di Antonio La Spina
Uno sguardo diverso su De Gasperi
Quando viene evocata l’eredità politica di Alcide De Gasperi si fa in genere riferimento al suo essere stato una figura politica di centro, un moderato, leader di un partito con le medesime caratteristiche. Affermazioni del genere non sono del tutto prive di fondamento. Per di più, accanto a De Gasperi nella DC degli esordi operavano figure come Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira, che erano più difficilmente etichettabili come centristi, moderati e così via. È indubbio che tra De Gasperi e i dossettiani vi fossero divergenze di vedute [1]. Sarebbe stata proprio la conduzione di De Gasperi, dunque, secondo la vulgata, a imprimere le predette caratteristiche al partito e alla politica italiana del tempo. Di conseguenza, proprio Dossetti a un certo momento avrebbe sentito il pressante bisogno di farsi da parte.
Tuttavia, come spesso accade la realtà ha sfumature, complessità, aspetti più o meno evidenti di fatto trascurati, che possono essere messi in luce tramite uno sguardo più approfondito, capace di valutare senza preconcetti assunti che pur nella loro parzialità vengono considerati acquisiti (magari fino al punto da diventare luoghi comuni), al fine di riconsiderarli criticamente e talvolta sfatarli [2].
De Gasperi fu certamente uno dei fondatori e un leader del massimo spicco della Democrazia cristiana (peraltro quando era ancora ben presente l’influenza di don Luigi Sturzo). Ciò sarebbe bastato a ritagliargli un posto nella Storia. Ma negli anni del dopoguerra fu anche molto altro. Fu un presidente del consiglio che, dopo le vergogne e lo sfacelo lasciati dal nazifascismo, guidò il Paese verso l’edificazione di un sistema politico democratico, il miracolo economico, alcuni giganteschi passi avanti in direzione modernizzatrice, facendolo accogliere pienamente nel consesso delle nazioni. Fu anche uno dei propulsori di quelle che sarebbe poi diventate le Comunità Europee, secondo un disegno che allora era per certi versi più avanzato rispetto all’odierna condizione concreta dell’Unione Europea.
Infine, cosa a mio sommesso avviso più importante di tutte al fine di cogliere l’orientamento di fondo del suo operato, egli fu – con tutti i problemi di coscienza, i passaggi controversi, i dubbi e i dilemmi che la cosa comporta – un cristiano autentico [3]. Ciò avrebbe dovuto essere scontato, vista la sua appartenenza politica, ma come è noto non lo era affatto. Ad esempio, con la mafia un cristiano autentico non deve avere connivenze più o meno sotterranee. Anzi, la deve contrastare. Più in generale, qualcuno può aderire a una religione, militare in un partito politico che a essa si richiama, assumere posizioni esteriori conseguenti, senza però fare veramente e intimamente propri i valori centrali che la ispirano. L’apparire e l’essere non sempre coincidono. In De Gasperi – così come in una parte dei suoi compagni di partito, ma non in tutti – coincidevano. Più in generale, ciò che si dice, si scrive, si proclama in sedi ufficiali è certo importante, e va preso in considerazione. Ma, soprattutto quando si hanno responsabilità di governo, è ancora più importante cosa si fa, o si omette di fare. Quindi le scelte concrete di De Gasperi, le politiche da lui proposte o a lui riconducibili, la loro effettiva adozione e attuazione.
Nel cosiddetto “Codice di Camaldoli”, redatto nel 1943 – quando il regime fascista appariva ormai avviato a crollare – da un gruppo di esperti, studiosi e religiosi coordinato da un vescovo, l’ispirazione cattolica è evidente e dichiarata fin dalle prime pagine. Queste infatti contengono tra l’altro riferimenti al Nuovo Testamento, a dottori della Chiesa, a statuizioni della dottrina ufficiale. Nel presente scritto non è possibile dar conto del testo nella sua interezza. Certi passaggi (ad esempio alcuni sulla donna) appaiono superati alla sensibilità odierna. Per molti versi sono invece ancora attuali, e istruttive, le sezioni che passo qui un po’ sbrigativamente a richiamare, vale a dire i capitoli I e quelli da IV a VII, riguardanti appunto lo Stato, e poi l’impostazione politica di fondo e le politiche da portare avanti in materia di lavoro, produzione e scambio, economia, politica internazionale.
Va a mio avviso sottolineato che il punto di vista privilegiato in tutto il documento è quello del lavoratore, del cittadino, della persona comune, da difendere contro i privilegi e gli eccessi di coloro che hanno troppa ricchezza e troppo potere (cap. I, 11, 3). Il fine dello Stato è il bene comune, consistente nell’affermazione della giustizia sociale (I, 11) a tutela di tutti i singoli cittadini. Tale fine dovrebbe prevalere su particolari obiettivi, come quello della potenza nazionale o della attuazione di particolari forme di organizzazione produttiva” (I, 9, 3). Quanto al lavoro [4], si parla tra le tante altre cose di tutela contro gli incidenti (IV, 56), “giusto salario” e partecipazione dei dipendenti ai “sopraredditi” dell’impresa (IV, 57), varie forme di protezione sociale (IV, 58), accesso a un’abitazione decorosa (IV, 61, che comporta una politica pubblica per la casa), pericoli derivanti dalla meccanizzazione dei processi produttivi (IV, 63), attribuzione ai dipendenti di quote dell’azienda, partecipazione dei lavoratori alla “gestione aziendale”, cooperative (IV, 66). La giustizia sociale è anche il “principio direttivo della vita economica” (V, 71). La proprietà privata va guardata sotto il suo “aspetto sociale” (V, 73). In particolare, “la proprietà dei beni strumentali” ha un “funzione sociale” (V, 74), e di funzione sociale si parla in vari altri articoli per altre forme di proprietà. La “piccola proprietà coltivatrice […] meglio soddisfa le esigenze della persona umana” (V, 77), il che rinvia alla riforma agraria. La cooperazione contribuisce a “una più equa ripartizione della ricchezza” (V, 79). “Rilevanti accumulazioni di beni” possono determinare “lo strapotere di pochi” (V, 80). Per le tasse di successione, sono difendibili prelievi “elevati, quanto più ingente è il patrimonio del testatore” (V, 83, c). La giustizia sociale concerne anche “la comunità internazionale dei beni” (V, 84). In linea di massima, tutti dovrebbero lavorare e a tutti dovrebbe esserne data la possibilità (VI, 86, 1; IV, 55). La “attività economica pubblica” è volta, tra le varie altre cose, a “correggere le eccessive disparità economiche” (V, 80; VI, 86, 11). “Le nazioni debbono venir liberate dalla pesante schiavitù degli armamenti” tramite un “effettivo disarmo mutuamente consentito”. “La fede cristiana con la sua legge di amore e fratellanza tra gli uomini” potrà contribuire alla “ricostruzione dell’ordine internazionale” (VII, 97, 5 e 7). A conclusione del testo si legge che “l’idea evangelica può essere strumento di affermazione, liberazione e giustizia per i singoli come per i popoli […] al di sopra delle distinzioni di razza e nazionalità” (VII, 99).
