taci, amata Russia.
Continua pure a dormire allora, mia diletta…
Il poeta, che paragona le condizioni in cui versava l’Impero russo a quelle di un fiume congelato e stagnante, sembra quasi profetizzare un’imminente quanto inesorabile rivoluzione. Il componimento, caratterizzato da un ritmo prosastico, è costruito su brevi strofe rimate dense di esclamazioni e allitterazioni. Lo stile è quello tipico dei canti della tradizione contadina russa, in cui il paesaggio naturale si fa scenario dei più profondi sentimenti dell’animo: malinconia, dolcezza, struggimento, smarrimento. Anche il gioco di contrasti e parallelismi e il tema della ciclicità delle stagioni sono peculiari delle canzoni popolari russe. Di particolare interesse al riguardo è pure il ricorso a forme della lingua antica o colloquiale: «staja voronov» («stormo di corvi», presagio di sventura e morte), «pesenki pogrebal’nyja» (i «canti funebri», parte integrante delle cerimonie e dei riti religiosi delle regioni slave orientali, che raccontavano sia l’esistenza terrena del defunto sia la sua nuova vita in cielo), «Rus’ Matuška» («Madre Russia»), «krasno solnyško» (letteralmente «sole rosso», nell’accezione di «sole bello»).
Benché retto da una severa e gretta disciplina interna, l’istituto di Poltava lasciava tuttavia agli allievi una certa libertà di movimento e di relazioni sociali: per il poeta in erba risalgono a quel periodo le prime frequentazioni di spettacoli teatrali, balletti, eventi artistici e culturali, nonché le sue prime avventure amorose con alcune ragazze del luogo, tra cui una certa Varja, sorella sposata di Aljoša, un compagno di studi. Sfortunatamente, solo qualche tempo dopo la pubblicazione di Mjortvaja reka, il ragazzo resta coinvolto in una protesta studentesca che, per decreto del Santo Sinodo, gli costa l’espulsione dal seminario. Deve così preparare l’esame finale da privatista e ottiene il diploma nel marzo 1911. Non intenzionato a ordinarsi sacerdote, lascia Poltava e all’inizio di aprile fa ritorno a Baskinta.
Nel mese di novembre si lascia convincere da uno dei fratelli maggiori a seguirlo negli Stati Uniti e si stabilisce a Walla Walla (Washington). Nell’ottobre 1912 si iscrive alle facoltà di letteratura inglese e giurisprudenza dell’Università del Washington, a Seattle. Nel 1913 sul numero di luglio del mensile newyorkese in lingua araba «al-Funūn» (Le arti), appena fondato da Naseeb Arida (Nasīb ‘Arīḍah, 1888-1946), compagno di studi a Nazareth dal 1902 al 1904 [8], compare il suo primo articolo: un’entusiastica recensione al romanzo al-Aǧnīhạh al-Mutakassirah (Le ali spezzate) [9] del connazionale Gibran, dal titolo Faǧr al-amal ba‘d layl al-yā’s (L’alba della speranza dopo la notte della disperazione) [10]. A partire dal numero di novembre del medesimo mensile, destinato a diventare in breve tempo l’organo di stampa ufficiale della letteratura araba d’emigrazione, inaugura la rubrica al-Ši‘r wa al-šu‘arā’ (La poesia e i poeti), in cui illustra il ruolo rivestito dalla poesia e dai suoi principali esponenti nel panorama della storia della letteratura araba.
