di Giovanni Gugg
Durante l’ultimo anno, il termine “genocidio” è stato utilizzato in modo crescente per descrivere vari eventi di violenza su larga scala, dall’escalation del conflitto tra Israele e Hamas a Gaza alle accuse contro la Cina per il trattamento degli Uiguri nello Xinjiang [1]. Tuttavia, è fondamentale usare questa parola con grande cautela, per evitare che il suo significato venga sminuito. Il genocidio è una delle più terribili manifestazioni della violenza umana, e le sue radici affondano in processi lenti e complessi che spesso cominciano con atti di disumanizzazione e segregazione sociale.
Il termine stesso, “genocidio”, fu coniato nel 1944 dal giurista polacco Raphael Lemkin. Lemkin cercava un modo per descrivere la distruzione sistematica di gruppi nazionali, etnici o religiosi, avendo osservato la brutalità del regime nazista e lo sterminio degli ebrei, ma anche altri precedenti storici, come il massacro degli Armeni da parte dell’Impero Ottomano durante la Prima guerra mondiale, dove si stima che circa un milione e mezzo di persone siano state uccise [2]. La sua definizione abbracciava non solo l’eliminazione fisica di un popolo, ma anche la distruzione della sua identità culturale, politica e sociale. Nel 1948, questo concetto fu formalizzato nella “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” delle Nazioni Unite, che sancì il genocidio come «atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Non si trattava solo di uccisioni di massa: anche l’impedimento delle nascite, il trasferimento forzato di bambini e la creazione di condizioni di vita insostenibili rientravano nella definizione.
Oltre ai genocidi storicamente riconosciuti, come la Shoah, il massacro sistematico di sei milioni di ebrei da parte del regime nazista, e il genocidio degli Armeni nel 1915-1916, esistono molte altre tragedie che hanno segnato il ventesimo secolo. Tra queste, il genocidio dei Tutsi in Rwanda del 1994, dove circa 800 mila persone furono massacrate in meno di cento giorni, è un esempio drammatico della velocità con cui la violenza genocida può manifestarsi.
Ma il genocidio non riguarda solo la violenza fisica. Un concetto parallelo emerso nella riflessione antropologica è quello di “etnocidio”, che si riferisce alla distruzione di una cultura attraverso l’imposizione forzata di pratiche e modelli estranei. Per Pierre Clastres, si tratta della «distruzione sistematica dei modi di vita e di pensiero differenti», una forma di annientamento culturale che non richiede necessariamente la soppressione fisica delle persone. Come già accennato, un caso contemporaneo è quello degli Uiguri nello Xinjiang, dove molti parlano di etnocidio per descrivere la repressione delle tradizioni religiose e culturali, oltre che le politiche di detenzione di massa.
L’antropologia culturale, sebbene oggi profondamente coinvolta in questi studi, ha tardato a riconoscere la centralità della violenza di massa. Come sottolinea Fabio Dei, per molti anni la disciplina si è concentrata su popolazioni lontane e ha trascurato eventi cruciali come la Shoah o i conflitti etnici. Tuttavia, negli ultimi decenni, un crescente interesse per il fenomeno della violenza collettiva ha portato gli antropologi a investigare i genocidi e le guerre civili, contribuendo a un dibattito più ampio che coinvolge la storia e altre scienze sociali.
La definizione ufficiale delle Nazioni Unite fornisce un quadro legale e concettuale per affrontare i genocidi, ma, nel corso del tempo, diversi studiosi hanno ampliato la riflessione su cosa significhi davvero questo termine. Tra costoro, Nancy Scheper-Hughes ha offerto una visione innovativa, introducendo la nozione di “Continuum genocida”, che esplora il legame tra genocidi su larga scala e le forme di violenza più sottili e quotidiane.
Nancy Scheper-Hughes ha spostato l’attenzione dal genocidio come evento isolato e straordinario, verso una lettura che ne svela le radici profonde nelle piccole violenze quotidiane e nelle disuguaglianze strutturali. Secondo la studiosa, esiste un continuum che collega gli atti di violenza sistematica alle azioni ordinarie che riducono certe persone o gruppi a esseri subumani. Queste “micro-violenze” possono verificarsi negli ospedali, nelle scuole, nelle carceri e nelle istituzioni sociali, alimentando lentamente un clima di disumanizzazione che, se non contrastato, può culminare in genocidi come l’Olocausto.