Ai fini dell’argomentazione che sviluppo di seguito, quanto sopra dà un’idea sufficiente degli orientamenti del Codice su settori cruciali dell’intervento pubblico e dei rapporti economico-sociali tra i cittadini. Devo peraltro ammettere che questi cenni sono assai sommari e incompleti. Ogni singola frase di quei cinque capitoli su cui qui mi concentro meriterebbe di essere richiamata, con commenti e approfondimenti ulteriori.
Il Codice fu formulato con l’apporto di “tecnici” molti dei quali vicini a De Gasperi, mentre i dossettiani erano presenti in misura inferiore [5]. Esso indicava alcuni orientamenti di fondo per la DC, nuova formazione politica allora in gestazione che si preparava a dare il proprio contributo al governo del Paese. La sintonia tra le suddette indicazioni camaldolesi – a colpo d’occhio non agevolmente etichettabili come moderate – e le convinzioni personali di De Gasperi si può peraltro dimostrare carte alla mano. Un breve opuscolo del luglio 1943, Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana risulta scritto tra gli altri da Saraceno [6]. Infatti la sua parentela con il Codice è lampante. Tra l’altro vi si legge: “il criterio della progressività […] costituirà il perno fondamentale del sistema tributario” [7].
A fine 1943 De Gasperi stesso, ricollegandosi alle Idee ricostruttive e firmandosi con uno pseudonimo (Demofilo, colui che ama il popolo), pubblicò [8] una prima e poi una seconda versione di quello che sarebbe diventato il documento programmatico della DC. Ad esempio, vi si parla di “minimo di sussistenza” e di superamento della condizione proletaria, “dell’operaio, cioè, del contadino o dell’impiegato che altro non possiede se non le braccia e la prole”. Subito dopo, sotto la rubrica Contro la plutocrazia: “La giustizia sociale vuole […] l’eliminazione delle eccessive concentrazioni della ricchezza, le quali costituiscono un feudalesimo finanziario, industriale e agrario” Ciò “mediante una severa politica fiscale” e “una lineare politica economica”[9]. Oltre a questi, i passaggi in cui salta all’occhio l’assonanza con le parti del Codice di cui sopra sono numerosi altri, proprio come era negli intendimenti. I camaldolesi (con Demofilo al loro fianco), pur avendo operato in modo alquanto informale, hanno avuto un’influenza maggiore di quanto si potrebbe credere.
Il primato della giustizia sociale
Viene spesso citata una frase di De Gasperi nella quale avrebbe definito la DC come un partito di centro che guardava a sinistra. Tuttavia, non è affatto sicuro che egli l’abbia veramente detta [10]. Senza alcuna pretesa di completezza, riporto di seguito alcune altre dichiarazioni del Nostro, documentate e a mio avviso attinenti al tema. Si tratta solo di pochi esempi. Se ne potrebbero trovare moltissimi altri.
Una raccolta di testi di De Gasperi, il libro La politica come servizio [11], ha in copertina la seguente citazione dello statista trentino: “Si parla molto di chi va a sinistra o a destra, ma il decisivo è andare avanti e andare avanti vuol dire che bisogna andare verso la giustizia sociale” [12]. In un discorso tenuto quando era ministro degli esteri [13] il Nostro citava Franklin Delano Roosevelt, come avrebbe fatto tante altre volte. Il presidente statunitense “in un momento critico […] lesse per intero il discorso pronunciato da Gesù sulla montagna”. E De Gasperi aggiunge: “Noi accettiamo e proclamiamo le quattro libertà” [14]. Nel 1946, a Napoli [15]: “non vi è grandezza di popolo che possa sopperire agli immensi bisogni di una ricostruzione, se non si vedono chiaramente le linee generali a cui essa deve essere informata. Queste linee sono date dal lavoro, il lavoro che deve avere una preminenza sul capitale. Ed è infine giusto raggiungere una più equa redistribuzione della ricchezza”. Ancora [16]: “noi non vogliamo in nessuna maniera ripristinare l’antica costellazione plutocratica e impediremo che questo avvenga, non col negare la intraprendenza, ma chiamando al controllo soprattutto i rappresentanti del lavoro – non solo materiale, ma anche intellettuale” [17].
Nello stesso anno [18], riferendosi al premier britannico di allora, il laburista Clement Attlee, osservava che, pur essendo i comunisti e i laburisti entrambi di sinistra, “se dobbiamo dire fra questi due movimenti quello al quale siamo più vicini dobbiamo dire che questo è il laburista; dobbiamo dire che noi apparteniamo a questa corrente riformatrice” [19] (corsivo mio). Sempre nel 1946, al primo congresso nazionale DC [20]: “Noi non siamo né socialisti né comunisti, ma siamo solidaristi: solidarietà di gruppi e di interessi, contributo di tutte le forze produttive in un sistema in cui il lavoro abbia la preminenza su tutti […] Bisogna che si arrivi a un’altra perequazione, ad un altro sistema della proprietà fondiaria, che si basi sulla giustizia sociale” [21]. In un discorso a Sorrento [22] parlava di “una soluzione di giustizia sociale tra tutti i popoli del mondo”, di “solidarismo cristiano”, del “trasferimento di una parte della proprietà e del reddito alle classi non abbienti e lavoratrici”, della accettabilità di un “dirigismo moderato” [23]. Ancora, rivolgendosi ai dirigenti DC [24]: “vogliamo soprattutto la giustizia sociale, cioè una migliore distribuzione della ricchezza tra i lavoratori e tra le differenti classi” [25]. Nello stesso anno parlando al Senato [26] rilevava come, diversamente dal passato, i cattolici avevano cominciato a operare “accanto alla corrente socialista e umanitaria, per avere fede in una nuova fratellanza, in una nuova ricostruzione del mondo”, e più oltre che occorreva “il massimo sforzo per la perequazione sociale […] in modo che si sviluppi tutto quello che c’è di utile del programma attivo della cristianità, del socialismo, del liberalismo, del repubblicanesimo” [27].