Il 14 giugno 1916 consegue la doppia laurea negli studi giuridici e letterari. Il 18 agosto si dimette dall’impiego di vicesegretario presso il Consolato russo a Seattle e in ottobre si trasferisce a New York, dove incontra il poeta-pittore Gibran, di cui diviene intimo amico. Quest’ultimo, come tutta la cerchia dei suoi sodali più stretti, suole chiamarlo affettuosamente «Mischa» (Miša), in riferimento al periodo trascorso in Russia. Per sostentarsi a New York, lavora prima come semplice impiegato negli uffici della Marina Mercantile Russa, poi come viceispettore per conto della delegazione russa presso la “Bethlehem Steel Co.”, con sede nell’omonima cittadina in Pennsylvania, una ditta di forniture d’acciaio che riceveva molte ordinazioni per l’acquisto di armi da parte del governo zarista. Nonostante la discreta retribuzione economica, l’impiego gli causa una profonda crisi di coscienza: confesserà anni dopo di non poter sopportare il fatto che il pane che si guadagnava fosse intriso del sangue di migliaia di giovani che morivano al fronte e bagnato delle lacrime dei loro cari in tutto il mondo. Dal mese di dicembre inizia a pubblicare a puntate su «al-Funūn», di cui era divenuto intanto coeditore, una pièce in quattro atti dal titolo turgeneviano al-Abā’ wa al-banūn (Padri e figli) [11].
Sul numero di febbraio 1917 di «al-Funūn» esce al-Nahr al-mutaǧammid (Il fiume ghiacciato), rimaneggiamento in arabo dell’omonima lirica composta in russo sette anni prima, che sarà poi inclusa quasi un trentennio più tardi nella silloge Hams al-ǧufūn (Bisbiglio di palpebre) [12]. L’anno di pubblicazione di questa sua prima poesia in arabo coincide, per una fatale coincidenza, con quello della dissoluzione dell’Impero zarista che l’autore aveva conosciuto negli anni giovanili. Anche di tali versi, come per quelli in russo, si propone qui di seguito una traduzione altrettanto inedita in italiano:
Fiume, sono forse disseccate le tue acque
sì che giaci privo di sussurro?
Oppure sei invecchiato e la lena ti vien meno,
e perciò arresti la tua corsa?
Ieri cantavi tra i campi e i fiori,
declamando al mondo le storie d’ogni tempo.
Ieri il tuo fluire non temeva ostacoli al cammino,
ma oggi un silenzio t’opprime, greve come lastra tombale.
Ieri, se venivo a te gemendo, tu mi consolavi.
Oggi vengo sorridente, e tu m’induci al pianto.
Ieri, quando udivi i miei sospiri e i miei lamenti, tu piangevi,
ma oggi piango solo, ché già non piangi qui con me.
Cosa sono questi bianchi sudari? Sono forse catene di ghiaccio
con cui ti ha imbrigliato la morsa terribile del gelo?
Lungo i tuoi argini, salici spogli di foglie e di bellezza
si piegano dolenti sotto le raffiche del vento del nord.
Il pioppo geme sul tuo capo dimenando i rami
ove il cardellino più non spande i suoi trilli melodiosi.
Stormi di corvi accorrono gracchiando tutto intorno
come piangendo gli anni perduti della tua giovinezza,
e quel gracchiare in coro, al mattino e alla sera,
è trenodia all’estremo viaggio del tuo corpo puro verso l’aldilà.
***
Ma l’inverno passerà e verranno i giorni di primavera
a slegarti dai ceppi che la mano del ghiaccio ha forgiato.
E i tuoi chiari flutti riprenderanno la corsa verso i mari,
gravidi dei segreti delle tenebre, ebbri della luce del giorno.
E tornerai a sorridere, mentre la dolce brezza carezzerà il tuo volto quieto
e le stelle della notte scura si bagneranno ancora nelle tue acque.
La luna piena calerà dal cielo la sua coltre d’argento
e il sole vestirà di fiori le tue nude spalle.
Il pioppo, dimentico dei patiti stenti e degli affanni,
si ergerà di nuovo, ondeggiando fiero tra le rinverdite fronde.
Si ravviveranno i salici della ritrovata giovinezza,
e riecheggeranno i loro rami del trillo del cardellino,
e non più del gracchìo funebre dei corvi.
***
Una volta, fiume mio, mi batteva in petto un cuore gaio come i prati,
al par del tuo, libero e palpitante di aneliti e speranza,
un cuore sempre nuovo, dalla sera al mattino, che non conosceva tedio.
