di Francesco Azzarello
Il 2024, anno in cui il pittore tedesco avrebbe compiuto 250 anni, sta per volgere al termine. Il 5 gennaio del 2025 si chiuderà anche la mostra di Dresda (terza dopo Amburgo e Berlino) dedicatagli. Naturale che il numero di pubblicazioni relative alla sua persona e alla sua opera si siano moltiplicate. Mi sembra dunque opportuno:
(1-2) presentare brevemente le posizioni ermeneutiche più importanti riguardo a tutta la sua produzione (selezionando quelle che hanno maggiore attinenza al tema che ho scelto);
(3) esaminare in particolare il contributo di Werner Busch, che nella sua interpretazione dell’opera di Friedrich insiste sugli aspetti tanto matematici che religiosi della produzione del pittore, conferendo molta importanza al ruolo della teologia di Friedich Schleiermacher per la comprensione della stessa;
(4) affrontare, quindi, direttamente la questione della spiritualità di Friedrich (termine che preferisco a teologia o religione, per la sua minore connotazione confessionale e simbolica [1]) così come è stata elaborata dagli interpreti più importanti, valutando la portata dell’influenza di Schleiermacher e considerandone sia gli aspetti più aderenti all’ortodossia che quelli più innovativi o critici di questo ambito simbolico.
Legittimo chiedersi a che pro presentare quel che, in fondo, è un dibattito fra eruditi (le erudite che vi partecipano, tutte tranne una, non hanno ancora fatto scuola). Non certo per proporre una teoria rivoluzionaria o alternativa (non ne ho. Mi limito a fare qualche osservazione) ma forse presentare criticamente questo dibattito intorno alla spiritualità e all’opera dell’artista può essere utile a chi oggi desiderasse interrogarsi serenamente intorno al ruolo e al potenziale simbolico delle religioni tradizionali nel nuovo paradigma postreligioso, agnostico e postteista che (a tratti) caratterizza il nostro tempo e lo spazio in cui viviamo (l’Occidente).
1. Chi ha detto cosa e perché intorno all’opera di Friedrich: posizioni essenziali rispetto al tema dell’articolo
Nel 1995 Werner Busch sintetizzava la discussione in questi termini. Il catalogo delle opere del grande pittore, pubblicato nel 1973 a opera di Helmut Börsch-Supan e Karl-Wilhelm Jähnig (completato poi nel 2011 da quello di Christina Grummt dedicato ai soli disegni dell’artista) aveva segnato sia l’inizio che l’oggetto del dibattito. Börsch-Supan, infatti, aveva stabilito una sorta di catalogo di significati fissi per l’opera di Friedrich: a un oggetto figurato (Bildgegenstand) corrisponderebbe (nelle intenzioni dell’artista) un significato di carattere quasi esclusivamente religioso. Se in tele come Morgen in Riesengebirge (Mattino nel Riesengebirge) (Börsch-Supan 1973: 90) con la croce che contiene, questo procedere ermeneutico risulta evidente.
Meno ovvia, a prima vista, appare in Zwei Männer am Meer bei Mondaufgang (Due uomini in riva al mare al sorgere della luna) l’interpretazione della luna come Chrystussymbol (ovv. simbolo di Cristo) (Börsch-Supan 1973: 98).
Börsch-Supan basava le sue interpretazioni sulle (co)ricorrenze di diversi oggetti o caratteristiche (colori inclusi) nell’opera di Friedrich (la luna p.e. ricorre spesso insieme alla croce) e sui testi prodotti dallo stesso artista, procedimento che gli permetteva di identificare grosso modo nella fede religiosa (luterana) dell’artista la chiave di accesso a tutta la sua opera [2]. Ma questa scelta ermeneutica era veramente l’unica possibile? Possibile che il rosso, il blu e il verde dei vestiti delle figure (e i loro riflessi sul mare) in Kreidefelsen auf Rügen (Le bianche scogliere di Rügen) non possano che (anzi debbano) corrispondere alle tre virtù teologali Amore/Carità, Fede e Speranza e soltanto a loro?