Nel 1953 [28] riferendosi all’Europa diceva “non è possibile attuare la cosiddetta giustizia sociale, cioè una più equa distribuzione dei beni, in ciascuno degli spazi vitali, segnati delle presenti frontiere” e suggeriva la possibilità di “reclamare il pieno concorso delle forze operaie alla costruzione europea” [29]. Nello stesso anno, in un comizio a Roma [30], evocava “lo spettacolo della solidarietà consapevole, il respiro della libertà morale e soprattutto il senso della fraternità sociale” [31]. Nel 1954 al consiglio nazionale DC [32], parlando di un incarico a Fanfani per formare un governo, poi non andato a buon fine, affermava che quel tentativo “nei rapporti coi partiti democratici fece toccare con mano l’identità programmatica con la socialdemocrazia” [33] (corsivo mio). Qui il Nostro si riferisce specificamente al distacco dai socialisti (che in quella fase erano collegati al PCI) dei socialdemocratici italiani. Sullo sfondo vi è la piena adesione ai valori democratici da parte di questi ultimi [34], allo stesso modo dei laburisti, delle cui sostanziali affinità con la visione di De Gasperi si è detto.
Occorre tenere presente che a quei tempi nel mondo i comunisti ufficialmente invocavano l’abolizione della proprietà privata e la dittatura del proletariato. In certi Paesi e in certi momenti qualche partito socialista fu accanto a loro. Laburisti e socialdemocratici, invece, venivano non di rado bollati non solo come revisionisti, ma anche come social-traditori e servi dei padroni. La stessa sorte toccò, a seconda dei momenti, a molti socialisti. Con le categorie mentali e ideologiche di allora, poteva dunque avvenire che chi si impegnava per i lavoratori e la giustizia sociale attraverso un riformismo graduale entro i vincoli della democrazia venisse osteggiato, respinto e collocato verso il centro da coloro che aderivano al comunismo sovietico o lo fiancheggiavano. O che fossero bollate come ingannevoli e di fatto acquiescenti verso lo status quo riforme che in effetti potevano migliorarlo in profondità. Certe aggregazioni partitiche, che non si definivano socialiste (né laburiste, né socialdemocratiche) tendevano a non autocollocarsi entro la sinistra, per non destare allarme. Ma se ci si muove veramente verso la giustizia sociale, come richiedeva lo stesso De Gasperi, ecco che, pur distinguendosi dal comunismo, alcune affinità di sostanza con chi percorre la stessa strada e combatte la stessa battaglia prima o poi si vedono. Infatti il Nostro le ha viste e le ha dette chiaramente.
In Italia, in particolare, era in atto un grande gioco delle parti. Il PCI aveva in effetti imboccato la via della parlamentarizzazione, e ne darà dimostrazioni inequivocabili (ad esempio con gli atteggiamenti altamente responsabili tenuti durante l’Assemblea Costituente, o dopo l’attentato a Togliatti). D’altro canto, permaneva certamente il suo legame con l’URSS, peraltro allora guidato da Stalin, e veniva mantenuto come tratto identitario quel nome, con le note conseguenze che ciò produrrà in termini di blocco dell’alternanza. A propria volta la DC degasperiana, pur sentendosi in dovere di caratterizzarsi come di centro, come dirò meglio più avanti, mise in cantiere alcune rilevanti politiche sostanzialmente progressiste e solidariste, ma si sentiva il dovere di caratterizzarsi come di centro. E De Gasperi stesso, oltre a fare continuamente appello alla giustizia sociale (le sue dichiarazioni al riguardo sono assai più numerose rispetto alle poche qui riportare a fini esemplificativi), come si è visto manifestava apertamente la sua vicinanza a icone del progressismo del mondo anglofono.
La giustizia sociale nella Costituzione
La Costituzione italiana notoriamente ha nella giustizia sociale una delle sue ispirazioni centrali. Si potrebbe dire che ne è permeata, sicché tutte le sue disposizioni, direttamente o indirettamente, la riguardano. Questo vale per il Titolo I della Parte I sui Rapporti civili (come accade anche per moltissime altre costituzioni, che in genere contengono un bill of rights insieme a previsioni sull’architettura dello Stato e i rapporti tra i poteri, ma quando sono “corte” non vanno molto oltre). Pure gli articoli in tema di diritti politici o di ordinamento della Repubblica ha ricadute almeno indirette sulla definizione, l’estensione, gli ambiti di applicazione e l’effettivo ottenimento della giustizia sociale. All’interno della Parte II, un’incidenza diretta sulla vita dei cittadini ha il Titolo V, dal momento che una serie di competenze normative o amministrative sono esercitate anche dai livelli di governo subnazionali. Ai fini delle presenti note, tuttavia, tralascio di soffermarmi sulle materie appena menzionate. Ciò che interessa evidenziare è se le indicazioni provenienti dai documenti programmatici DC e dal Codice di Camaldoli, anch’esso ricollegabile a De Gasperi, abbiano influito sugli articoli pertinenti della Carta costituzionale, che poi sono quelli più direttamente connessi alla giustizia sociale.
De Gasperi era uno dei componenti dell’Assemblea Costituente. Questa esplicava anche alcune funzioni del Parlamento, sicché sotto questo secondo profilo egli si rapportava ad essa nella qualità di presidente del consiglio. Con la correttezza e la dirittura morale che lo contraddistinguevano, faceva molta attenzione a stare vari passi indietro rispetto ai lavori di formulazione, discussione e approvazione del testo costituzionale.