Oggi, come sul tuo viso, le onde di speranza del mio cuore sono immote:
tutti uguali i giorni, le mattine e le sere,
scialba la vita, con le sue delizie e i suoi tormenti,
incolori la primavera, l’autunno e l’inverno,
indistinte le lacrime degli afflitti e le risa dei gioiosi.
Il tumulto della vita ha bandito questo cuore,
che si è ritirato in solitudine e si è fatto asciutto e duro,
divenendo ormai un estraneo tra l’umana gente.
E io per i miei simili sono un mistero
che serba in sé un mistero ancor più arcano.
***
Ecco, fiume caro, questo mio cuore è come te, prigioniero.
Ma so che tu tornerai libero un giorno,
il mio cuore invece no, non scioglierà i suoi lacci.
La composizione si attiene, almeno in parte, a uno dei metri tradizionali della poesia araba classica denominato kāmil, seppure con qualche licenza, ma risente anche dell’influenza di forme metriche occidentali come il distico eroico di matrice inglese, che aveva goduto di una certa popolarità nel XIX secolo. Nel passaggio dal russo all’arabo, viene espunto dalla lirica ogni riferimento alla Russia – ai suoi abitanti, alla sua cultura, ai suoi elementi naturali (per esempio, il vocabolo «step’» [«steppa»] viene sostituito da «al-ḥadā’iq wa al-zuhūr» [«i giardini e i fiori»]) –, e il testo assume un carattere più intimo: il fiume ghiacciato, qui privo di denominazione, si fa esclusivamente metafora della crisi interiore del poeta, della sua condizione di isolamento tra gli altri esseri umani.
Con l’obiettivo di promuovere l’arruolamento volontario dei siro-americani al fianco delle forze alleate, nel maggio 1917 viene fondato a New York il Comitato per la Liberazione della Siria e del Monte Libano (in inglese Syrian-Mount Lebanon League of Liberation, anche noto come Syrian-Lebanese League of Liberation o Syrian-Mount Lebanon Volunteer Committee), i cui segretari sono Gibran, per la corrispondenza in lingua inglese, e Naimy, per quella in arabo. Con la Rivoluzione d’ottobre, e quindi con il ritiro della Russia dal conflitto e la conseguente interruzione di qualsiasi rapporto tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, si conclude anche la sua esperienza lavorativa presso la “Bethlehem Steel Co.”. Lasciata la cittadina di Bethlehem, all’inizio del 1918 torna a vivere a New York. Arruolatosi volontario nell’esercito statunitense, il 25 maggio riceve la chiamata alle armi (il suo reclutamento era stato differito a causa dell’impiego presso la “Bethlehem Steel Co.” che, come detto, forniva armamenti agli alleati russi) e viene destinato al fronte franco-tedesco.
Nell’autunno del 1909 ritorna a New York, dove si riunisce ai suoi colleghi di «al-Funūn», e inizia a svolgere i più disparati lavori saltuari per sostentarsi. Il 28 aprile 1920, insieme a una decina di scrittori siro-libanesi, è tra i fondatori a New York di al-Rābiṭah al-Qalamiyyah (Vincolo della Penna), nota in inglese semplicemente come Arrabitah, un’associazione letteraria presieduta da Gibran, di cui egli viene nominato segretario e della quale stila lo statuto ufficiale. In questi anni stringe la sua collaborazione con i periodici newyorkesi «al-Sā’iḥ» (Il viaggiatore) – fondato nel 1912 a New York dai fratelli siriani Nadrah Ḥaddād (1881-1950) e ‘Abd al-Masīḥ Ḥaddād (1890-1963) – e «The Syrian World» (Il mondo siriano) – primo mensile arabo-americano in lingua inglese, fondato nel 1926 da Salloum Mokarzel (Sallūm Mukarzil, 1881-1952) –, nonché con diversi quotidiani e testate nazionali.
Il 19 aprile 1932 lascia per sempre gli Stati Uniti per fare ritorno in patria, con 500 dollari in tasca e una profonda delusione verso la civiltà americana, completamente asservita, a suo dire, al dio denaro. Rientrato in Libano, fa voto di castità e si dà alla vita ascetica, ritirandosi in un eremo presso una località montana non lontana da Baskinta e denominata Shakhroub (al-Šaḫrūb), dove continua infaticabilmente a scrivere e a pubblicare racconti, romanzi e contributi vari in arabo e in inglese.