Le reazioni non si fecero attendere. Già nel 1974 Werner Hoffmann, con la mostra organizzata ad Amburgo, senza sognarsi di negare validità ermeneutica alla dimensione religiosa nell’opera di Friedrich ma riportando l’artista in dialogo con il contesto del primo romanticismo (Schlegel, Novalis, Tieck [3]) affermava che la caratteristica più importante dell’opera di Friedrich fosse l’apertura semantica. Si tratterebbe insomma in Friedrich non tanto di mandare messaggi cifrati di ordine religioso tradizionale (decodificabili a partire da un registro di corrispondenze fisse di simboli o segni dal significato rigido) ma di aprire spazi semantici in cui lo spettatore può e deve muoversi con una certa libertà ermeneutica. Niente allegorie dunque in Friedrich. Al massimo metafore.
Contemporaneamente (il 1968 era appena passato), dall’ovest democratico all’est comunista (con le mostre di Dresda e Leipzig concorrenti di quella di Amburgo del 1974) si era fatta registrare in Germania anche un’altra lettura dell’opera di Friedrich, simile a quella di Börsch-Supan. Simile perché anche lei univoca, salvo che il principio ermeneutico cardine in questo caso non era religioso (come in Börsch-Supan) ma politico: la lotta per la libertà [4], testimoniata tanto dalle opere che dalla vita e dagli scritti dell’artista. Al riguardo Busch osserva polemicamente che di fronte alla malinconia (spesso autobiografica) e alla calma placida di molte opere di Friedrich (p.e. Dorflandschaft im Morgenbeleuchtung
ovvero Paesaggio rurale al mattino) risulta difficile immaginare un Friedrich violento che [5], per patriota e liberale che sia, combatte per la libertà con ogni singola pennellata.
Allo stesso modo, prosegue Busch, postulare un Friedrich religiosamente ortodosso o totalmente vago o aperto (nel senso di Umberto Eco) – oggi diremmo, pensando all’artista più che alla sua opera, relativista – intriso in maniera abbastanza casuale di citazioni del primo romanticismo appare francamente improbabile.
2. Un primo bilancio
A sicura distanza ormai dal dibattito storico è facile oggi rendersi conto che le tre letture pesavano evidentemente in modo diverso vuoi l’opera (l’analisi di Börsch-Supan, per bislacche che suonino certe interpretazioni, è metodologicamente solida), vuoi il contesto funzionale (l’opera d’arte è sempre intertestuale e aperta), vuoi la vita dell’artista (blandamente ma chiaramente perseguitato durante la Restaurazione) e restano dunque tutte e tre chiarificatrici in molti casi concreti ma mistificanti quando si spingono a innalzare il proprio metro di giudizio a principio ermeneutico fondamentale.
Friedrich insomma non è stato soltanto un pittore religioso, filosoficamente e biograficamente inquieto e politicamente attivo ma tutto questo insieme (e a fasi alterne di intensità) anche perché – per tornare a Busch – dopo il fallimento (Scheitern) della Rivoluzione francese tutte le certezze semantiche (le ideologie tradizionali e non) risultavano sostanzialmente sospette, come monete ancora in circolo ma del cui valore si dubita, tanto da doverne verificare la qualità con un’operazione che può risultare ributtante ma che resta comunque necessaria: saggiarne la consistenza (ovvero la pregnanza filosofica) con i propri denti…[6] . E poi, continua giustamente Busch, se il senso della libertà di Friedrich aveva certamente natura e articolazione politica, l’origine e connotazione di quello stesso concetto (nonché l’elaborazione dello stesso nell’opera di Friedrich) restavano chiaramente religiose. Infine: come la fede in un’ortodossia religiosa (e con lei un’interpretazione univoca delle opere dell’artista) poteva apparire all’epoca di Friedrich intellettualmente sospetta [7], prosegue sempre Busch, l’era napoleonica e la Restaurazione, in campo politico, non permettevano né a Friedrich né ai suoi sodali particolare ottimismo (anzi: lo proibivano) [8].