Si potrebbe sostenere che la Costituzione fu l’esito di un compromesso tra diverse componenti rappresentate nell’Assemblea (tra cui quelle democristiana, comunista, socialista, azionista, liberale), frutto di faticose concessioni reciproche per trovare punti d’incontro. Inoltre, tra i costituenti democristiani più attivi ci furono Dossetti e altri a lui vicini, come Fanfani e La Pira, i quali furono protagonisti di importanti dibattiti cui parteciparono, anche perché possedevano, per di più, competenze specialistiche da spendere in ambiti quali ad esempio i rapporti Stato-Chiesa o l’economia. Per raggiungere il risultato finale, pertanto, secondo quest’altra vulgata vi sarebbero stati in particolare alcuni cedimenti della DC nei confronti delle richieste dei partiti di sinistra, facilitate dal fatto che a discuterle erano appunto i dossettiani. Occorre tuttavia contro-osservare che, per quanto De Gasperi si mantenesse a debita distanza dai lavori dei costituenti, in momenti in cui peraltro si cercavano doverosamente le convergenze più larghe sarebbe stato assai difficile o impossibile che andassero avanti bozze di articoli sgraditi a lui e ai costituenti che gli erano vicini.
Ma vi è di più. Un raffronto pur veloce tra alcuni articoli della Carta direttamente attinenti alla giustizia sociale e a quanto qui esposto sub § 2 rivela al lettore che molte delle indicazioni riconducibili a De Gasperi-Demofilo (o comunque da lui fatte proprie) furono accolte, anche se egli non partecipò quasi mai ai relativi lavori. Pertanto, la Costituzione e le sue scelte in nome della giustizia sociale hanno anche una forte impronta degasperiana, molto più di quanto si potrebbe ritenere se si seguisse acriticamente l’idea delle massicce concessioni alle sinistre, o quella di un ruolo di traino preponderante dei dossettiani, i quali in effetti si muovevano, nel rappresentare la DC, su terreni già arati in precedenza sia dal Codice che dai documenti programmatici. Si sono avute, dunque, soluzioni normative di taglio certamente progressista e solidarista, le cui ascendenze vanno però attentamente soppesate e attribuite [35]. Inoltre, si può pensare che, prima ancora che si avviassero i lavori della Costituente, circa le materie qui in discussione tra gli esponenti di più partiti vi fossero già molte posizioni condivise, o sulle quali non sarebbe stato difficile trovare una condivisione.
Le sintonie tra la Costituzione e il Codice sono a mio avviso forti o fortissime con riguardo, esemplificativamente, ai seguenti articoli: 1 (Repubblica che si fonda sul lavoro, sovranità che appartiene al popolo); 2 (diritti inviolabili, formazioni sociali); 3 (eguaglianza, primo e secondo comma); 4 (diritto/dovere al lavoro, entrambi i commi); 6 (minoranze linguistiche/etniche); 10 (tutela degli stranieri e dell’emigrazione in genere, nel Codice in un sub-paragrafo della sezione sulla Vita economica della sua prima parte, denominata “La dottrina sociale cattolica”; cap. V, 84); 31 (agevolazioni per le famiglie, su cui Codice cap. II, 27, e vari punti in “La dottrina sociale cattolica”); 32 (diritto alla salute); 33, 34 (istruzione, scuola, cap. III, in particolare 40, 41, 43).
In materia di lavoro per gli artt. 35, 36 e 38, come già per l’art. 4, si trovano molteplici e puntuali corrispondenze nel più volte citato cap. IV del Codice [36]. L’art. 41 sull’iniziativa economica si presenta abbastanza in linea con il cap. VI (punti da 85 a 88). L’art. 42 sulla proprietà (e al suo interno il comma 2 che parla della sua funzione sociale), nonché l’art. 43 sull’assunzione in mano pubblica di certe imprese o categorie di imprese, si rispecchiano nella diversificata trattazione dei capp. V e VI. L’art. 44 sulla proprietà terriera privata è prodromico alla riforma agraria. Anche gli artt. 45 (cooperazione), 46 (collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende), 47 (risparmio), 53 (tributi e criterio di progressività) trovano riscontro nel testo camaldolese, ove tra l’altro si legge, al punto 93, che i tributi realizzano una “redistribuzione” e concorrono “a modificare secondo i principi della giustizia sociale la distribuzione della ricchezza e l’organizzazione della vita economica e sociale”.
Più specificamente, all’art. 46 Cost. contribuì anche una più ampia proposta di Fanfani, il quale si rifaceva alla Mitbestimmung tedesca di derivazione socialdemocratica (che, in quanto tale, non entusiasmava il PCI) [37]. Come già ricordato, egli era vicino a Dossetti ma sarà un componente di punta delle compagini governative guidate da De Gasperi e via via uno dei più efficaci propugnatori e realizzatori delle politiche messe in programma da quest’ultimo.
Non è affatto un caso che Hayek (uno dei numi tutelari del neoconservatorismo che cominciò a prendere piede alla fine degli anni ’70 dello scorso secolo) abbia attaccato frontalmente l’idea di giustizia sociale [38]. Secondo lui questa era non solo vacua, superstiziosa e meritevole di svariati altri epiteti sprezzanti, ma addirittura tale da spianare la strada al totalitarismo, se fossero state portate avanti linee d’intervento analoghe a quelle ascrivibili proprio a figure quali F. D. Roosevelt e Attlee (leader di due nazioni che il totalitarismo nazista in precedenza lo avevano abbattuto), dai quali, come si è visto, De Gasperi – leader di un Paese in via di ricostruzione sulle macerie non solo fisiche lasciate dal fascismo – traeva una forte ispirazione. Peraltro, pur non trattando specificamente la situazione italiana, Hayek per un verso affermava, correttamente, che le radici della giustizia sociale da lui avversata stavano appunto nel socialismo e nelle encicliche sociali della Chiesa cattolica [39], e per altro verso dava addosso alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 [40], condannandola senza appello proprio perché incentrata sulla giustizia sociale e proprio con riguardo ai suoi articoli accostabili ai Titoli sui rapporti etico-sociali ed economici della Costituzione italiana, sui quali come si è mostrato si esplicò appieno l’influsso della dottrina sociale cristiana insieme a quello dei partiti di sinistra di allora. Si può essere d’accordo con Hayek oppure no. Certamente i convincimenti ideali e la conseguente azione politica di De Gasperi, essendone agli antipodi, sono radicalmente incompatibili con l’esaltazione neoliberista della logica di mercato di marca hayekiana, che tanto seguito ha riscosso in tante parti del mondo durante una certa fase storica, trovando udienza sia com’è naturale presso i conservatori e altre formazioni di destra, sia anche, in qualche misura, presso qualche partito che nasceva come di sinistra, o di centro-sinistra.