Nel 1956 partecipa a Beirut a una cerimonia per il 75° anniversario della morte di Dostoevskij, a seguito della quale, in agosto, su invito della Lega degli Scrittori Sovietici, si reca per tre settimane in Russia, dove torna a visitare dopo quarantacinque anni i luoghi che aveva frequentato in gioventù, ormai profondamente trasformati dalla rivoluzione: oltre a Mosca, Leningrado (San Pietroburgo), Stalingrado (Volgograd) e Kiev, rivede Poltava, il cui antico seminario era divenuto una casa della cultura e la chiesa una sala per conferenze.
Nel suo saggio pubblicato a Beirut l’anno successivo dal titolo Ab‘ad min Mūskū wa min Wāšinṭun (Oltre Mosca e Washington) [13] scriverà al riguardo: «Non biasimo il comunismo per aver stigmatizzato una tal fede (quella dei riti cristallizzati, della superstizione e dello sfruttamento dei credenti); lo biasimo per aver stigmatizzato ogni fede, e aver cercato di imporre l’ateismo, dimenticando così di fare del suo stesso ateismo una fede, in nulla differente da quella che esso combatte» [14]. Si rammarica inoltre di non aver potuto incontrare di persona il grande arabista Ignatij Kračkovskij (1883-1951) – anche noto tra i conoscenti arabi con lo pseudonimo «Ġanṭūs al-Rūsī» (Ġanṭūs [diminutivo di Ignatij in dialetto libanese] il russo) –, deceduto pochi anni prima, che già dagli anni Venti si era interessato alle sue opere letterarie [15] e con cui egli aveva intrattenuto per anni una lunga e intensa corrispondenza epistolare. Nel 1962 rivede Mosca per l’ultima volta in qualità di partecipante alla Conferenza Internazionale di Pace organizzata nella capitale russa.
ll 28 febbraio 1988 Naimy muore poco meno che centenario di infezione polmonare a Zalka (Zalqā), sobborgo a nord di Beirut, nell’appartamento dove aveva trascorso i suoi ultimi vent’anni di vita circondato dalle cure amorevoli della nipote May Najeeb (Mayy Naǧīb, 1924-2014) e della pronipote Suha Haddad (Suhá Haddād), meglio nota come Suha Naimy (Suhá Nu‘aymah). A partire dal 1958 fino ai giorni nostri l’URSS prima e successivamente la Federazione Russa e l’Ucraina non hanno mancato di rendere onore allo scrittore del Paese dei Cedri attraverso innumerevoli traduzioni delle sue opere [16], celebrazioni, eventi e conferenze. In occasione del centenario della nascita, dal 24 al 26 aprile 1989, si tiene a Poltava un convegno sull’autore a cui partecipano alcuni tra i maggiori arabisti sovietici quali la russa Anna Dolinina (1923-2017) e l’azera Aida Imangulieva (1939-1992) [17]. Il 29 ottobre 2011, nella medesima città, viene inaugurato da Yūsuf Ṣādiq, ambasciatore del Libano in Ucraina, un monumento a lui dedicato. Nel novembre 2019, in occasione dei 130 anni dalla nascita, la Casa Libanese di Mosca (associazione nota in arabo come al-Bayt al-Lubnānī, in russo come Livanskij Dom) gli dedica un convegno internazionale, mentre, sempre a Mosca, dall’11 novembre al 9 dicembre, la Biblioteca Nazionale Russa (Dipartimento di Letteratura dell’Asia e dell’Africa) ospita una mostra delle prime edizioni in arabo di alcune delle sue opere insieme alle relative traduzioni in russo.