Come stanno adesso le cose? Il dibattito è ancora vivo e aperto e forse, come osserva, prudente e conciliante, Johannes Grave (2022b: 24-30), vista la complessità del discorso – i cui toni tendono a radicalizzare certe opzioni ermeneutiche fino a creare false alternative, come quella fra apertura o chiusura di significato nelle opere dell’artista, nonché una forma di cecità ermeneutica nei confronti del buon senso e dell’efficacia delle teorie altrui – le opere di Friedrich, ancor prima di veicolare messaggi religiosi, politici o autobiografici, testimoniano di una lunga e meditata riflessione intorno al vedere e all’essenza delle immagini. Le sue opere non illustrerebbero dunque, continua Grave, pensieri (Gedanke) ma trasporterebbero chi le contempla in una forma pura (genuin) di pensiero per immagini [9]. Per interpretare Friedrich bisogna insomma, prosegue Grave, saper esercitare una visione degna della sfida qualitativa ed evocativa delle immagini stesse. Visione che non sfugge al paradosso giacché il fascino esercitato su spettatori e spettatrici ha qualcosa di immediato e forte nella sua presa (come dimostra il grande successo di Friedrich [10]), ma rispetto al suo contenuto resta sempre enigmatico.
Che cosa sarà mai una visione degna della sfida qualitativa ed evocativa delle immagini stesse? Personalmente ritengo che quando si parla di arte (quando se ne parla, non quando la si consuma p.e. per ragioni autoterapeutiche, situazione in cui ognuno di noi ha ragione di sentirsi più libero o libera che può), per dirla con Umberto Eco: il problema è solo quello di non fare illazioni ridicole, cioè saper dare a chi ce le chiede ragioni plausibili delle nostre opinioni) e non vedo perché si dovrebbe trattare il caso di Friedrich in altro modo [11]. Oltre a una sana disciplina mentale fatta tanto di rigore metodologico personale che di tolleranza ermeneutica nei confronti degli e delle altre (non di tutte le loro ragioni o tutti i loro giudizi), non è che per fruire l’opera di Friedrich ci voglia chissà quale conoscenza esoterica. Tuttavia alcune indicazioni non proprio di dominio comune possono contribuire a renderne la ricezione più fondata, profonda e proficua (al di là della sfera individuale-terapeutica).
3. Werner Busch: Caspar David Friedrich (e Friedrich Schleiermacher) fra matematica e religione
A questo proposito Werner Busch (2003) [12], insistendo sulla composizione geometrica delle opere come base e come limite di ogni interpretazione simbolica, allegorica o metaforica, ha dato un contributo decisivo. La sua analisi delle opere di Friedrich, nel contesto della matematica romantica, rafforza l’ipotesi della loro indeterminatezza semantica (senza sconfinare nella libera associazione), conferma la centralità del principio di osservazione della natura e della religione nella poetica dell’artista, e conferisce all’estetica un doppio ruolo al suo interno: quello di trasmettere il messaggio in modo chiaro, coerente e accattivante e quello di generare significati (senza negare il ruolo dei simboli). L’estetica servirebbe in Friedrich insomma a limitare l’apertura di significato, come il prodursi del sintagma (strutturalisticamente parlando) limita le potenzialità del paradigma, ma un po’ più decisamente che nella norma di ogni operazione semiotica.
In sostanza Friedrich avrebbe prima osservato la natura e quindi introdotto gli oggetti naturali osservati in uno schema geometrico capace di strutturare la superficie della tela in vista di un messaggio preciso da veicolare, assicurandosi attraverso l’uso di uno schema meticolosamente preparato a livello dell’espressione la trasmissione (se non precisa almeno intuitivamente approssimativa) del contenuto [13]. Questa sorta di schema compositivo combinava tanto l’interazione della proporzione aurea (verticale e orizzontale) con la linea dell’orizzonte (confine fra il finito e l’infinito) che l’uso di figure geometriche più complesse (p.e. l’iperbole), capaci sia di generare un’illusione di tridimensionalità che di veicolare messaggi molto complessi e non immediatemente accessibili al pubblico (parzialmente o interamente). Per dirla con una formula molto amata dagli interpreti di Friedrich (che ammicca a scritti dello stesso artista): interpretare Friedrich significa, dunque, partire da quel che si vede (la composizione geometrica del quadro e i simboli dipinti) per giungere a quel che non si vede. Di seguito alcuni esempi di questo metodo.