L’azione di governo
Mentre alcune norme costituzionali possono essere formulate in modo tale da produrre già di per sé effetti giuridici in termini di diritti e obblighi azionabili, proprio quelle finalizzate alla giustizia sociale il più delle volte da sole non bastano, perché richiedono passaggi ulteriori (come leggi ordinarie, stanziamenti di bilancio, decisioni organizzative, aggiustamenti di tiro, messe a punto in corso d’opera, e così via [41]). L’approvazione di una Costituzione particolarmente ricca di previsioni miranti alla giustizia sociale fu di per sé un risultato epocale. In effetti, però, com’è noto diverse sue disposizioni furono attuate con grande ritardo, o in modo insufficiente, e alcune altre a tutt’oggi non sono state attuate per nulla. L’aver condotto in porto quel testo costituzionale con quei contenuti conta molto. Conta ancor di più, tuttavia, ciò che De Gasperi riuscì a ottenere fino al 1953, vale a dire durante gli anni in cui continuò a essere presidente del consiglio.
Dopo l’esito referendario a favore della Repubblica del 2 giugno 1946, il Nostro, rivolgendosi all’Assemblea Costituente per ottenere la fiducia, illustrò il programma di una compagine governativa che includeva le sinistre [42]. “Una riforma fondiaria, che porti ad una più equa redistribuzione delle proprietà, è uno dei principali obiettivi del Governo” [43]. Ed esponeva a seguire i punti caratterizzanti di tale provvedimento. Inoltre: “il Governo è deciso ad affrontare nel suo complesso il problema del Mezzogiorno e delle isole e a compiere ogni sforzo perché nell’opera di ricostruzione economica del Paese i problemi dell’economia meridionale abbiano la giusta ed equa soluzione, sicché le condizioni sociali di queste regioni possano essere portate al livello delle regioni più progredite d’Italia” [44].
Qui non mi è possibile dar conto in modo esteso delle principali politiche avviate su impulso di De Gasperi. Mi limito a menzionarne alcune, universalmente note, soffermandomi un po’ più a lungo su una in particolare (perché la conosco meglio, ma soprattutto perché si presta anche a qualche considerazione su una svolta politica che segnò la storia del Paese).
La riforma agraria era stata oggetto di un impegno preso da Garibaldi durante l’impresa dei Mille, che senza l’appoggio dei meridionali, a partire dai siciliani, si sarebbe spenta sul nascere. Con rammarico dell’eroe dei due mondi, tale impegno non fu mantenuto. Anzi per molti decenni successivi fu seppellito, in omaggio agli interessi dei grandi proprietari, della rendita parassitaria, del latifondo (con i connessi sodalizi criminali ad esso talora connessi). Pur con una soluzione non certo perfetta, questo iniquo stato di cose si sbloccò soltanto sotto De Gasperi, nel 1950. E sebbene le sinistre fossero dal 1947 all’opposizione, l’obiettivo di governo da lui annunciato nel 1946 fu comunque conservato. Fu pure avviato il Piano casa, al fine di far decollare secondo criteri non di mercato forme di edilizia (pubblica, economica, popolare) che rispondessero alle necessità dei ceti medi e di quelli meno abbienti. Anche in questo caso si incideva sugli interessi delle classi possidenti.
Per sopperire agli approvvigionamenti energetici di un Paese che oltre alla ricostruzione stava vivendo il miracolo economico fu istituito l’Eni, la cui guida fu affidata all’ex partigiano Mattei. Questi, tra le altre cose, inaugurò rapporti tendenzialmente paritari con i Paesi produttori di petrolio, riconoscendo remunerazioni ben più eque di quelle allora correnti. Ciò non era affatto in linea con la prassi delle cosiddette Sette sorelle. Inoltre, quando una fabbrica fiorentina era in procinto di chiudere, su richiesta dell’allora sindaco La Pira, Mattei interverrà per salvarne i posti di lavoro, dando vita all’esperienza di innovazione industriale nota come Nuovo Pignone. La presenza pubblica nelle attività produttive, anche attraverso il sistema delle partecipazioni statali, avrebbe conosciuto una notevole estensione, con certe ombre ma anche con alcune notevoli luci, che meriterebbero una discussione a parte.
Comunque la si valuti, era ovviamente una linea antitetica a quanto poi avrebbe preteso il neoliberismo. Nel 1954, quando De Gasperi da poco non era più presidente del consiglio, fu avviata un’esperienza riconducibile al già ricordato “dirigismo moderato”, lo Schema Vanoni (quello stesso Vanoni che era stato uno degli estensori del Codice di Camaldoli). Gli obiettivi di tale Piano muovevano da una visione organica dell’economia italiana, con particolare attenzione verso lo sviluppo del Mezzogiorno. Infine, mentre visitava i Sassi di Matera, De Gasperi notoriamente fu mosso alle lacrime dall’intollerabile disagio abitativo sopportato dai residenti, e promosse a tamburo battente una legislazione speciale al riguardo. Possiamo immaginare non dico un Trump o un Boris Johnson, ma quantomeno una Thatcher o un Reagan (entrambi estimatori di Hayek) inclini a fare cose del genere?