La sua analisi ci costringe a riconoscere che le violenze su piccola scala non sono meno rilevanti: sebbene non comportino immediatamente massacri di massa, esse costituiscono il terreno fertile per la giustificazione della brutalità e dello sterminio di interi gruppi. Questo concetto amplia la nostra comprensione del genocidio, inserendo anche le dinamiche invisibili che possono condurre a forme di violenza più estreme.
Nelle sue opere, Primo Levi – sopravvissuto ad Auschwitz – descrive come la disumanizzazione fosse un elemento fondamentale per il genocidio perpetrato dai nazisti. In Se questo è un uomo, Levi spiega come la riduzione degli esseri umani a “non-persone” permettesse ai carnefici di infliggere sofferenze atroci senza provare rimorso. Questo processo di spersonalizzazione è alla base della brutalità che caratterizza i genocidi.
Analogamente, lo storico Ian Hancock ha esplorato il genocidio dei Rom e dei Sinti, conosciuto come Porrajmos, un termine che lui stesso ha contribuito a diffondere. Tuttavia, negli ultimi anni, molti membri delle comunità romanì hanno preferito il termine Samudaripen, che significa “uccisione di tutti”. Tale dibattito sulla terminologia riflette il desiderio di dare maggiore dignità e precisione storica al genocidio subìto da queste popolazioni durante la Seconda guerra mondiale.
Il genocidio degli Armeni, spesso considerato il primo genocidio del XX secolo, fu caratterizzato da una violenza sistematica che mirava all’eliminazione di un’intera popolazione. Nonostante gli sforzi per negare o minimizzare questi eventi, la comunità internazionale ha riconosciuto il genocidio armeno come un crimine contro l’umanità, rendendo evidente come la disumanizzazione abbia permesso la sua perpetrazione. Antonia Arslan (2019) ricorda l’uccisione del poeta armeno Daniel Varujan con queste parole: «Fu sequestrato, imprigionato, torturato e poi ucciso nell’agosto del 1915. Le milizie turche lo legarono a un albero e lo scuoiarono. Nella tasca della giacca gli fu trovato il libro delle sue poesie: “Il canto del pane”. Un’ode alla terra e al cielo, alla natura e a coloro che l’amano e la rispettano. Traducendole pensai al sacrificio di quell’uomo, all’oltraggio che lui e migliaia come lui avevano subito».
Nel panorama contemporaneo, ci sono altre atrocità che hanno suscitato dibattito sull’uso del termine genocidio. Uno degli esempi più controversi è la questione degli Uyguri in Cina, una minoranza musulmana sottoposta a repressioni, detenzioni arbitrarie e sterilizzazioni forzate. Alcuni analisti e organizzazioni per i diritti umani hanno definito queste politiche come un genocidio culturale.
Un altro caso che ha suscitato controversie è la guerra di Israele a Gaza nel 2024, con alcuni che hanno definito le azioni israeliane come un tentativo di genocidio contro i palestinesi. Tuttavia, è essenziale trattare con estrema cautela, rispetto e precisione l’uso di questo termine, per non banalizzarlo o svilirne il significato. Il ricorso a questa parola senza una rigorosa analisi rischia di svuotare di senso un crimine che ha segnato tragicamente la storia dell’umanità. Per evitare la banalizzazione, è importante mantenere una chiara distinzione tra genocidio e altre forme di violenza o conflitti. La gravità del genocidio sta nell’intenzione deliberata di eliminare un intero gruppo, una caratteristica che non tutte le situazioni di violenza presentano. Questo non significa sminuire altri crimini, ma garantire che il termine “genocidio” mantenga il suo peso specifico.
Gaël Faye: una voce letteraria tra esilio e radici
Nel passaggio dal concetto teorico di genocidio all’esperienza personale e narrativa di chi ha vissuto le conseguenze di un genocidio, il nome di Gaël Faye emerge con forza. Faye non è solo uno scrittore o un musicista: è un testimone di una tragedia, quella del Rwanda nel 1994, che ha segnato la storia recente dell’Africa e dell’umanità, portando al centro del dibattito letterario e culturale temi come la violenza, l’esilio e la memoria. La sua opera mette in luce come il genocidio non sia solo un evento storico, ma un trauma vivo, una ferita aperta che continua a influenzare intere generazioni, sia dentro che fuori dal Rwanda.