Per cominciare: la coppia (pensata probabilmente come tale da Friedrich [14]) Winterlandschaft (Paesaggio invernale) e Winterlandschaft mit Kirche (Paesaggio invernale con chiesa) (c. 1811). Qui la prima tela
Busch (2021) osserva che la desolazione e la disperazione di questo viandante (probabilmente un invalido delle guerre napoleoniche) sperduto nella neve è interrotta soltanto e in misura semiimpercettibile dal cappuccio rosso dell’invalido, situato esattamente sull’orizzontale inferiore rispetto alla proporzione aurea. Come a dire che la prospettiva di salvezza (pressoché nulla) viene solo da lui. A confermare quest’ipotesi interpretativa è la struttura geometrica della seconda tela
Qui è, continua Busch, come se il viandante si fosse trascinato fino al gruppo di abeti e massi sulla destra, lì dove campeggia un crocifisso. Gettate le stampelle, il viandante, invalido e disperato, si mette a pregare. È la fine? Forse sì e forse no: secondo Busch la fede gli regala una visione di speranza (la cattedrale a sinistra). L’unica linea orizzontale visibile sulla neve si trova a destra degli abeti e giunge, non vista, fino alla testa del viandante-orante. In un disegno del 1807 raffigurante un grosso abete molto simile a quello del quadro Friedrich aveva annotato su una linea disposta analogamente a questa la parola “orizzonte”. L’orizzonte marcherebbe il limite fra la vita e la morte, il finito e l’infinito. Secondo Busch Friedrich avrebbe disegnato l’abete nella posizione fisica del viandante riprodotta nel quadro. Friedrich si riconoscerebbe dunque nell’invalido e ne anticiperebbe la fine. L’invalido vedrebbe con i propri occhi fisici dunque abbastanza chiaramente la propria fine ma fisicamente non sarebbe in grado di percepire la cattedrale alle proprie spalle nascosta dalla nebbia (non vista ma evidentemente accessibile: chi guarda il quadro vede persino una strada e una porta). La forma della cattedrale, poi, riprodurrebbe quella dell’abete più grande (l’altezza di entrambi è la stessa). Il tronco dell’abete si trova sulla verticale destra rispetto alla proporzione aurea, mentre la porta che permette di arrivare alla cattedrale si trova sull’orizzontale inferiore. Queste corrispondenze formali permetterebbero di affermare che quel che il viandante vede soltanto con gli occhi della fede (la cattedrale, ovvero la salvezza) corrisponde a quel che vede con gli occhi fisici (ovvero il crocifisso).
Qui un altro esempio, questa volta con una composizione provvista di iperbole. La nota coppia di tele Mönch am Meer (Monaco in riva al mare) e Abtei im Eichwald (Abbazia nel querceto) (c. 1810). L’estrema apertura (anche di senso) della prima tela (a parte la linea dell’orizzonte e la posizione della figura umana sulla verticale mediana non si può dire molto altro a livello geometrico), apertura che cromaticamente trasmette un senso di impotenza e disagio,
è fortemente limitata dalla composizione geometrica e dalla figurazione presente nella seconda tela
Facile percepire nella zona d’ombra l’iperbole, con i due rami divergenti, separati dall’orizzonte (basso) che segna ancora una volta la linea di divisione fra la vita e la morte (c’è una fossa appena scavata in primo piano). L’iperbole ritorna, con identico significato (ma più difficile da percepire immediatamente) in molte tele di Friedrich, p.e.
(Le fasi della vita) (1835), dove il tratto di mare che ne separa i rami potrebbe significare il passaggio dall’uno all’altro, ovvero il ritorno in patria (la Pomerania natale dell’artista apparteneva, alla nascita di Friedrich, alla Svezia per poi passare, ancora in vita dell’artista, alla Prussia), ovvero il viaggio verso il cielo dell’anziano pittore (la figura alta e ieratica di spalle).
O Das Große Gehege (La grande riserva) (1832), dove il rapporto di separazione speculare fra cielo e terra (si notino le mura dietro gli alberi e, idealmente, si alzi lo sguardo) ridà tutta la sgradevolezza fisica (l’inconcludenza di una visione del mondo puramente finita e orizzontale) e tutta la gradevolezza estetica di ciò che è oggetto di promessa (oggetto di Sehnsucht romantica), che, seppure è esprimibile esteticamente, esistenzialmente resta sempre separato dal soggetto.