La legge 646 del 1950 avviò l’Intervento straordinario per il Mezzogiorno e istituì la relativa Cassa. De Gasperi si intestò personalmente questa riforma (anch’essa annunciata nel 1946). Nella sua relazione di accompagnamento al disegno di legge presentato alla Camera dei deputati il 17 marzo di quell’anno si legge che ciò “non solo corrisponde ad un principio di giustizia sociale e ad un’esigenza di migliore distribuzione della ricchezza nazionale, ma ridonda a beneficio dell’intera Nazione […] Il programma per il Mezzogiorno […] è indubbiamente il più esteso programma di opere pubbliche che sia stato ideato dalla costituzione dell’Italia ad unità”. Il supporto tecnico venne da figure quali Menichella, Giordani, Saraceno (anch’egli un camaldolese), quindi dalla Svimez [45]. La Cassa si rifaceva chiaramente (seppure non integralmente) a quella Tennessee Valley Authority (TVA) [46] che nel 1933 era stata l’innovazione forse più emblematica del New Deal rooseveltiano (una delle principali bestie nere del neoliberismo). In questo momento le competenze della Cassa riguardavano soprattutto opere come dighe, acquedotti, linee elettriche, vale a dire i presupposti dell’industrializzazione, anziché l’industrializzazione stessa del Sud, allora non voluta agli industriali del Nord, ma comunque prevista per una fase successiva da De Gasperi nella relazione al ddl. In effetti gli sviluppi dell’Intervento straordinario poi andarono proprio in questa direzione, ma egli non poté assistervi. In buona parte grazie all’estensione e alle modalità dell’azione della Cassa, il periodo tra il 1950 e la metà degli anni ’70 dello scorso secolo è ancora oggi l’unico in tutta la storia dell’Italia unita in cui si ebbe una notevole riduzione del divario tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord [47].
L’influenza statunitense non si limitò al piano delle idee. L’opportunità da cui scaturì la Cassa nacque originariamente dall’esigenza di utilizzare al meglio alcune somme connesse al piano Marshall e gestite dalla International Bank for Reconstruction and Development (IBRD, poi meglio conosciuta come Banca mondiale) [48]. Peraltro, anche nella conformazione dello stesso piano Marshall e della IRBD vi era qualche reminiscenza delle caratteristiche della TVA. Da un rapporto interno riservato della IRBD [49], reso pubblico di recente, tra le altre cose si evince subito chiaramente la volontà di evitare che nel Mezzogiorno dopo il 1946 crescessero i consensi verso il PCI [50]. Ecco dunque che gli aiuti dagli USA fin dal loro inizio si inscrivevano all’interno della Guerra fredda. Ciò aiuta a leggere gli eventi successivi al famoso viaggio di De Gasperi a Washington, dopo il quale, pur essendo ancora in corso i lavori dell’Assemblea Costituente, si arrivò a una nuova coalizione di governo, senza l’apporto delle sinistre, e più in là all’adesione italiana al Patto atlantico. È plausibile, a mio avviso, che De Gasperi volesse continuare più a lungo l’esperienza di governo con l’arco costituzionale, sia per evitare ripercussioni interne (anche dentro il suo stesso partito), sia perché i comunisti italiani avevano dimostrato di essere diversi da quelli sovietici. Vi era anche una certa sua stima personale verso Togliatti.
Demofilo si trovò di fronte a una scelta assai ardua, con il rischio di perdere aiuti economici essenziali, nonché l’allineamento con le potenze anglofone che peraltro erano state decisive nella liberazione dell’Italia dai nazifascisti [51]. Lui stesso si esprimeva così nel 1949 [52]: “Abbiamo avuto recentemente un lungo travaglio per il Patto atlantico. Era naturale che vi fossero delle titubanze, delle obiezioni […] Io vi dico che, sommate assieme tutte queste ragioni favorevoli e messe di fronte a tutte le ragioni contrarie […] non saremmo arrivati a decidere per il sì, perché ragioni di dubbio rimangono sempre nelle questioni a carattere collettivo. Ma la decisione, la parola ultima viene dalla nostra coscienza […] In un certo momento quello che dà il colpo alla bilancia è […] l’interesse del Paese, e l’interpretazione che il popola dà di questo interesse” [53].
Si possono citare tante altre riforme fatte da governi a guida DC, tra le quali la legge sulla giusta causa di licenziamento, lo Statuto dei lavoratori, il Servizio Sanitario Nazionale. Ma queste sono figlie del centro-sinistra inaugurato da Aldo Moro, oppure della stagione della solidarietà nazionale [54], anch’essa voluta da Moro. De Gasperi da tempo non c’era più. Dopo di lui il suo partito aveva assai spesso co-governato, secondo formule differenti, assieme a forze di sinistra (anche se non soltanto con esse), adottando alcune grandi riforme che riflettevano tali alleanze. Non è difficile definire certi orientamenti della DC sotto la guida di Moro come di centro-sinistra.
Per parte sua De Gasperi su materie della massima rilevanza si batté per la giustizia sociale (anche negli anni in cui non governava più assieme a socialisti e PCI), pervenendo a certe scelte accostabili a quelle rooseveltiane o del laburismo di allora. Scelte che appartenevano allo stesso filone solidarista di quelle successive di Moro, tanto le une quanto le altre in attuazione della Costituzione. Tuttavia, il fatto che talune politiche degasperiane qui citate venissero naturalmente attaccate dalle opposizioni di sinistra dei suoi tempi portava, e forse porta ancor oggi, qualcuno degli osservatori a non cogliere bene la loro intrinseca, oggettiva natura. Se nel mondo di oggi – dopo il predominio del neoliberismo, seguito dal crollo della sua credibilità, e pur tenendo conto della tanta acqua passata sotto i ponti e del mutato contesto – in un esperimento mentale immaginassimo provvedimenti somiglianti a quelli degasperiani qui richiamati, a quale segmento di quale schieramento politico-culturale sarebbe appropriato ascriverli?
