di Alessandro Perduca
Seule une pensée qui relève du noir ou du blanc, du plus ou du moins, une pensée qui relève du ou bien/ou bien, vel tragique destructeur et profondément mélancolique, pourrait imaginer une pénsee dominée par la seule dimension de l’alternative (Jacques Hassoun) [1]
L’esilio costantemente ci ri-guarda, getta lo sguardo su di noi e ci abita rendendoci tema e interrogativo a noi stessi. Il tempo feroce al quale apparteniamo rimette in discussione il mondo di ieri e la fiducia in un tutto-politico della sua interpretazione e lettura. Vivere il proprio tempo è collegarsi alla catena della trasmissione delle nostre appartenenze, accoglierne le voci e assumere l’identità di soggetti. Il tempo dell’esistenza è sempre tempo di sospensione nel quale, per seguire la lezione sempre attuale di Daniel Bensaïd, l’imperativo della trasmissione della memoria ci obbliga fra un déjà plus e un pas encore [2].
A quasi trent’anni dalla pubblicazione ci può fare da bussola e da guida Les contrebandiers de la mémoire [3], inedito in Italia, opera dello psicanalista Jacques Hassoun. Nato ad Alessandria d’Egitto il 20 ottobre del 1936 [4] da una famiglia ebraica di lingua araba e cultura francese, Jacques Hassoun (Yaacoub Daoud Hassoun) [5] crebbe in una città multiculturale e cosmopolita in cui coesistevano diverse comunità etniche e religiose. La sua eredità ebraica, fondamentale per la sua identità precoce e la miscela unica di cultura araba, ebraica ed europea di Alessandria lo esposero, fin da giovane, a diverse correnti intellettuali. La città, all’epoca un importante centro del commercio e del pensiero mediterraneo, era un crocevia di pensatori e intellettuali alle prese con le multiformi correnti, incontro di nazionalismo e modernità. La prima educazione di Hassoun si svolse in istituzioni francofone e successivamente al Lycée de l’Union Juive, dove il marxismo era l’orientamento intellettuale dominante – esperienza comune tra gli appartenenti alla comunità ebraica della classe media e alta della città.
Questa precoce esposizione alla cultura e alla lingua francese fornì le basi per la sua successiva vita intellettuale in Francia. La sua infanzia e giovinezza, tuttavia, furono segnate da turbolenze e sconvolgimenti politici. L’ascesa del nazionalismo arabo e le crescenti tensioni tra le comunità ebraiche e arabe in Egitto portarono infine all’emarginazione della componente ebraica. Da adolescente, si era unito a Dror (Libertà), un’organizzazione giovanile marxista-sionista affiliata a Ahdut ha-Avodah (Unità di Lavoro) parte del MAPAM (Mifleget haPoalim haMeuhedet [Partito unificato degli operai]) [6]. Nel 1952, i leader di Dror in Egitto conclusero che marxismo e sionismo non potevano coesistere e sciolsero l’organizzazione, di conseguenza Hassoun si unì a HADETU (al-Ḥarakatu al-Dīmuqrāṭīyyatu li al-Taḥriri al-Waṭani [Movimento Democratico per la Liberazione Nazionale]), la più grande organizzazione comunista egiziana, illegale. Hassoun, come molti ebrei egiziani, si trovò a vivere in un ambiente sempre più ostile e nel 1954, accusato di essere comunista, fu espulso dall’Egitto. Questa esperienza di alienazione e spaesamento diventerà uno dei temi centrali della sua opera rivendicando sempre la propria identità come ebraica perché egiziana ed egiziana perché ebraica [7].