Busch non manca chiaramente di segnalare l’analogia fra la poetica di Friedrich e le posizioni del teologo (personalmente noto al pittore) Friedrich Schleiermacher. Non solo perché secondo il suo (di Schleiermacher) celebre motto Anschaung und Gefühl (ovvero l’ intuizione e il sentimento) piuttosto che la metafisica o la morale sarebbero la via alla/della religione (e si intuisce l’affinità con Friedrich) ma anche per quanto riguarda il senso profondo della matematica. Schleiermacher, infatti, riteneva che vista la struttura (kantianamente) matematica della mente è possibile (e auspicabile, secondo il teologo) esprimere esteticamente attraverso ciò che si vede religiosamente (ovvero con l’intuizione e il sentimento) un livello della realtà più alto (höhern Realismus), un livello che non si vede ma che è pur sempre reale. Il livello anzi, non esprimibile da alcuna mitologia (compresa quella tradizionale in cui tanto il pittore che il teologo erano stati allevati) ma dall’arte e da cui tutto dipende.
Fa notare Busch che tanto la concezione dell’arte come servizio divino da parte di Friedrich (testimoniata dagli scritti dello stesso pittore) che la sua tendenza a ordinare le sue composizioni verso un solo principio cardine concordano perfettamente con queste idee. Più tecnicamente in dettaglio: Schleiermacher considera p.e. la figura dell’iperbole perfettamente equiparabile alle due strade che l’Antico testamento (p.e. il salmo 1) mette di fronte all’essere umano: l’una (un ramo dell’iperbole) come via il cui fuoco è Dio (e Dio è in Schleiermcher un’idea trascendentale, non necessariamente il Dio concreto di qualcuno), l’altra (l’altro ramo dell’iperbole, separato dal primo, il cui fuoco è l’essere umano stesso) come via di perdizione [15]. In Mondaufgang auf Meer (Luna nascente sul mare, 1822) p.e. il fuoco del ramo “celeste” dell’iperbole è segnalato (se non occupato) dalla luna (e si vede che quel che suonava sorprendente in Börsch-Supan non era poi così tanto fuori dal mondo) mentre la testa della figura maschile (forse il pittore stesso) è, umilmente [16], abbassata rispetto a quelle dei due personaggi femminili (vestiti dei colori che secondo Börsch-Supan corrispondevano alle tre virtù teologali).
4. La spiritualità di Friedrich: non solo Schleiermacher
Ora: ferme restando sia queste indubbie corrispondenze fra le idee di Schleiermacher e le caratteristiche di alcune opere di Friedrich sia la loro chiarissima utilità ermeneutica quando si cerca di interpretarle, è giusto ricordare che la spiritualità di Friedrich non si lascia ridurre alla teologia di Schleiermacher. Schleiermacher non era certo l‘unico teologo o predicatore personalmente noto a Friedrich. Persino Busch, il più chiaro sostenitore della centralità della teologia di Schleiermacher nella poetica del pittore (e quindi, programmaticamente, per un’ermeneutica corrispondente), sente la necessità di menzionare diversi altri teologi-predicatori con cui Friedrich entrò in contatto. Del resto l’esposizione di Friedrich all’universo spirituale e religioso non inizia certo con la teologia di chicchessia né si può limitare a questa forma mediale: Friedrich era un luterano della Pomerania svedese (e per di più un provinciale), allevato nel Pietismo allora già non troppo in voga (con qualche dose di Herrnhutentum [17]). Se è più che sicuro che ascoltò prediche per tutta la vita non lo è per nulla che lesse libri di teologia (almeno non in grande quantità e in modo duraturo e sistematico). Altrettanto sicuramente assorbì sin dall’infanzia sia l’iconografia religiosa delle chiese che frequentava che la devozione casalinga impostagli dal padre, Adolph Gottlob Friedrich. Celebre il ritratto che ne fece il giovane Friedrich mentre sta leggendo la bibbia oltre a quello, sicuramente coevo (1802), (probabilmente) di un’anziana parente intenta (e senza occhiali) nella stessa operazione. In questo secondo ritratto è addirittura possibile leggere a chi lo guarda il versetto 29 di Giovanni 20: Selig sind, die da glauben, ob sie gleich nicht sehen (Beati coloro che credono anche se non vedono) e il verso 10 del Salmo 32: Wer aber auf den Herrn hoffet, der wird Gnade erlangen (Ma chi spera nel Signore, otterrà grazia) [18].