Concludendo
Viste anche le dimensioni del presente scritto, non era possibile (né era nelle mie intenzioni, o tantomeno nelle mie corde) trattare a tutto tondo ogni aspetto della personalità, della biografia e delle scelte politiche di De Gasperi. Non puntando ad un’analisi completa, mi sono concentrato su alcuni momenti particolari, così come su alcuni ambiti di policy, e non altri, perché ritengo ciascuno di essi già di per sé significativo, oltre che collegato agli altri da me prescelti per una certa loro reciproca assonanza, dovuta alla costante volontà del Nostro di dar corpo – nei modi imperfetti, limitati, controversi, rivedibili che caratterizzano l’attività politica nel mondo reale – al suo ideale di giustizia sociale. D’altro canto, non si può escludere che una ricognizione a tappeto porti a un ridimensionamento della importanza relativa degli elementi che qui ho messo sotto i riflettori. Anche se così fosse, detti elementi un qualche peso lo manterrebbero comunque. Il quadro che ho provato ad abbozzare è anche una pista di ricerca, da mettere alla prova e caso mai riconsiderare. Al contempo, quanto per ora è emerso mi sembra già di qualche interesse.
Come traspare dalle frasi riportate prima, De Gasperi, essendo mosso da forti convinzioni. Quando credeva che queste non dovessero sottomettersi alle contingenze del momento era capace, per tener loro fede, di resistere finanche al Papa. Peraltro egli apparteneva a un gruppo ristretto di persone dotate di una tempra speciale, perché avevano a seconda dei casi rischiato la vita, patito restrizioni della libertà, sopportato l’esilio proprio in nome di ciò in cui credevano.
Il dissenso con Pio XII appena evocato è notissimo e viene citato spesso. Però anche le parole, le scelte di campo, le politiche portate avanti da De Gasperi che ho selezionato e commentato sono tutte in evidenza, perché sono pubbliche, sia nel senso di pronunciate in pubblico, o pubblicate in varie sedi, sia anche nel senso che si sono tradotte in leggi, in adesioni a trattati internazionali, più in generale in decisioni appunto pubbliche, collettivamente vincolanti. Evidentia loquitur! Eppure, ho la sensazione che talora certe evidenze, che parlano da sé, siano state notate e ascoltate come avrebbero meritato.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Al riguardo, tra i tanti, P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), Bologna, il Mulino, 1979.
[2] Ad esempio, è stato affermato che De Gasperi, “come tutti i profeti, non era un moderato” (così I. Maffeis, “Profezia degasperiana”, intervento alla Lectio Degasperiana, Pieve Tesino, Fondazione Trentina Alcide De Gasperi, https://www.degasperitn.it/162817/Lectio-degasperiana-2024-Ivan-Maffeis.pdf, 18/8/2024, sito visitato il 30/9/2024: 3). Di recente anche P. Hamel, “Con De Gasperi l’Italia tornò protagonista”, Giornale di Sicilia, 18/8/2024; A. Alfano, “Più cattolico che politico. La lunga missione di De Gasperi”, Corriere della sera, 19/8/2024.
[3] “De Gasperi non ha mai usato invano il nome di Dio, ma ha accettato e assunto la propria condizione di politico cattolico come una vocazione” (Maffeis, op. cit.: 2).
[4] Cap. IV, redattori Ezio Vanoni, Pasquale Saraceno, Sergio Paronetto.
[5] Secondo quanto riporta Pombeni, op. cit.: 130, 133.
[6] In Id., Scritti e discorsi politici (coord. scientifico P. Pombeni, vol. III, tomo I, a cura di V. Capperucci e S. Lorenzini, Bologna, il Mulino, 2008, che include anche “Alcide De Gasperi 1943-1948. Il politico vincente alla guida della transizione”, di G. Formigoni, e l’Introduzione alla Parte prima, di V. Capperucci), ivi: 640, nota 1, ove si accenna anche a un “testamento politico” di De Gasperi del 1942.
[7] Ivi: 643.
[8] “La parola ai democratici cristiani”, in Il Popolo, giornale clandestino, I, 4, Roma, 12/12/1943. Il contributo di Demofilo verrà poi riedito con qualche modifica nel gennaio 1944. Anch’esso ivi, pp. 662 ss. Al riguardo la nota 63 in R. Cifarelli, “Il codice di Camaldoli e il formarsi della ‘costituzione economica’: prime riflessioni”, Amministrazione in cammino, 5/5/2014.
[9] Scritti e discorsi …, cit., p. 656-657. Corsivi nel testo. Il contributo di Demofilo verrà poi riedito con qualche modifica nel gennaio 1944. Anch’esso ivi: 662 ss. Al riguardo la nota 63 in R. Cifarelli, “Il codice di Camaldoli e il formarsi della ‘costituzione economica’: prime riflessioni”, Amministrazione in cammino, 5/5/2014.
[10] Come si evince dalla rubrica di risposte ai lettori di A. Cazzullo, Corriere della sera, 31/7/2024.
[11] Edito dal Corriere della sera, novembre 2011. Si tratta di una selezione di interventi contenuti nella già citata opera in quattro volumi Scritti e discorsi politici.
[12] Anche in La politica come servizio, cit.: 103.
[13] Roma, 1/11/1945, Scritti e discorsi …, cit.
[14] Ivi: 807-808.
[15] 28/1/1946, resoconto fornito in Il Popolo, ivi.
[16] Teatro Carignano, Torino, 24/3/1946, ivi.
[17] Ivi: 844.
[18] Viterbo, 6/4/1946, ivi.
[19] Ivi: 855. Riportava (ibidem) anche una frase dettatagli da Attlee: “Voi vi chiamate cristiani, noi non ci chiamiamo cristiani, però supponiamo che il Cristianesimo esista e inspiri tutta la Nazione”. Anche nella sua relazione al congresso nazionale DC di Napoli del 17/11/1947 (in La politica come servizio, cit.) De Gasperi si rifaceva pure ad Attlee, secondo il quale “il socialismo, nella sua accezione laburista, suppone il cristianesimo” (ivi: 83).
[20] In Scritti …, Vol. III, Tomo I, cit.
[21] Ivi: 879-880.
[22] 15 aprile 1950, in A. De Gasperi, L’Europa. Scritti e discorsi, Brescia, Morcelliana, 1979-2019.
[23] Ivi: 86-87.
[24] Taranto, 20/4/1950, in La politica come servizio, cit.
[25] Ivi: 121.
[26] 15/11/1950, anche in L’Europa, cit.
[27] Ivi: 102, 107.