Dopo la caduta di re Faruq e l’ascesa del regime di Nasser, Hassoun emigrò in Francia, unendosi all’ondata di ebrei, europei e altre minoranze che lasciavano l’Egitto in quel periodo. La Francia, con la sua vivacità intellettuale e la sua società aperta, divenne la sua patria adottiva. A Parigi proseguì gli studi superiori, laureandosi in filosofia e scienze sociali e impegnandosi a fondo nell’attivismo politico. Negli anni Sessanta, la Francia era un terreno fertile per la politica radicale, con l’ascesa del pensiero marxista, il movimento anticoloniale e lo spirito rivoluzionario che culminò negli eventi del maggio 1968. In Francia si unì a una cellula di HADETU in esilio guidata da Henri Curiel facendone parte fino al 1968. Nel 1979, Hassoun e altri ebrei che avevano precedentemente fatto parte del ramo francese di HADETU fondarono l’Associazione ASPCJE [8] (Association pour la Sauvegarde du Patrimoine Culturel des Juifs d’Égypte) per la salvaguardia dell’eredità culturale degli ebrei d’Egitto. L’associazione pubblicò due libri curati da Hassoun: Juifs du Nil [9] e Histoire des Juifs du Nil [10], oltre a un saggio fotografico realizzato in collaborazione con Gilbert Cabasso, Juifs d’Egypte: Images et textes [11], e un periodico, Nahar Misraïm (Il fiume Nilo), che ancora oggi compare come bollettino dell’associazione. Hassoun, con il suo background di tradizione marxista e psicoanalitica, ha svolto un ruolo attivo in questi movimenti intellettuali e associazioni. La sua attività politica all’epoca era allineata con i gruppi marxisti e antimperialisti e si impegnò in varie cause di sinistra, tra cui il movimento per l’indipendenza dell’Algeria.
Il suo impegno politico, tuttavia, fu sempre sfumato dalla sua prospettiva psicoanalitica che cercava di esplorare le dimensioni psicologiche più profonde del cambiamento politico e sociale. L’ingresso di Hassoun nella psicoanalisi fu una naturale estensione della sua curiosità intellettuale sulla mente umana e sul suo rapporto con la società. Divenne discepolo dello psicoanalista francese Jacques Lacan, che all’epoca stava rivoluzionando il campo con le sue reinterpretazioni del lavoro di Freud. L’attenzione di Lacan per il linguaggio, l’inconscio e l’ordine simbolico riverberò profondamente con lo spirito di Hassoun, le cui esperienze di esilio e spostamento rispecchiavano molti dei temi psicoanalitici della perdita, del desiderio e dell’identità. La decisione di Hassoun di seguire una formazione psicoanalitica sotto la guida e l’analisi di Conrad Stein e Jean Cavreuil per dedicarsi alla pratica professionale vide nelle teorie lacaniane un alveo naturale.
Fu uno scrittore prolifico, contribuendo a numerose riviste e pubblicazioni psicoanalitiche. Il suo lavoro si è concentrato sul rapporto tra psicoanalisi ed esilio, attingendo alla sua storia personale di emigrato e alla sua profonda conoscenza della storia e della cultura ebraica. I suoi contributi più importanti alla psicoanalisi sono legati alla teoria della melancolia e della depressione e all’esplorazione degli effetti psicologici dell’esilio, dello spostamento e della migrazione. Egli sosteneva che l’esilio non fosse solo uno spostamento fisico, ma un profondo evento psicologico che rimodellava il senso di sé e l’identità dell’individuo. Ha esplorato come l’esperienza dell’esilio possa portare a un senso di frammentazione, perdita e nostalgia, ma come possa anche favorire la creatività, la resilienza e un nuovo modo di stare al mondo. Il suo lavoro in quest’area è stato innovativo, fornendo una lente psicoanalitica attraverso la quale comprendere le esperienze di rifugiati, migranti e sfollati, molto prima che questi temi diventassero un punto centrale della psicologia e delle scienze sociali contemporanee.
Il lavoro intellettuale e psicoanalitico di Hassoun si è sempre intrecciato con il suo attivismo politico e sociale. Rimase fedele ai principi del marxismo per tutta la vita, pur criticando il dogmatismo e le tendenze autoritarie di alcuni movimenti. La sua eredità ebraica ha giocato un ruolo centrale anche nella definizione della sua identità politica e si è impegnato a fondo per promuovere la comprensione e il dialogo tra le comunità ebraiche e arabe, in particolare nel contesto del conflitto israelo-palestinese. La sua esperienza di esiliato lo ha reso estremamente consapevole delle sfide psicologiche e sociali affrontate dai migranti e ha lavorato instancabilmente per sostenere queste comunità attraverso la sua pratica psicoanalitica e il suo attivismo.
Ha collaborato con diverse organizzazioni per i diritti umani e criticato apertamente le politiche autoritarie e di emarginazione. Muore a seguito di un tumore cerebrale il 24 aprile del 1999, lasciando dietro di sé una ricca e feconda eredità intellettuale. Il suo lavoro rimane di grande attualità nel mondo di oggi, dove le questioni della migrazione e dell’identità sono in primo piano nella politica globale. La miscela unica di psicoanalisi, marxismo e storia culturale ebraica lo distingue come pensatore in grado di affrontare le complessità dell’identità e dell’appartenenza in un mondo in rapido cambiamento.