Tra le pagine più suggestive dell’autobiografia di Naimy figurano senz’altro quelle in cui l’autore racconta di come e quando ebbe inizio la sua ‘esperienza russa’, cioè con la fondazione della scuola ‘moscovita’ nel suo misero villaggio natio, «sotto lo sguardo tollerante e incurante del regime ottomano» [18]:
«Avevo tra i cinque e i sei anni quando la comunità ortodossa annunciò la costruzione, nella zona est di Biskinta, […] di un grande edificio. Noi piccoli capimmo che l’edificio in questione sarebbe stata una scuola ‘moscovita’, che ci avrebbe risparmiato di frequentare l’umile scuola confessionale del paese […]. L’edificio fu completato nel 1896, e appena ci trasferimmo, per noi fu come passare dall’inferno al paradiso. Le aule erano ampie, belle e pulite, i banchi di una forma mai vista prima: il sedile era unito a un piano d’appoggio per scrivere, e davanti a ciascuno studente c’era un calamaio di rame, infilato in quello stesso piano d’appoggio. Nella parte anteriore dell’aula c’era una pedana alta con sopra una cattedra e una sedia per il maestro. Su una parete c’era una lavagna nera e, sotto, dei gessi e un cassino. Al centro dell’edificio scolastico si trovava un lungo e ampio corridoio dove gli studenti si radunavano per pregare prima e dopo le lezioni. Su un lato di quel corridoio c’erano lavandini, asciugamani, saponi e pettini, e sul lato opposto, ma sulla parete esterna, in alto, era sistemata una campanella dal suono dolce, che ci avvertiva dell’inizio delle lezioni, alle otto del mattino, e ci informava quando finivano alle quattro del pomeriggio. Ma la cosa più splendida era che i libri, i quaderni e le penne ci venivano distribuiti gratuitamente; inoltre la scuola che in passato era frequentata solo dai maschi, ora era diventata mista […]; il numero degli insegnanti era aumentato da due a nove […]. Ma la cosa più importante, ai nostri occhi, era che i colpi di bacchetta su mani e piedi erano stati proibiti e i maestri che vi facevano ricorso erano passibili di sanzioni. Quanto al direttore della scuola, questi veniva scelto tra coloro che si erano diplomati alla Scuola russa per insegnanti di Nazareth. La mia massima aspirazione all’epoca era di poter diventare un giorno il direttore della scuola ‘moscovita’. Noi piccoli non potevano sapere da dove provenisse tutta quella grazia di Dio, né come! Sapevamo soltanto che i ‘moscoviti’ erano un popolo forte e generoso, governato da uno zar che quando parlava faceva tremare tutti i re della terra, e che abitavano in un paese freddo e lontano del Nord e che erano rūm [19] come noi, e per questo simpatizzavano per noi e si preoccupavano di difenderci insieme alla nostra ‘religione’, l’unica vera religione! Quanto al nostro Stato Sublime [20], esso aveva raggiunto una condizione non più sanabile di divisione e decadenza, e le nazioni occidentali, con il pretesto della religione, avevano cominciato a competere tra loro per estendere la propria influenza sulle diverse parti di quello stato in rovina, […] ma tutto questo, noi studenti lo ignoravamo e non ci rendevamo conto di ciò che accadeva. […] Una volta all’anno – il 6 dicembre –, il giorno di San Nicola, si organizzava una grande cerimonia in onore dello zar Nicola II per il suo onomastico. Di mattina pregavamo, e la sera tutta la comunità, grandi e piccoli, uomini e donne, si radunava e insieme partecipavamo a una grande cerimonia intervallata da canti, trilli e danze; si lanciavano fuochi d’artificio e urla di evviva per sua maestà, il sovrano felice nella sua remota San Pietroburgo: “Che Dio lo faccia essere vittorioso…”. E se quelle nostre grida fossero giunte all’orecchio del sultano ottomano ‘Abd al-Ḥamīd sulla riva del Bosforo? In fondo eravamo considerati ancora suoi sudditi!» [21].
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Cfr. F. Gabrieli, L’esperienza russa di Nu‘ayma, in A Mikhaìl Nu‘ayma. In occasione del 90º compleanno, Istituto per l’Oriente – Università di Palermo, Roma 1978: 5-18.