[28] “Il movimento operaio e l’Europa”, 29/11/1953, ivi.
[29] Ivi: 197
[30] 5/6/1953, in La politica …, cit.
[31] Ivi: 171.
[32] Roma, 20/3/1954, ivi.
[33] Ivi: 182-3.
[34] Ivi: 178.
[35] A questo tema, così come ad altri qui da me toccati nel presente contributo, anziché singoli paragrafi si potrebbero dedicare appositi articoli o capitoli di libri, quando non volumi interi, il che ovviamente al momento esula dai miei intenti. Al riguardo, tra gli altri, Cifarelli, op. cit. e M. Cartabia, “L’influenza del Codice di Camaldoli sulla Costituzione italiana”, Quaderni costituzionali, 4, 2003. Pur senza soffermarsi sulle corrispondenze tra Codice e articoli della Costituzione si sono espressi sul tema, tra gli altri, anche G. Campanini, “Dal Codice di Camaldoli alla Costituzione”, Aggiornamenti sociali, 5, 2006, nonché P. Pombeni, “Quanto è diverso il contesto di oggi per una Camaldoli?uanto Q”, Reset, 13 settembre 2023. La presenza dell’idea cattolica di giustizia sociale nella Costituzione è toccata anche in G. Savagnone, “Il ministro Giorgetti ci ha solo ricordato che nessun uomo è un’isola”, www.tuttavia.ue, 4 ottobre 2024.
[36] Un commento a parte meriterebbero la non piena congruenza tra l’art. 37 Cost. e il punto 60 del Codice, nonché l’incongruenza tra l’art. 40 e il punto 70. L’art. 39 sull’organizzazione sindacale appare congruente con il punto 67, meno con il 69.
[37] Pombeni, Il gruppo dossettiano …, cit.: 274-277.
[38] F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà (Milano, Saggiatore, 1986). È la trad. it. di Law, Legislation and Liberty, un suo volume del 1982 che a sua volta conteneva la ripubblicazione di tre suoi libri precedenti, tra i quali appunto The Mirage of Social Justice, del 1976: Il miraggio della giustizia sociale in tale traduzione italiana. Non vi è lo spazio in questa sede per svolgere una confutazione estesa e puntuale di tale scritto, ricco di affermazioni ideologiche e/o apodittiche. Tra le tante tesi controvertibili, ad esempio, quelle basate sul concetto generalissimo di “ordine spontaneo” (ivi, cap. 2: 48 ss.), il quale può essere usato in modi che trascurano o misconoscono il funzionamento empiricamente osservabile delle istituzioni pubbliche, delle strutture sociali e finanche delle attività economiche di produzione e scambio sui mercati. Oppure quella che rivela una confusione tra l’ovvia impossibilità di conoscere tutte le conseguenze ritenute essenziali, così da decidere di conseguenza in modo per quanto possibile ragionevole e difendibile. In realtà stime del genere vengono effettuate in continuazione e si dovrebbe caso mai cercare di formularle sempre meglio.
[39] Hayek, Legge …, cit.: 266-267.
[40] Ivi: 308-313.
[41] Al riguardo La Spina et al., Politiche pubbliche: analisi e valutazione, Bologna, il Mulino, 2020, 2a.
[42] 15 luglio 1946, in Scritti …, Vol. III, Tomo I, cit.: 221-235.
[43] Ivi: 232.
[44] Ivi: 233.
[45] Il parlamentare del PCI Giorgio Amendola attaccò in modo veemente la proposta, anche perché a suo avviso keynesiana (20 giugno 1950, Camera dei deputati).
[46] La Spina, “La basi teoriche dell’intervento straordinario: Tennessee Valley Authority e Cassa per il Mezzogiorno”, in M. Marini (a cura di), Le politiche di coesione territoriale: Un confronto tra Italia e Stati Uniti d’America, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017.
[47] La Spina, La politica per il Mezzogiorno, Bologna, Mulino, 2003, cap. III, §§ 1 e 2: 195 ss.; § 6: 233 ss. Un punto di vista interno è in G. Pescatore, La “Cassa per il Mezzogiorno”, Bologna, Mulino/Svimez, 2008.
[48] La Spina, op. ult. cit.: 200-202. Assai più ampia la trattazione in A. Lepore, La Cassa per il Mezzogiorno e la Banca mondiale, Quaderni Svimez, 34, 2012 (poi ripubblicato con Rubbettino, 2013).
[49] Del 31 luglio 1951, reso disponibile online anche dalla Svimez in quanto documentazione utilizzata da Amedeo Lepore per il suo volume La Cassa …, cit., (http://win.svimez.info/cassa/materiali/1.%20Rapporti%20interni%20IBRD/1951%20-%20South%20Italy%20Appraisal.pdf).
[50] Il primo maggio del 1947 avvenne la strage di Portella della Ginestra.
[51] Alcuni anni dopo però la logica dei blocchi contrapposti arriverà a produrre la sostituzione violenta di governanti legittimamente eletti con autocrati sanguinari, come nell’ex Congo belga, in Cile e in vari altri casi.
[52] 23 aprile, in La politica …, cit.
[53] Ivi: 102.
[54] Su cui La Spina, “Le politiche della sinistra e il diritto”, in L. Nivarra (a cura di), Gli anni Settanta del diritto privato, Milano, Giuffrè, 2008.
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Antonio La Spina, attualmente pensionato, è stato professore ordinario alla Luiss “Guido Carli”, Roma (in precedenza nelle università di Palermo e Messina). Alla Luiss ha insegnato, tra l’altro: Sociology, Analisi e valutazione delle politiche pubbliche, Sociologia del diritto, della devianza e del crimine organizzato, Politiche sociali e del lavoro, Politiche della sanità. Tra i suoi libri più recenti: Il contrasto alla miseria globale, Armando; The Politics of Public Administration Reform in Italy (con S. Cavatorto), Palgrave Macmillan; Cultura civica e insegnamento religioso (con G. Frazzica e A. Scaglione), Rubbettino. Ha partecipato con diversi ruoli e responsabilità a esperienze di studio applicato e attuazione concreta della valutazione delle politiche pubbliche in sede nazionale, subnazionale, di Unione Europea.
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