Considerata la vastità della sua produzione, è impossibile in questa sede dare una sintesi dell’opera di Hassoun. Le tematiche si concentrano in una fitta trama intertestuale sulla pratica e l’interpretazione psicoanalitica, la storia culturale dell’ebraismo egiziano e intensi dialoghi fra politica, psicanalisi e storia culturale. Come viatico valga una breve analisi di tre fra le sue opere maggiori le cui tematiche dialogano con i contenuti di Les contrebandistes de la mémoire. In L’Exil de la langue [12] (1993), La Cruauté mélancolique [13] (1995) e L’Obscur objet de la haine [14] (1997), Hassoun esplora i meccanismi psichici della sofferenza, che si manifesta sotto forma di odio, malinconia o esilio linguistico. Attraverso un approccio psicoanalitico, analizza come gli individui e le società reagiscono alle perdite o ai traumi irrisolti e mostra come queste reazioni possano portare a comportamenti distruttivi o a tensioni identitarie.
In L’Obscur objet de la haine vengono affrontati i percorsi dell’odio a partire dal loro svolgersi nel soggetto e nel corpo sociale. L’autore parte dall’assunto che l’odio è rivolto all’essere e, di conseguenza, non può essere considerato come il semplice rovescio dell’amore, ma sarebbe legato a una sospensione di quest’ultimo. Si dà come ipotesi un rapporto tra odio e conoscenza dove quest’ultima presuppone una prima morte, un lutto, come tempo fondante dell’amore. L’odio rivolto all’altro crea una de-soggettivazione, una destituzione, una riduzione allo stato di rifiuto da distruggere, e deriva dall’impossibilità di incarnare, per dirla con linguaggio lacaniano, l’altro, o l’Altro interno. L’autore esamina con coraggio l’odio e le istituzioni, in particolare quelle analitiche. Vengono affrontate questioni essenziali come il passaggio dall’analizzando all’analista, la fine dell’analisi e il rapporto con la teoria. I legami sociali possono formarsi solo dopo che l’omicidio è stato consumato, garantendo il passaggio al simbolico e la costituzione di ideali. Stabilire una teoria come dottrina, conferire al maestro un’onniscienza illimitata, idealizzare il leader e abolire il disaccordo sono tutti modi che portano a rotture e spaccature nelle istituzioni analitiche, lasciando un’eredità di odio e il trauma della distruzione. In tutto il testo c’è una traccia profonda del conflitto legato all’odio, un odio necessario su cui si basa l’ingresso nel campo sociale, un odio che disintegra i legami sociali. Il destino comune sarebbe quello di avere a che fare con questi moti di conoscenza e del suo oblio.
I testi che compongono L’Exile de la langue affrontano il rapporto del soggetto con la lingua, la cosiddetta lingua madre. I termini utilizzati per designarla possono generare confusione. Perché i piccoli resti del bambino meraviglioso che non finisce mai di ammaccarsi, questi sopravvissuti di una rottura, queste schegge d’amore, di nostalgia o di convinzione che occupano il soggetto, costituiscono il linguaggio di un esilio interiore. Assoggettato alla sua passione, il soggetto va a caccia di questo linguaggio inarticolabile del trauma nello stesso modo in cui altri cercano frammenti di testi, pergamene perdute, oggetti scavati o insegne, che sfuggono sempre. Il «bambino morto», definito qui come punto di ancoraggio della pulsione di morte nell’Io, come insistenza nel mettere le parole al posto del discorso sospeso, abbozzerebbe un termine di passaggio, una concessione, e sosterrebbe la funzione simbolica del linguaggio. L’autore attinge alla clinica, a personaggi di romanzi e film e al ricordo di una ballerina barocca e folle, immagine stilizzata dell’esilio, per evocare queste diverse metafore dell’esilio del linguaggio.