Faye ha cominciato a “cantare” pubblicamente del genocidio dei Tutsi in Rwanda già nel 2013, con la canzone “Petit pays” (tratta dal suo album “Pili-Pili sur un croissant au beurre”), un’opera che, attraverso la musica, introduceva il pubblico a un tema difficile, intrecciando la nostalgia per il paese natale con la violenza che lo ha lacerato:
«Petit pays, pendant trois mois, tout le monde t’a laissé seul […] Il fallait reconstruire mon petit pays sur des ossements / Des fosses communes et puis nos cauchemars incessants / Petit pays: te faire sourire sera ma rédemption […] Seulement laisse-moi pleurer quand arrivera ce maudit mois d’avril / Tu m’as appris le pardon pour que je fasse peau neuve / Petit pays dans l’ombre le diable continue ses manœuvres / Tu veux vivre malgré les cauchemars qui te hantent» [3].
Da questa canzone, Faye ha poi tratto ispirazione per il suo primo romanzo, Petit pays (2016; pubblicato in Italia da Bompiani nel 2017), che lo ha reso noto a livello internazionale. Il romanzo non solo ha offerto uno spaccato della sua infanzia in Burundi e dell’orrore del genocidio dei Tutsi, ma ha anche esplorato il tema dell’esilio, che sarebbe diventato uno dei cardini della sua produzione letteraria e musicale. Nelle opere di Faye, il genocidio dei Tutsi non è solo un evento storico, ma una presenza costante che permea l’identità individuale e collettiva. Come lui stesso ha affermato in occasione del 25° anniversario del genocidio, il 7 aprile 2019, «il genocidio comincia a scuola, nei media, nella cultura. Il genocidio non è un’esplosione immediata di odio, ma un lungo processo che comincia con le parole, delle semplici parole» [4]. Questa riflessione sottolinea l’importanza della prevenzione e della memoria, mostrando come l’odio possa essere coltivato silenziosamente fino a esplodere in violenza.
Nato da madre rwandese e padre francese, Faye ha trascorso l’infanzia in Burundi, per poi fuggire in Francia a causa della guerra civile burundese e del genocidio in Rwanda, dunque vivendo il trauma dell’esilio, tema che emerge potentemente nei suoi testi musicali e letterari. In Petit pays, il giovane protagonista – Gabriel (detto Gaby) – vive il dramma di sentirsi straniero ovunque, un sentimento amplificato dall’impossibilità di riconciliarsi con il passato violento del proprio Paese.
Il suo secondo romanzo, Jacaranda (2024), continua a esplorare questi temi, sebbene in una chiave diversa. Se Petit pays rappresentava un viaggio nel trauma della guerra e del genocidio, Jacaranda si sofferma più sulla condizione di chi, come Faye, si trova a cavallo tra due mondi, vivendo tra l’Europa e l’Africa, tra la memoria e la ricostruzione. Il titolo stesso, Jacaranda, evoca una pianta che fiorisce in molte parti dell’Africa, ma che non appartiene completamente a nessun luogo, simbolo dell’esilio e del radicamento incerto.
Pubblicato nel 2016, Petit pays è un romanzo di formazione che narra la storia di Gabriel, un ragazzino metà rwandese e metà francese, che vive in Burundi alla vigilia del genocidio del 1994. Attraverso gli occhi di Gabriel, Faye racconta la progressiva disintegrazione della sua innocenza e della sua vita familiare, parallela al collasso del Burundi e al genocidio che devasterà il Rwanda. Il romanzo, autobiografico ma non completamente, affronta con delicatezza temi universali come l’identità, il trauma e l’appartenenza. Ma al centro di tutto c’è la guerra, vista non solo come un evento di morte, ma anche come un cataclisma che spezza legami, distrugge comunità e lascia ferite difficili da guarire.
Il successo di Petit pays ha dato vita a molte altre trasposizioni artistiche, tra cui un film drammatico franco-belga del 2020, scritto e diretto da Éric Barbier, una graphic novel realizzata dallo stesso Faye, insieme ai disegnatori Sylvain Savoia e Marzena Sowa, uscita nell’aprile 2024, e una versione teatrale in lingua kinyarwanda, “Gahugu gato”, messa in scena gratuitamente nel giugno 2024 nelle colline del Rwanda dalla compagnia rwandese “L’espace”, con un cast multiculturale, perché gli attori che ne fanno parte provengono da Rwanda, RDCongo e Burundi. Quest’ultima è forse l’impresa culturale di più grande valore del filone, perché in questa nuova forma espressiva è possibile rivivere le vicende narrate nel libro con un’intensità e un’immediatezza uniche, perché lo spettacolo non si limita a rappresentare la storia del romanzo, ma assume un ruolo di impegno sociale: attraverso il teatro, si promuove la cultura e la memoria, si stimola la riflessione su temi cruciali come la guerra, la perdita e la speranza, e si favorisce la coesione sociale.