[2] In realtà le fonti, sia ufficiali sia non ufficiali, risultano totalmente discordi per quanto concerne la data esatta: 22 novembre, 3 dicembre, 9 dicembre ecc.; una sua carta d’identità libanese rilasciata nel 1956 postdata addirittura l’anno di nascita al 1890; la data del 17 ottobre 1889, riportata negli studi più autorevoli, è semplicemente quella che l’autore ‘scelse’ per sé a seguito di un sogno rivelatore fatto nel 1932.
[3] M. Nu‘aymah, Sab‘ūn: ḥikāyat ‘umr, Dār Ṣādir, Bayrūt 1959-1960.
[4] “Papers of Nasīb ‘Arīḍah, 1887-1946”, sezione “N. Arida, A. Haddad and N. Haddad Collection,” Widener Library, Harvard University, box 2.
[5] Affluente di sinistra del fiume Dnepr, in Ucraina, la cui alimentazione deriva principalmente dallo scioglimento delle nevi invernali. Il fiume è congelato da dicembre all’inizio della stagione primaverile. Usato per la distribuzione dell’acqua potabile e la pesca, è a tratti anche navigabile.
[6] Per la versione originale russa del testo, cfr. M.L. Swanson, The Russian Influence on the Literary and Critical Writings of Mikhail Naimy, A Dissertation Submitted to the Faculty of the School of Middle Eastern and Northern African Studies, Univeristy of Arizona, 2014: 242-247; M.L. Swanson & R.R. Gould, The Poetics of Nahḍah Multilingualism: Recovering the Lost Russian Poetry of Mikhail Naimy, «Journal of Arabic Literature», 52 (2021): 185-187.
[7] Eroi della poesia epica, tradizionalmente rappresentati come i difensori della terra russa che compiono difficili imprese guerresche o ardue fatiche, oppure come personaggi dotati di grande forza, bellezza, intelligenza o ricchezza.
[8] Cfr. F. Medici, Naseeb Arida, un poeta siriano tra New York e Iram, «Dialoghi Mediterranei», 47, gennaio 2021.
[9] Ǧ. Ḫ. Ǧubrān, al-Ağniḥah al-mutakassirah, Maṭbaʻat Ǧarīdat Mir’āt al-Ġarb, New York 1912.
[10] M. Nu‘aymah, Faǧr al-amal ba‘d layl al-yā’s, «al-Funūn», 1, 4 (Jul. 1913): 50-70.
[11] M. Nu‘aymah, al-Abā’ wa al-banūn, «al-Funūn», 2, 7 (Dec. 1916): 609-622; 2, 8 (Jan. 1917): 710-726; 2, 9 (Feb. 1917): 794-813; 2, 10 (Mar. 1917): 905-930; 2, 11 (Apr. 1917): 1002-1023.
[12] M. Nu‘aymah, al-Nahr al-mutaǧammid, «al-Funūn», 2, 9 (Feb. 1917): 783-785; poi in M. Nu‘aymah, Hams al-ǧufūn, Dār Ṣādir, Bayrūt 1943: 10-13.
[13] M. Nu‘aymah, Ab‘ad min Mūskū wa min Wāšinṭun, Dār Bayrūt, Bayrūt 1957. L’opera pone a confronto gli elementi costitutivi della civiltà russa e di quella statunitense, al di là dell’ideologia comunista e di quella capitalista.
[14] Cfr. Gabrieli, cit.: 17.
[15] Per le pagine più significative che lo studioso russo dedica al «seminarista di Poltava», cfr. I. Kračkovskij, Poltavskij Seminaris, in Nad arabskimi rukopisjami (Sui manoscritti arabi), Moskva-Leningrad 1946: 49-55.