In La Cruauté mélancolique, Hassoun esplora la complessità della malinconia, collegandola a questioni sia individuali sia sociopolitiche. Il suo percorso personale, segnato dall’esilio, lo porta a vedere la malinconia non solo come sofferenza psicologica, ma anche come riflesso dell’ingiustizia sociale e del dolore storico. Hassoun definisce la nostalgia come una sofferenza legata a un ritorno impossibile, sottolineandone l’importanza per immaginare un futuro autentico. Da questa prospettiva, la malinconia è intimamente legata ai temi della separazione, della perdita e del lutto, esperienze essenziali che lasciano il segno nell’individuo. Il suo lavoro si interroga anche sulla natura del male, sia a livello personale che collettivo. Il suo impegno nei confronti dei diseredati riflette una profonda preoccupazione, in cui traccia connessioni tra la malinconia e la sofferenza sociale. Si affronta anche il tema delle dipendenze, interpretate come risposte malinconiche a un vuoto interiore. Le sostanze diventano tentativi disperati di colmare un’assenza fondamentale, evidenziando la complessità del rapporto tra l’oggetto perduto e la ricerca di significato.
Hassoun opera una distinzione tra il lutto, in cui l’oggetto perduto è identificabile, e la malinconia, in cui l’individuo si trova di fronte a un’assenza enigmatica che rende il processo di lutto difficile, se non impossibile. Ciò solleva domande sulla relazione con l’altro e sul suo impatto sul desiderio. L’autore sostiene un ruolo attivo dell’analista nella creazione degli oggetti del desiderio, consentendo al soggetto di riconoscere questa assenza e di prevedere un percorso verso il lutto. L’interpretazione diventa un atto creativo, essenziale per l’emergere del desiderio. Nel capitolo finale, intitolato Le soleil noir de la mélancolie (Il sole nero della malinconia), riprendendo il famoso verso di Nerval, Hassoun mette in luce la complessità dei concetti di malinconia e depressione discutendone la distinzione. L’autore non si limita a un’analisi individuale, ma collega strettamente la malinconia ai contesti politici e sociali contemporanei; sottolinea il fatto che la malinconia moderna è esacerbata dalle crisi di identità e dal collasso ideologico, spingendo a riflettere sulla responsabilità individuale di fronte al male. Attraverso questo approccio, apre così uno spazio per gli psicoanalisti che si interrogano sul modo in cui possono intervenire in dinamiche complesse.
Pubblicato nel 1994, Les contrebandiers de la mémoire intreccia narrazioni personali, storiche e collettive che esplorano il modo in cui la memoria opera all’interno degli individui e attraverso le generazioni, soprattutto per coloro che hanno vissuto l’esilio o la migrazione. Il titolo evoca immediatamente un senso di attività illecita o clandestina, sottintendendo che la memoria si rivela qualcosa da nascondere, contrabbandare o preservare con mezzi non convenzionali. Questo in un quadro psicoanalitico dà il via a una meditazione sul modo in cui sfollati ed esiliati conservano la propria storia e identità di fronte alla soppressione, alla cancellazione o all’assimilazione forzata. Il «contrabbando» della memoria suggerisce che la memoria è fragile e a rischio, e che deve essere attivamente preservata e trasmessa attraverso canali informali o segreti.
L’Hassoun psicoanalista attinge a piene mani dalla sua formazione e dalle sue esperienze personali, oltre che dalla sua comprensione professionale del trauma e della memoria. Il libro è in parte profondamente autobiografico, in quanto condivisione del suo viaggio di esilio dall’Egitto e come confronto con il dolore della perdita e lotta per conservare e trasmettere la memoria della propria eredità. Per l’autore l’esilio non è solo una realtà geografica o politica; l’origine esteriore e interiore sono una condizione di distacco dalle proprie radici, dalla propria storia e dalla propria cultura. Egli esplora come l’individuo esiliato sia spesso costretto a reinventarsi in assenza di una base culturale o storica stabile, e come questa reinvenzione porti con sé sia un potenziale di creatività sia un profondo senso di perdita. La memoria non è solo un ricordo passivo del passato, ma una forma attiva di resistenza contro le forze che cercano di cancellare o distorcere la storia. L’atto di ricordare, modo per affermare la propria identità e resistere alle pressioni dell’assimilazione, è un atto politico in senso proprio, individualità costitutiva nel significato attribuitole da Hanna Arendt. Hassoun esplora i modi in cui la memoria può essere trasmessa attraverso storie, rituali, linguaggio e altre pratiche culturali, anche quando la narrazione ufficiale cerca di marginalizzarla o di metterla a tacere.