Nel 2022, Faye ha anche co-realizzato il documentario “Rwanda, il silenzio delle parole”, basato sulle testimonianze di tre donne tutsi che accusano i soldati francesi di stupro nei campi profughi durante il genocidio. Questo documentario, trasmesso dall’emittente europea “Arté”, è un’opera coraggiosa che affronta uno degli aspetti meno esplorati del genocidio: le violenze sessuali perpetrate dalle forze internazionali che avrebbero dovuto proteggere le vittime. Le storie di Marie-Jeanne, Concessa e Prisca offrono una testimonianza diretta della brutalità subita e del silenzio che ha avvolto queste atrocità per anni.
Petit pays (2016): il genocidio attraverso gli occhi dell’infanzia
Nel suo romanzo di esordio, Gaël Faye presenta la terribile esperienza del genocidio e della guerra civile attraverso la prospettiva ingenua e al tempo stesso profondamente traumatica di Gabriel, un bambino di soli otto anni. Faye utilizza l’infanzia per creare un contrasto potente tra l’innocenza di Gabriel e la brutale realtà che lo circonda.
All’inizio del racconto, Gabriel vive una vita tranquilla in un quartiere residenziale di Bujumbura, in Burundi. Figlio di un francese e di una rwandese, conduce una vita agiata e spensierata, giocando con i suoi amici e vivendo la sua infanzia in modo apparentemente normale. Tuttavia, la violenza politica e etnica che scoppia in Burundi e in Rwanda comincia lentamente a penetrare nel suo mondo. In questo contesto, Gabriel scopre che la sua identità non è così semplice: è proprio la guerra a rivelargli di appartenere al gruppo etnico dei Tutsi, una nozione che fino a quel momento ignorava. Come spiega Gabriel in una lettera inviata a Laure, una sua amica di penna francese: «Plus tard, quand je serai grand, je veux être mécanicien pour ne jamais être en panne dans la vie. Il faut savoir réparer les choses quand elles ne fonctionnent plus» (ivi: 52) [5]. Questo desiderio di “riparare” rappresenta simbolicamente il bisogno di ricostruire il suo mondo e la sua identità, distrutti dal conflitto.
Il genocidio rwandese del 1994 e la guerra civile burundese (1993-2005) fanno da sfondo alla narrazione e influenzano profondamente la vita di Gabriel. Faye dipinge un quadro di come la violenza permea ogni aspetto della società, dall’intimità delle famiglie alle relazioni di vicinato. Il Rwanda e il Burundi, due Paesi geograficamente vicini, diventano il teatro di uno scontro etnico devastante tra Hutu e Tutsi. Gabriel, che fino ad allora aveva vissuto inconsapevolmente in una posizione privilegiata, è costretto a confrontarsi con l’orrore che devasta la sua comunità e, progressivamente, la sua stessa famiglia. In questo contesto, in una delle ultime pagine del volume Gabriel afferma: «Je pensais être exilé de mon pays. En revenant sur les traces de mon passé, j’ai compris que je l’étais de mon enfance. Ce qui me paraît bien plus cruel encore» (ivi : 213) [6].
Il trauma che Gabriel subisce non è solo legato alla violenza politica, ma anche alla frattura della sua famiglia. Il matrimonio dei suoi genitori si sgretola sotto la pressione della guerra e delle tensioni etniche. La madre di Gabriel, rwandese, è profondamente segnata dalla perdita dei suoi familiari durante il genocidio, mentre il padre, francese, è impotente di fronte alla disintegrazione della sua famiglia. Gabriel è costretto a confrontarsi con una crisi d’identità: non appartiene pienamente né al Burundi né al Rwanda, e questa sensazione di estraneità lo accompagna per tutta la sua vita: «Je n’habite plus nulle part. Habiter signifie se fondre charnellement dans la topographie d’un lieu… Je ne fais que passer» (ivi: 13) [7]. Questa frase così lacerante riflette il senso di sradicamento di Gabriel, il suo sentirsi costantemente in esilio, sia fisico che emotivo.