[16] Nel 1958 vengono pubblicati a Kiev Znatni, traduzione in ucraino della raccolta di racconti Akābir (Notabili), e a Mosca in traduzione russa i racconti Sanatuhā al-ǧadīdah (Il suo nuovo anno) e al-‘Aqir (La sterile), rispettivamente con i titoli Jejo novij god e Besplodnaja, inclusi nell’antologia Rasskazy pisatelej Livana (Racconti di scrittori libanesi); nel 1959 un’antologia di suoi racconti tradotti in russo viene pubblicata a Mosca con il titolo Livanskije Novelly (Novelle libanesi); nel 1963 vengono pubblicati a Mosca in traduzione russa i racconti Silač (Un uomo forte) e Almaznaja svad’ba (Le nozze di diamanti); nel 1966 alcuni racconti in traduzione russa vengono inclusi nell’antologia pubblicata a Mosca V mojom gorode idjot dožd’: novelly pisatelej Sirii, Livana, Iordanii (Piove nella mia città: prose di scrittori siriani, libanesi, giordani); nel 1979 vengono pubblicati a Mosca in traduzione russa i racconti Sā’at al-kūkū (L’orologio a cucù) e Ğundīyān (Due soldati), rispettivamente con i titoli Časy s kukuškoj e Dva soldata; nel 1980 viene pubblicata a Mosca la traduzione in russo di Sab‘ūn: ḥikāyat ‘umr (Settanta: storia di una vita) con il titolo Moi sem’desjat let (I miei settant’anni); nel 1981 alcuni suoi contributi in traduzione russa vengono inclusi nell’antologia pubblicata a Leningrado Arabskaja romantičeskaja proza XIX-XX vekov (Prosa romantica araba dei secoli XIX-XX); nel 1998 viene pubblicato a Mosca Vstreča čerez veka (Incontro attraverso i secoli), traduzione russa del romanzo Liqāʼ (Incontro); nel 2004 viene pubblicata a San Pietroburgo la traduzione in russo di The Book of Mirdad (Il Libro di Mirdad) con il titolo Kniga Mirdada.
[17] Cfr. A. Imangulieva, Gibran, Rihani & Naimy. East-West Interactions in Early Twentieth-Century Arab Literature (Gibran, Rihani e Naimy. Interazioni tra Oriente e Occidente nella letteratura araba del primo Novecento), Inner Farne Press, Oxford 2009; per l’edizione originale russa della monografia, cfr. Aida İmanquliyeva, Korifei novoarabskoj literatury: k probleme vzaimosvjazi literatur Vostoka i Zapada načala XX veka (I protagonisti della letteratura neoaraba: sul problema del rapporto tra le letterature d’Oriente e d’Occidente all’inizio del XX secolo), Elm, Baku 1991.
[18] Gabrieli, cit.: 5.
[19] Il termine arabo è usato generalmente per designare i bizantini, i cristiani d’oriente e gli ortodossi in genere. Indica anche gli occidentali.
[20] Lo Stato ottomano, noto anche come Sublime Porta.
[21] M. Nu‘ayma, La mia relazione con la Russia, in Antologia della letteratura araba contemporanea. Dalla nahda a oggi, a cura di M. Avino, I. Camera d’Afflitto, A. Salem, Carocci, Roma 2015: 87-88.
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Francesco Medici, membro ufficiale dell’International Association for the Study of the Life and Work of Kahlil Gibran (University of Maryland, College Park, USA) e del Kahlil Gibran Collective (Melbourne, Australia), è tra i maggiori studiosi a livello internazionale dell’opera gibraniana. Del celebre scrittore e artista arabo-americano ha curato e tradotto in Italia numerosi scritti, mentre molti dei suoi saggi sull’autore sono stati pubblicati anche all’estero, principalmente in Libano e negli Stati Uniti, oltre che in Europa. La sua bibliografia critica e le sue traduzioni si estendono ad altri eminenti letterati mediorientali della diaspora americana di inizio XX secolo, quali Ameen Rihani, Mikhail Naimy, Elia Abu Madi. Suoi articoli riguardanti la cultura islamica e la letteratura araba in generale sono comparsi su diversi periodici. Si è occupato anche di letteratura italiana moderna e contemporanea, in particolare di Giacomo Leopardi, Luigi Pirandello, Arturo Giovannitti e Mario Luzi, al quale ha dedicato una monografia.
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