La metafora del contrabbandiere è particolarmente potente in questo contesto, poiché suggerisce che la memoria è qualcosa che deve essere accuratamente protetta e trasportata attraverso i confini, siano essi geografici, culturali o psicologici. I «contrabbandieri della memoria» sono quegli individui che si assumono la responsabilità di preservare e trasmettere le storie, le tradizioni e le esperienze delle loro comunità, anche di fronte alle avversità. Hassoun sottolinea il ruolo della narrazione, sia in ambito familiare sia in contesti culturali più ampi, come metodo chiave di trasmissione della memoria. Egli approfondisce il rapporto tra memoria personale e memoria collettiva, esplorandone gli intrecci. I ricordi personali sono plasmati dai contesti storici e culturali più ampi in cui un individuo vive, e la memoria collettiva è, a sua volta, plasmata dalle storie e dalle esperienze dei singoli. Nel caso delle comunità esiliate o sfollate, spesso c’è una tensione tra la necessità di preservare la memoria collettiva e il desiderio di andare avanti e integrarsi in una nuova società. Proprio in questa dimensione politica del ricordo o della sua impasse si aprono spazi di appropriazione da parte di agenzie politiche che se ne impossessano per fini identitari. Un aspetto fondamentale dell’esplorazione della memoria da parte di Hassoun è il tema della perdita e del lutto.
Charlotte Salomon [15] e il suo vissuto analitico di negazione di un pregresso suicidario dei componenti femminili della famiglia è emblematico del rapporto fra silenzio e trasmissione e dell’eco di voci che risuonano in un inconscio sbarrato e rimosso. Il recupero di questi echi si sostanzia in una produzione artistica creativa che tenta di ricucire i frammenti dove proprio l’atto di ri-creazione si qualificherà come sintesi fra terapia e integrazione del passato. L’esilio è intrinsecamente legato alla perdita della patria, della cultura, della lingua e della comunità. Il processo di elaborazione del lutto è complesso e sfaccettato e Hassoun esplora il modo in cui individui e comunità affrontano tale processo. È particolarmente interessato al modo in cui il lutto viene trasmesso attraverso le generazioni e al modo in cui i discendenti di individui esiliati spesso portano il peso di un lutto non elaborato o di un trauma irrisolto. Tale trauma iscritto nella necessità di elaborare il nostro Essere-per-la-morte proviene da un’eredità che riceviamo ed è «costantemente modificato seguendo le casualità della nostra vita, dei nostri esili e desideri» [16].
Ancorati tra epoche, alcuni bramano assaporare l’assurda immobilità del tempo, sussurrando dialetti ancestrali con vergogna o gioia. Le minoranze, sradicate, vedono l’esodo come declino irreparabile. Si credono responsabili di riscattare un’antica caduta, sentendosi costretti in vicoli ciechi genealogici. Emerge un dilemma: riscoprire inconsciamente un espediente rivoluzionario per linguaggio e arte, o confrontarsi con la ricerca di quello che in definitiva non si è? Un problema si affaccia: in quale lingua trasmettere tutto ciò?
«Come trasmettere in un’altra lingua la vita frenetica di un porto del Mediterraneo, i suoi colori vivaci, i suoi odori, le grida dei mercanti e dei compratori che lo visitavano? E come esprimere che un simile profumo, sottile miscela di sporco e di delizioso, può rappresentare un punto focale di assoluta nostalgia che nessuna parola trasposta può trasmettere?» [17].
Qual è la lingua dell’oblio? Hassoun propone che
«I linguaggi dell’oblio sono i linguaggi, le parole, che il bambino sente senza capire e che scandiscono i piccoli e grandi eventi della sua vita infantile. È la lingua dei rantoli, la lingua dell’allattamento, la lingua appena articolata delle esclamazioni, parole che non significano ancora nulla, che sono come sussurri, sospiri, frammenti di parole, frecce conficcate nella carne, carezze schivate, schiaffi mai dati, e che tutti noi incontriamo di nuovo da adulti un giorno, con grande sorpresa, nel corso di una frase, nel corso di un’emozione» [18].