Secondo Grave, con queste (e altre) opere Friedrich avrebbe persino risolto il dilemma iconoclasta che gli poneva la Scrittura: se di Dio non si devono produrre immagini, l’unica immagine religiosa possibile è quella che non si può vedere. Un’immagine religiosa che può (e deve) alludere a Dio, rendendo presente ciò che è assente. Piuttosto che ricorrere a una mimesi realista di quel che si può rappresentare (un paesaggio o una croce) un’immagine religiosa deve manifestare il fatto di non essere che un’immagine, operando in se stessa implicitamente una critica dell’immagine [19].
Numerosi, inoltre, negli scritti privati del pittore i segni di una fede religiosa sostanzialmente ortodossa e tradizionale [20]. Particolarmente importante per la sua poetica (e riconosciuta da tutti gli interpreti) la teologia della croce di Lutero [21]: piuttosto che rivelarsi all’uomo per via analogica o positiva, Dio si rivelerebbe all’essere umano soltanto attraverso la propria assenza, nel paradosso del dolore, nella sofferenza della croce. In Opere come Tetschener Altar (Croce in montagna) o Kreutz an der Ostsee (Croce sul Baltico [22]) la considerazione di questa posizione teologica permette un’interpretazione più ambiziosa della semplice devozione e probabilmente più corretta di quella corrente e un po’ naif che tende a far equivalere nelle intenzioni dell’artista il paesaggio naturale a Dio [23].
Schleiermacher, osserva giustamente Grave, ha ben poco a che vedere con la croce. Nella sua teologia c’è pochissimo spazio per questo genere di simboli (che il teologo avrebbe definito mitologici). E allora chi, se non Schleiermacher, fece conoscere a Friedrich la teologia della croce di Lutero? Difficilissimo affermarlo con certezza ma lo storico dell’arte Grave, con la prudenza del caso (e rimandando a diverse fonti puramente “ambientali” come l’Herrnhutertum), riconosce questo merito a due teologi poco noti (più tradizionalisti che Schleiermacher e, nel caso del primo dei due, persino antiilluministi): Friedrich August Köthe e Johannes Karl Hartwig Schulze, entrambi personalmente noti al pittore (Sylvie Koethe, moglie di Friedrich August, potrebbe addirittura aver commissionato al pittore la tela Kreutz an der Ostsee cioè Croce sul Baltico).
Un terzo teologo, estremamente influente nella vita e nella poetica di Friedrich (e in quella dell’altro grande pittore del primo romanticismo tedesco Philipp Otto Runge), che non avrebbe risposto al nome di Schleiermacher, fu indubbiamente Ludwig Theobul Gotthard Kosegarten [24], noto predicatore (e scrittore) attivo a Rügen (e noto personalmente all’artista). Thomas Noll (2006: 47-62) non è l’unico a supporre che la cosiddetta Physikotheologie protestante (a partire da Lutero e passando per Johann Arndt e Johann Michael Dillherr) sarebbe giunta a Friedrich proprio attraverso Kosegarten. Di che si tratta e perché è importante menzionarla? Si tratta, molto in breve [25], del tentativo moderno di conciliare l’ordine matematico dell’universo newtoniano con l’idea di creazione o almeno di presenza di un principio ordinatore. Dio, secondo Kosegarten, parlerebbe all’umanità attraverso tre vie: la Scrittura, la natura e il destino personale. Questa vena panteista, che risuona in vari scritti privati dell’artista (amante della solitudine permessagli da una natura che studiò e ascoltò tutta la vita) permette, a mio modesto avviso (Noll non si spinge a tanto) di assumere come ipotesi ermeneutica un eventuale sfondo religioso/spirituale negli splendidi paesaggi di Friedrich (anche quando sono privi di croci) [26]. Noll precisa che la differenza fra la Physikotheologie protestante e la cosiddetta Teologia naturalis scolastica è che mentre la seconda attraverso una catena di sillogismi permette di dimostrare l’esistenza e chiarire la natura di Dio a priori, la prima si limita a magnificare l’esistenza e la bellezza delle opere di Dio a posteriori. Il fatto di insistere su una natura naturata piuttosto che su una natura naturans permetterebbe ancora di distinguere la Physikotheologie dal panteismo spinoziano. Noll assume (mi sembra di capire) che tutte queste sottigliezze fossero note a Friedrich, cosa che personalmente non posso né escludere né ammettere ma che trovo comunque poco verosimile: se anche le avesse ascoltate una o più volte dalla bocca di un teologo suppongo che, preso nel suo dialogo con la natura e nei drammi insiti oltre il quotidiano in ogni esistenza, Friedrich le avrebbe presto dimenticate (cf. Börsch-Supan, 2023: 9 s.). Dove invece Noll ha perfettamente ragione è nell’identificare nella pratica (secondo me. Noll pensa più a una sorta di premessa teorica) della Pysikotheologie da parte di Friedrich una dissonanza talmente forte con la teologia di Schleiermacher da (e qui smetto di essere del tutto d’accordo con lui) relativizzare l’intera portata della sua influenza sulla poetica e sulla spiritualità di Friedrich.