Uno degli aspetti più interessanti di Petit pays è la descrizione del genocidio come un processo che si costruisce lentamente nel tempo. Faye mostra come la violenza si insinui nella vita quotidiana attraverso discorsi d’odio, piccoli gesti di discriminazione e l’indifferenza di chi si rifiuta di vedere ciò che sta accadendo. Il genocidio non arriva all’improvviso, ma è il risultato di anni di odio e propaganda che preparano il terreno per l’esplosione della violenza. In una delle frasi più potenti del libro, Gabriel riflette: «Le génocide est une marée noire, ceux qui ne s’y sont pas noyés sont mazoutés à vie» (ivi: 185) [8].Questa immagine suggerisce che il genocidio lascia un’impronta indelebile su chiunque lo attraversi, anche su chi riesce a sopravvivere. E poi, ancora: «Je trouvais le silence bien plus angoissant que le bruit des coups de feu. Le silence fomente des violences à l’arme blanche et des instrusions nocturnes qu’on ne sent pas venir à soi» (ivi : 197) [9].
Jacaranda (2024): l’incontro con le origini e la scoperta dell’altro
Dopo otto anni dal suo esordio letterario, la scorsa estate Gaël Faye ha pubblicato Jacaranda, un romanzo che affronta le ferite profonde e irrisolte della memoria collettiva del Rwanda, mentre il protagonista, Milan, intraprende un viaggio alla scoperta delle sue radici e del Paese d’origine della madre. Questa narrazione si snoda attraverso una serie di brevi capitoli, ognuno dei quali rappresenta un anno significativo nella vita di Milan, dal 1994 al 2020. La storia di Jacaranda è una continua oscillazione tra passato e presente, un tentativo di riconciliare l’identità personale con un’eredità storica pesante.
Il romanzo inizia nel 1994 con Milan, un ragazzo di dodici anni, che conosce ben poco del Rwanda, il Paese natale della madre, esiliata in Francia a causa di un precedente massacro nel 1973. Durante il genocidio perpetrato contro i Tutsi, il suo mondo viene scosso dalla violenza e dalla disperazione che emergono dalle notizie trasmesse in televisione: «Nous étions en juillet 1994. Au moment où j’observais ma mère de dos qui regardait la nuit en feu, un génocide prenait fin dans son pays natal» (ivi : 23) [10]. Il dolore e l’orrore di quegli eventi rimangono per lungo tempo una porta chiusa nella sua vita, come egli stesso riflette: «Le passé de ma mère était une porte close» (ivi: 13) [11]. Questo evento traumatico costringe Milan a confrontarsi con una realtà di cui è stato sempre all’oscuro.
Quattro anni dopo, Milan e sua madre tornano a Kigali, dove lei non metteva piede da venticinque anni. Qui, l’adolescente si sente un “muzungu” (un bianco), colpito dalla bellezza e dalla brutalità di un luogo che è al contempo affascinante e inquietante. La descrizione del paesaggio rwandese è intensa e vibrante: «Perdu, je me demandai tout à coup ce que je faisais ici, dans cette pièce pestilentielle. Tout me bloquait: l’odeur nauséabonde, les insectes dans la pénombre, la texture humide et imprécise des murs, du sol et du plafond» (ivi : 52) [12].. Attraverso i suoi occhi, il lettore inizia a comprendere le contraddizioni di un Paese segnato dalla storia, ma anche dalla resilienza.
Il viaggio di Milan in Rwanda non è solo un viaggio fisico, ma anche un confronto con l’estraneità. Nonostante sia un figlio di quel Paese, si sente avulso dai suoi abitanti e deve affrontare il peso del silenzio che circonda la storia della sua famiglia. Ogni tentativo di esplorare il passato si scontra con l’ostilità della madre, che sembra temere il ricordo e il dolore. Milan si rende conto che il suo ritorno non è semplicemente un atto di rivendicazione delle origini, ma un cammino complicato e doloroso: «Ce pays me troublait, m’effrayait, me répugnait. Partout, il y avait ces visages banals, ces gens normaux, ces hommes et ces femmes ordinaires capables d’atrocités inimaginables et qui étaient parmi nous, autour de nous, avec nous, vivant comme si rien de tout cela n’avait existé. Et sous la terre que nous foulions tous les jours, dans les champs, dans les forêts, les lacs, les fleuves, les rivières, dans les églises, les écoles, les hôpitaux, les maisons et les latrines, les corps des victimes ne reposaient pas en paix. J’avais envie de m’enfuir, de quitter cette terre de mort et de désolation» (ivi : 137-138) [13].