La stele di Rosetta della nostra identità giace nascosta nell’infanzia. Come Champollion, decifriamo i geroglifici del nostro essere attraverso lingue multiple: il balbettio infantile, la prima lingua parlata, la cultura acquisita [19]. Questa traduzione continua sfida il mito della purezza linguistica. La «lingua madre» non è un’estensione corporea materna, ma un ponte verso l’alterità. Crea una distanza vitale, permettendo al bambino di esprimersi senza timore di soffocamento o rifiuto. Mescolando familiarità e estraneità, forgia lo stile unico di ciascuno. L’esilio, metafora della condizione umana, rivela come l’inquietudine nasca dal troppo familiare, non dall’estraneo. Parlare non è tradurre, ma navigare tra mondi linguistici fluidi. Tuttavia, lo sradicamento può offuscare i confini identitari, trasformando l’esule in un residuo dai contorni sfocati. Nel tentativo di articolare le proprie origini, si scontra con l’ineffabilità dell’esistenza, come un dannato che cerca disperatamente di ricordare la propria voce perduta. Il risvolto politico di questa affermazione è la ricerca di un’individualità di riappropriazione dove il singolo nel suo processo di individuazione «[…] deve poter affermare la propria qualità, e rinunciare a qualsiasi idea di elezione» [20]. La contemporaneità fluttua fra affermazioni identitarie e esigenze di individuazione e in un’apparente paradossia:
«Le stesse identificazioni simboliche si sono spostate. Sembrerebbe che a tutti sia richiesto di inventare nuove forme di trasmissione, che permettano di scrollarsi di dosso le costrizioni immaginarie che fanno dire a certi ‘Beurs’ di Bruxelles di essere ‘Maroxellois’, mentre rifiutano e rivendicano appassionatamente il loro status di Belgi» [21].
Ne va da sé che, per affrontare lo scacco della trasmissione, «il cammino verso questa libertà interiore sarà lungo e complesso, e il prezzo da pagare sarà commisurato alla presa che i resti di un’eredità non assunta, prodotta da un passato non del tutto superato, esercitano sul soggetto» [22]. Il cammino di individuazione non si configura forse come una riappropriazione che paralizza rivelando «[…] una storia impossibile da trasmettere, impossibile da ascoltare, impossibile da capire?» [23]. L’impresa nasce da un’esigenza che ci chiama dal silenzio e
«Tutto sommato, se tramandare una tradizione, una storia, appare come una costruzione, è perché il desiderio di assicurare la continuità nella successione delle generazioni è una necessità interna. Tuttavia, accettare le parole e le azioni che trasmettono questa eredità non è certo una manifestazione di passività da parte del bambino, ma piuttosto un atto di riconoscimento della persona che trasmette l’eredità» [24].
Fecondare il proprio silenzio è un atto creativo di rigenerazione e i pericoli occhieggiano lungo il sentiero. Hassoun si domanda: «C’è qualcosa di più ridicolo, di più insopportabile che incontrare dei cloni che, come ombre, si prendono gioco dei loro genitori o dei loro antenati con la massima serietà?» [25]. Una ripetizione feconda si misura dialetticamente con i singoli presenti nei quali si inscrive, una rinascita che getta un ponte sulla discontinuità, ma
«[…] quanto più la trasmissione tiene conto della nuova situazione, tanto meno sarà una pura e semplice trasposizione del passato, e tanto più sarà in grado di iscrivere il soggetto in una genealogia del vivente capace di compiere un viaggio non circolare intorno a un’enclave pietrificata, ma un viaggio capace di creare un campo diffuso, un delta dove culture eterogenee si articolano e si vivificano reciprocamente» [26].
Questa operazione si sostanzia nel campo della cultura, non della mera biologia e significa fornire strumenti per proseguire sulle orme paterne dove il padre «[…] sarebbe quindi colui che, per tramandare, si separa dal figlio, creando la giusta distanza che non esclude né il conflitto né la sofferenza, ma che permette che la trasmissione avvenga» [27] e in questa prospettiva è lecito affermare che «[…] la trasmissione è come la creazione di un’opera d’arte con quelle piccole imperfezioni, quei lievi spostamenti che fanno sì che ognuno possa riconoscere in questo tesoro il segno di ciò che è stato ripensato a ogni generazione» [28]. Hassoun, in questa considerazione sull’imperfezione come traccia di un ripensamento, rileva acutamente la vicinanza fra tradizione e tradimento che delinea il crinale fra la costruzione di un soggetto etico e la riappropriazione identitaria violenta. L’individualità uscirà rafforzata e attivamente consapevole di sé perché
«la trasmissione inerte, la ripetizione, è il più delle volte una narrazione senza finzione, la trasmissione reintroduce la finzione e permette a ogni generazione, a partire dal testo originale, di introdurre tutte le variazioni che le permetteranno di riconoscere in ciò che ha ereditato, non un deposito sacro e inalienabile, ma una melodia propria» [29].