Schleiermacher (in Sulla religione. Discorsi a quegli intellettuali che la disprezzano) considerava infatti la natura finita e di conseguenza infantile (kindisch) cercarvi l’Infinito. Molto più interessanti della natura sono per Schleiermacher gli esseri umani nella loro essenza e soprattutto nel loro divenire. In questo senso, secondo Schleiermacher, è la storia (Geschichte) l’oggetto più importante della religione e a manifestarsi dietro la storia non sarebbe il Dio della tradizione biblica ma lo spirito del mondo (Weltgeist) come espressione della totalità, dell’uno e di tutti (Ausdruck des Ganze, des Einen und Allen). A salvarci non sarebbe dunque la croce (con la sua teologia) ma il grande amore eterno e progressivo (das große, immer fortgehende Erlösungswerk der ewigen Liebe) di questo spirito del mondo da cui tutto dipende e a cui tutto va.
Ovviamente anche questa forma di panenteismo viene esclusa da Noll sia come qualità essenziale della teologia di Friedrich che come opzione ermeneutica sensata per chi interpreti la sua opera. A mio modo di vedere, il fatto che la natura avesse meno importanza della storia nella teologia di Schleiermacher, se implica che quando Friedrich ritraeva la natura pensasse più a Kosegarten che a Schleiermacher (e non lo sapremo mai con certezza), certamente non implica che quando Friedrich nel corso della sua vita pensò o dipinse la storia (intesa come divenire individuale e del mondo, in particolare come mortalità, scene cittadine e quadri politici inclusi) non abbia oscillato fra un’incrollabile fede nella Croce di Cristo (e nella filosofia della storia che ne consegue [27]) e un panenteismo di fatto e di buon senso, meno politico-programmatico dell’opzione precedente ma più intriso di una saggezza umana-più-che-umana, che a tratti poteva essere intrisa di serenità e a tratti poteva cadere in una chiara depressione: c’è una bella differenza fra la Stimmung di Lebensstufen e quella del Mare di ghiaccio [28]! Per rimanere in metafora: fra i due rami dell’iperbole, quello umano e quello divino, c’è molto spazio.
Non riesco a immaginare un Friedrich monoliticamente intento a ragionare sempre e soltanto sulla caducità della vita o sulla co-creaturalità/consustanzialità delle cose. Il fatto di essere religioso non lo escludeva dai piaceri e dai dispiaceri della vita secolare e dagli influssi intellettuali del proprio tempo. Molto probabilmente la perduta unità della natura del primo Ottocento non lo gettò in una crisi religiosa ma sicuramente occupò tanto la sua mente che il suo pennello e Nina Amstutz ha dimostrato che i suoi ragionamenti sulla natura non erano soltanto fisico-teologici ma anche intrisi della scienza dell’epoca (2024: 258-263). Come dimostrano ampiamente anche i suoi scritti oltre alle sue opere le guerre napoleoniche o le proprie vicende familiari lo occuparono e lo preoccuparono non poco. Teologia o non teologia, ortodossia confessionale o spiritualità progressista, Friedrich era un essere umano e il fatto di essere un artista (anche religioso) non gli impedì certo di vivere una vita normale, di cambiare e ricambiare idea o di contraddirsi nel corso della propria vita e della propria arte.