Questo sentimento di estraneità è amplificato dalle sue interazioni con gli altri personaggi, che riflettono la complessità delle identità rwandesi e l’ombra persistente del genocidio. La critica all’idea di “ritorno” diventa evidente quando Milan si rende conto che il suo soggiorno nel Paese non è un semplice viaggio turistico: «Tu viens ici en touriste et tu repartiras en pensant avoir passé de bonnes vacances. Mais on ne vient pas en vacances sur une terre de souffrances. Ce pays est empoisonné. On vit avec les tueurs autour de nous et ça nous rend fous. Tu comprends? Fous» (ivi: 89) [14].
L’amicizia e i legami affettivi giocano un ruolo cruciale nella crescita di Milan. Attraverso la sua interazione con Claude, un orfano rwandese, e Stella, una giovane del posto, Milan inizia a costruire una connessione profonda con il Rwanda. Le amicizie che sviluppa non solo lo aiutano a superare la sua estraneità, ma anche a comprendere meglio il dolore e la resilienza delle persone che lo circondano. Attraverso le loro storie, il protagonista del romanzo impara a vedere oltre il suo punto di vista, abbracciando una nuova comprensione della sua identità: «Je suis métis» (ivi: 58) [15].
Le conversazioni con Claude, che lo introduce alla realtà del genocidio e al silenzio che circonda la memoria, diventano momenti di rivelazione. Claude esprime il dolore collettivo di un popolo: «Tu sais, l’indicible ce n’est pas la violence du génocide, c’est la force des survivants à poursuivre leur existence malgré tout» (ivi: 135 [16]. Questa consapevolezza trasforma Milan, offrendogli una nuova prospettiva sulla vita e sull’eredità del suo Paese. In questo modo, infatti, il romanzo non si limita a esplorare il viaggio personale di Milan, ma affronta anche le ferite persistenti della società rwandese post-genocidio. Faye descrive un Paese in cui il silenzio e l’amnesia collettiva convivono con il desiderio di verità e riconciliazione. La narrazione si fa portavoce delle voci silenziate, evidenziando l’importanza della memoria nella costruzione di un futuro. Il ragazzo riflette su come il genocidio abbia lasciato cicatrici indelebili che non vanno dimenticate: «Nous devons continuer à raconter ce qui s’est passé pour que cette histoire se transmette aux nouvelles générations et ne se reproduise jamais plus nulle part» [17].
L’eredità della memoria è centrale nel messaggio di Faye, che sottolinea l’importanza di raccontare la verità affinché il passato non venga dimenticato; un principio che la mamma di Stella esprime con grande efficacia: «En 1998, je suis devenue mère à nouveau. Ma fille, Stella, est ma raison d’être. Aujourd’hui, les miens vivent à travers moi mais aussi à travers elle. Il faut se souvenir que les Tutsi ont été tués non pas pour ce qu’ils pensaient ou ce qu’ils faisaient mais pour qui ils étaient» (ivi : 237-238) [18].. La consapevolezza storica diventa un atto di responsabilità, non solo verso le vittime, ma anche per le generazioni future.
La responsabilità delle parole
Il genocidio dei Tutsi in Rwanda, avvenuto nella primavera del 1994, rappresenta una delle pagine più buie della storia umana. Le atrocità perpetrate durante quel periodo non possono essere comprese senza un’attenta riflessione sulle parole e sulle ideologie che hanno preparato il terreno per l’orrore. Sì, ha ragione Gaël Faye, il genocidio comincia a scuola, nei media, nella cultura. Questa affermazione ci invita a esplorare il potere delle parole e delle narrazioni nel processo di disumanizzazione che ha preceduto il genocidio, nonché il loro ruolo nel perpetuare l’odio e nell’alimentare l’oblio.