Rileggendo il freudiano Wo es war, soll ich werden è l’essere dove si era a donare il senso, la speranza del futuro. Oblio, rammemorazione, consapevolezza, dinamica del nuovo e del vecchio si intrecciano nel percorso esilico. L’Esodo (Šǝmôt, in ebraico, letteralmente ‘I nomi’) si apre con i nomi dei figli di Giacobbe e al versetto 8 recita: «wayyāqom melek-ḥādāš ʿal-miṣrāyim, ʾašer lōʾ-yādaʿ ʾet-yôsēf» («Allora si elevò sull’Egitto un nuovo re che non aveva conosciuto Giuseppe»)[30]. La dinamica del passaggio fra le generazioni è strutturata fra conoscenza e oblio e apre lo spazio alla violenza politica. Ricordare e mantenere la memoria è un’operazione attiva e creativa dove ricordare non equivale a «non dimenticare», ma è atto di conoscenza, imperativo etico. Il Faraone non aveva conosciuto Giuseppe e aveva obliato l’individualità dei nomi che ci inscrivono nella storia. La città in cui impegna gli ebrei resi schiavi si chiama pitōm che i maestri dell’esegesi rabbinica leggono come pi-tōm, la bocca del nulla, a significarne la dimensione annichilente [31]. La libertà è libertà di ricordare senza pietrificare la memoria in idoli: fuga dall’Egitto e dall’Egitto interiore. La crisi attuale è di trasmissione. Le scienze umane sono minacciate, la psicoanalisi sotto attacco.
Rileggere Les contrebandiers de la mémoire rivela il malessere della nostra civiltà. Oggi gestiamo flussi: giovani, turisti, denaro. Rischiamo di perdere la nostra unicità. L’orda incombe, rafforzata dai flussi omicidi. Nelle periferie non c’è doppia appartenenza, ma doppio vagabondaggio. La ‘delocalizzazione’ dilaga oltre l’industria. Managers ignari governano luoghi sconosciuti, diluendo responsabilità. Il mercato fluttua, privilegiando profitto su piacere come sintetizza Christine Goémé [32]. In Les contrebandiers de la mémoire, Hassoun offre una meditazione profondamente personale e filosofica sulla natura della memoria, dell’esilio e dell’identità. Attraverso l’esplorazione dell’esperienza diasporica alla quale la sua esperienza di un ebraismo radicato e al tempo stesso minacciato contribuiscono in maniera essenziale, egli getta luce sulla più ampia condizione umana dello spostamento e sulle lotte per preservare la memoria di fronte alla perdita.
Il libro è un forte richiamo all’importanza della memoria come forma di resistenza e sopravvivenza e alla necessità di affrontare e trasmettere le storie delle comunità emarginate o sfollate. È anche un invito a riconoscere le possibilità creative che possono emergere dalle intersezioni di culture e storie diverse. Hassoun ci dice: serve coraggio per ereditare. Tutte le eredità sono pesanti, ma accettarle è necessario per inventare se stessi e la propria libertà. Da una prospettiva diversa, ma altrettanto radicata nell’ebraismo, Levinas in limine a Totalità e infinito pone il dilemma fra essere soggetti etici o vittime della morale [33]. Essere soggetti liberi è sempre più proibito. Lasciamo la chiusura alle parole stesse di Hassoun che, intrise di poesia, rimandano al proprio vissuto:
«E, mentre scrivo queste righe, mi torna improvvisamente in mente un dettaglio completamente dimenticato. Il mio nonno materno (Jacques Nada) era l’unico dei miei antenati ad essere un laico la cui irreligione di fondo era notevole. Membro del movimento dei Giovani Turchi, era un fervente sostenitore dell’unità del Mediterraneo orientale sotto la guida di un Impero ottomano democratizzato. Queste immagini e questi pensieri obsoleti non hanno forse accompagnato involontariamente la scrittura di queste righe? Non sono lontano dal crederlo» [34].
Questo libro è uno strumento prezioso di resistenza e contrabbando da meditare per il futuro.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] J. Hassoun, Alexandrie et autres récits, L’Harmattan, Paris 2001: 9: «Solo un pensiero che faccia riferimento al bianco o al nero, al più e al meno, un pensiero centrato sull’aut-aut, tragico velo distruttivo e profondamente malinconico, potrà immaginarsi come un pensiero dominato dalla dimensione univoca dell’alternativa». D’ora in poi le traduzioni dei testi sono a cura dell’autore del presente articolo.
[2] D. Bensaïd, Jacques Hassoun, le sage engagé in Jacques Hassoun… de mémoir, Actualité de la transmission, Éditions érès, Toulouse 2010: 188.
[3] J. Hassoun, Les contrebandiers de la mémoire, Éditions érès, Toulouse 1994.
[4] Cfr. J. Beinin, The Dispersion of the Egyptian Jewry, University of California Press, Berkeley 1998: 163-165.
[5] Alexandrie et autres récits: 12. Così l’autore stesso si firma in questo testo dopo il suo nome francese. Non lo abbiamo traslitterato scientificamente per mantenere, con la grafia francese, la riproduzione fonetica del dialetto egiziano che sicuramente risuonava nella pronuncia dell’autore e che in questo testo ha voluto preservare non senza ironia facendolo precedere da «dit aussi».
[6] Partito politico israeliano sorto all’epoca delle Palestina mandataria, d’ideologia marxista, attivo fino alla seconda metà degli anni Novanta in Israele e confluito in Meretz fondato nel 1992.
[7] The Dispersion of the Egyptian Jewry: 163.
[8] Le attività, iniziative e pubblicazioni dell’associazione, compresi molti numeri di Nahar Misraïm, sono consultabili alla pagina https://www.aspcje.fr
[9] J. Hassoun, Juifs du Nil, Le Sycomore, Paris 1981.
[10] J. Hassoun, Histoire des juifs du Nil, Minerve, Paris 1990.
[11] J. Hassoun (ed.), Juifs d’Egypte: Images et textes, Editions du Scribe, Paris 1984.
[12] J. Hassoun, L’Exile de la langue, Éd. Point Hors-Ligne, Paris 1993.
[13] J. Hassoun, La Cruauté mélancolique, Aubier, Paris 1995.
[14] J. Hassoun, L’Obscur objet de la haine, Aubier, Paris 1997.
[15] Les contrebandiers de la mémoire: 22-25.
[16] Ivi : 16.
[17] Ivi : 46.
[18] Ivi : 41.
[19] Ivi : 44.
[20] Ivi : 54.
[21] Les contrebandiers de la mémoire: 58. Beurs è un termine gergale dello slang della sottocultura urbana francese chiamato Verlan; consiste nel creare delle nuove parole invertendone le sillabe e, nel caso serva, applicando l’apocope o l’aferesi. La stessa definizione di Verlan deriva dalla verlanisation di l’envers, quindi vers-l’en e infine Verlan. Beurs è la verlanisation di Arabes. Maroxellois è una contrazione di Marocains e Bruxellois.
[22] Les contrebandiers de la mémoire: 59.
[23] Ivi :76.
[24] Ivi : 77.
[25] Ivi : 78.
[26] Ivi : 81.
[27] Ivi : 93.
[28] Ivi : 94.
[29] Ivi : 96.
[30] Es1,8 (cfr. Bibbia ebraica a cura di D. Disegni, Giuntina, Firenze 2005: 92).
[31] Cfr. a tale proposito R. Draï, La sortie d’Égypte. L’invention de la liberté, Fayard, Paris 1986: 53-81.
[32] C. Goémé, L’infaticable contrebandier in Jacques Hassoun, le sage engagé: 25-27.
[33] E. Levinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1990: 19.
[34] Les contrebandiers de la mémoire: 98.
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Alessandro Perduca è un anglista e germanista di formazione, con esperienza universitaria di insegnamento e ricerca. Si è occupato di letteratura inglese premoderna, moderna e contemporanea in diversi interventi e articoli. Si interessa di storia delle idee in chiave comparatistica e interculturale. Ha all’attivo contributi e studi su Shakespeare, la poesia romantica, Conrad, Auden e Heaney, oltre a numerose traduzioni. Ha tradotto Le ali spezzate di Kahlil Gibran per le Edizioni San Paolo e pubblicistica in lingua tedesca nel campo della teologia e delle scienze dell’antichità. Docente di lingua e cultura inglese nella scuola secondaria, lavora attualmente presso il liceo classico statale “Salvatore Quasimodo” di Magenta (MI).
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