In Rwanda, la preparazione al genocidio non è avvenuta in un vuoto, ma è stata il risultato di anni di retorica estremista e di odio, di esclusione e di disumanizzazione. Le parole utilizzate dai media (la famigerata “Radio Mille Collines”, ma non solo) e dai politici (quelli del regime dittatoriale e apertamente razzista dell’allora presidente Juvénal Habyarimana) hanno trasformato i Tutsi in un nemico da combattere, un “altro” da eliminare. La martellante propaganda ha alimentato una narrativa di paura e di odio, dipingendo i Tutsi come una minaccia esistenziale per gli Hutu. Questo processo di deumanizzazione [19], ha creato un ambiente in cui la violenza è diventata non solo pensabile, ma anche accettabile.
Il brutale paradosso è che la stessa parola “genocidio”, che evoca immagini di sofferenza e di morte, può essere usata per alimentare l’odio. In molte circostanze, infatti, la terminologia per descrivere gli eventi storici gioca un ruolo cruciale nella formazione della coscienza collettiva. In Rwanda, il termine “genocidio” è stato inizialmente rifiutato o minimizzato da alcune forze politiche e sociali, che cercavano di distogliere l’attenzione dalle atrocità in corso. Questa negazione non solo offuscava la realtà degli eventi, ma contribuiva anche a perpetuare un clima di impunità e indifferenza nei confronti delle vittime. Parallelamente, l’accusa di compiere un genocidio va mossa con estrema cautela, perché si tratta di una attribuzione della colpa particolarmente infamante, quella che permette una stigmatizzazione concreta del diverso, all’interno di un processo che, al contempo, produce sia alterità che identità: è l’accusa di un male assoluto, una forma estrema di regresso per esseri umani assimilabili a mostri sulla Terra con cui è impossibile e impensabile qualsiasi forma di relazione. Le parole hanno un peso, e “genocidio” non indica solo un massacro, ma aggiunge un di più all’orrore, una quota di disgusto fatto di crudeltà e razzismo.
I due romanzi di Faye ci raccontano che un genocidio non passa, non si supera; resta un male indicibile che si incrosta nella memoria e si incista nei corpi dei sopravvissuti. Il genocidio dei Tutsi non è mai realmente scomparso dalla coscienza collettiva rwandese; è un abisso di violenza che continua a influenzare la società contemporanea. La memoria del genocidio è custodita attraverso rituali, monumenti e narrazioni condivise (“Kwibuka”), e rappresenta un ancoraggio per affrontare il presente e costruire il futuro. Tuttavia, è essenziale riconoscere che la memoria non deve diventare un pretesto per perpetuare divisioni o giustificare nuove forme di violenza. L’atto di ricordare deve essere accompagnato dalla vigilanza e dalla responsabilità, affinché non si ripetano tragedie simili. Il genocidio dei Tutsi ci insegna che la banalità del male si compie non solo per mano dei carnefici, ma anche attraverso il silenzio, l’indifferenza e la complicità della comunità internazionale.
Le parole hanno il potere di costruire ponti o di erigere muri. Quelle di Gaël Faye emergono con grande forza evocatrice e riflessiva sull’identità, il dolore e la memoria. Come l’albero di jacaranda rappresenta una potente metafora di bellezza, resilienza e memoria, così la vita va fatta fiorire di vitalità e bellezza, anche in mezzo al dolore e alla sofferenza.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Sulle discriminazioni contro gli Uiguri, si veda il discorso del deputato europeo Raphael Glucksman, del 17 dicembre 2020, disponibile sul canale YouTube de l’Huffington Post, versione francese: “Le “j’accuse” de Glucksmann contre les complices de l’éradication du peuple ouïghour”: https://youtu.be/oBlD8CKKGdA?si=gGK13lpE2yNVdmTk).
[2] Si vedano, tra le altre, le opere di Antonia Arslan, come La masseria delle allodole (2004) oppure Hushèr. La memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni (2001)).
[3] «Piccolo paese, per tre mesi tutti ti hanno lasciato solo […] Bisognava ricostruire il mio piccolo paese sulle ossa / sulle fosse comuni e poi i nostri incubi incessanti / Piccolo paese: farti sorridere sarà la mia redenzione […] Lasciami piangere solo quando arriva questo maledetto mese di aprile / Mi hai insegnato il perdono in modo che potessi avere una nuova pelle / Piccolo paese, nell’ombra il diavolo continua le sue manovre / Tu vuoi vivere nonostante gli incubi che ti perseguitano».
[4] Video sul canale YouTube del Mémorial de la Shoah, 9 aprile 2019: https://youtube.com/shorts/Fv3nfQ0FLpQ?si=KOkp-8KyllTqDrwy).
[5] «Più tardi, quando sarò grande, voglio diventare meccanico per non rimanere mai in panne nella vita. Bisogna sapere aggiustare le cose quando non funzionano più».
[6] «Pensavo di essere esiliato dal mio paese. Tornando sulle tracce del mio passato, ho capito che ero esiliato dalla mia infanzia. E questo mi sembra molto più crudele».
[7] «Non abito più da nessuna parte. Abitare significa fondersi fisicamente nella topografia di un luogo… Io sono solo di passaggio».
[8] ) «Il genocidio è una marea nera, quelli che non ci sono annegati sono impiastrati di petrolio per sempre».
[9] «Consideravo il silenzio molto più angosciante del rumore degli spari. Il silenzio fomenta violenze lancinanti e intrusioni notturne che non si sente arrivare».
[10] «Era il luglio del 1994. Mentre guardavo mia madre di spalle mentre osservava la notte bruciare, un genocidio stava finendo nel suo Paese natale».
[11] «Il passato di mia madre era una porta chiusa».
[12] «Perduto, all’improvviso mi sono chiesto cosa stessi facendo qui, in questa stanza pestilenziale. Tutto mi bloccava: l’odore nauseabondo, gli insetti nel buio, la consistenza umida e poco chiara delle pareti, del pavimento e del soffitto».
[13] «Questo Paese mi ha disturbato, mi ha spaventato, mi ha disgustato. Ovunque c’erano volti comuni, persone normali, uomini e donne usuali capaci di atrocità inimmaginabili e che erano tra noi, intorno a noi, con noi, vivendo come se nulla di tutto ciò fosse esistito. E sotto la terra che calpestiamo ogni giorno, nei campi, nelle foreste, nei laghi, nei fiumi, nelle chiese, nelle scuole, negli ospedali, nelle case e nelle latrine, i corpi delle vittime non riposavano in pace. Volevo scappare, lasciare questa terra di morte e desolazione».
[14] «Vieni qui da turista e ripartirai pensando di aver trascorso una bella vacanza. Ma non si viene in vacanza su una terra di sofferenza. Questo Paese è avvelenato. Viviamo con assassini intorno a noi e questo ci fa impazzire. Capisci? Impazzire».
[15] «Sono meticcio».
[16] ) «Sai, l’indicibile non è la violenza del genocidio, ma la forza dei sopravvissuti di continuare a vivere nonostante tutto».
[17] «Dobbiamo continuare a raccontare quello che è successo affinché questa storia venga tramandata alle nuove generazioni e non accada mai più da nessuna parte».
[18] «Nel 1998 sono diventata di nuovo mamma. Mia figlia Stella è la mia ragione d’essere. Oggi i miei vivono attraverso di me ma anche attraverso di lei. Dobbiamo ricordare che i tutsi non furono uccisi per quello che pensarono o per quello che fecero, ma per quello che erano».
[19] Un esempio lampante è quello dello speaker Kantano, che dall’emittente estremista “RTLM” invitava a seviziare e uccidere gli «inyenzi», gli «scarafaggi» tutsi.
Riferimenti bibliografici
Arslan, Antonia, 2001: Hushèr. La memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni, Guerini e Associati, Milano.
Arslan, Antonia, 2004: La masseria delle allodole, Rizzoli, Milano.
Arslan, Antonia, 2019: Così ho accolto l’Armenia ferita, intervista concessa a Antonio Gnoli, in “la Repubblica”, 7 aprile: 64-65.
Clastres, Pierre, 1974: De l’Ethnocide, in “L’Homme”, 14, 3-4: 101-110.
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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia culturale è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris-Nanterre e del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e docente a contratto di Antropologia urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Attualmente è scientific advisor per ISSNOVA (Institute for Sustainable Society and Innovation) e membro del consiglio di amministrazione del CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale). I suoi studi riguardano il rapporto tra le comunità umane e il loro ambiente, soprattutto quando si tratta di territori a rischio, e la relazione tra umani e animali, con particolare attenzione al contesto giuridico e giudiziario. Ha recentemente pubblicato per le edizioni del Museo Pasqualino il volume: Crisi e riti della contemporaneità. Antropologia ed emergenze sanitarie, belliche e climatiche.
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