Conclusione
Manfred Frank, in una conferenza del 2011 intitolata «Religionslose Kathedrale im ewigen Winter» der Moderne (“Le cattedrali senza religione nell’inverno eterno” della modernità) dedicata fondamentalmente alla pittura del grande artista tedesco, presenta un Friedrich non dico materialista-ateo ma perlomeno critico acerrimo del linguaggio religioso tradizionale ovvero, secondo Frank, dell’ideologia che lo fondava. Frank rileva, giustamente, il rinnovamento del linguaggio religioso artistico da lui operato essenzialmente nell’uso di Friedrich di presentare in molte sue tele monasteri o chiese in rovina. Frank riconduce questa scelta di Friedrich a una presunta volontà da parte del pittore di alludere a una crisi delle ideologie tradizionali [29], crisi che Frank rilegge o ritrova espressa con motivi simili sia in alcun primi romantici che in poeti francesi e inglesi posteriori a Friedrich (Laforgue, Elliot e Michaux) e mentre distingue (sempre Frank), giustamente, fra Primo romanticismo e Idealismo (in particolare per quanto riguarda la cosiddetta Filosofia del soggetto) colloca Friedrich sulla linea postreligiosa/postteista di Schleiermacher. Così che, in chiara polemica con Börsch-Supan (che, ricordo a chi sta leggendo, considera Friedrich un credente ortodosso luterano e la sua pittura essenzialmente allegorica di quella confessione), può affermare che Friedrich (ivi: 132): «In sostanza, è un artista, anzi un pensatore, che tende all’assoluto come a qualcosa tanto ineliminabile che irraggiungibile» (Der Sache nach ist er ein Künstler, ja, auch ein Denker, der das Absolute als ein ebenso Unauffegbares wie Unerreichbares anzielt). Ha ragione Frank? Non mi pare. O almeno non del tutto. Perché? In primo luogo perché anche il Dio di Lutero (mente alla Kreutzestheologie) può corrispondere all’Assoluto che Frank declina attraverso le idee di Schleiermacher e nessuno di noi può sapere se (in qualche momento o per qualche periodo della sua vita) per Friedrich quell’assoluto fosse il Dio di Abramo (come gli diceva la sua eredità culturale) o il Weltgeist di Schleiermacher. In secondo luogo perché, come hanno dimostrato tanto Thomas Noll che Christian Geddens, Friedrich rinnova sì il linguaggio visivo religioso della pittura a olio, ma lo fa trapiantando motivi dell’Emblematica tradizionale luterana dai mezzi di comunicazione e dalle situazioni comunicative in cui questi testi multimediali (fatti cioè di immagini e di parole) comparivano (libri devozionali, medaglie, iconografie funebri) nella pittura a olio [30].
Dai ritratti al famigerato altare di Tetschen fino all’uso dei personaggi di spalle buona parte dell’inventario iconografico di Friedrich proviene da quei testi (per alcune immagini v. Noll 2006: 71-86). Il problema (o la felice novità) è che a differenza degli emblemi cui molti motivi di Friedrich sono ispirati, i quadri dell’artista che contengono questi motivi non sono provvisti delle indicazioni verbali tradizionali che negli emblemi accompagnavano le immagini e che permettevano di rendere il senso dell’immagine il meno ambiguo possibile. Il che vuol dire che in molti quadri di Friedrich quel che è facile accertare a livello dell’espressione (se si vede una croce, una persona, una stella piuttosto che qualcos’altro) non è mai inequivocabilmente o totalmente chiaro e distinto determinare per cosa stia a livello del contenuto. Questo trapianto a metà (perché limitato alle immagini) garantisce dunque alle opere di Friedrich una fondamentale apertura di senso, che ha generato interpretazioni che forse non sempre hanno soddisfatto le aspettative dall’artista, ma che gli garantivano non solo di allargare il proprio pubblico ma anche quella capacità di non mostrare nelle proprie immagini quel che c’era da vedere e tuttavia alludervi, capacità cui (stando a Grave) tanto teneva. Penso che se Friedrich avesse aggiunto indicazioni verbali a quel che dipingeva non si sarebbe sentito un artista ma un illustratore. Di più: mi spingerei a dire che le sue tele, anche quando il loro tema è evidentemente religioso (e persino quando contengono inequivocabili simboli religiosi cristiani, come la croce), ci vogliono liberissimi e liberissime di interpretarle anche in termini non luterani ortodossi o cristiani o credenti (cf. Hofmann 2000: 239 ss.). Ci chiedono (e quasi ci impongono in modo irresistibile) semplicemente di essere spiritualmente attivi, capaci cioè di far risuonare nella nostra interiorità gli stimoli che ci mandano.
Il fatto che Friedrich rinnovi il suo linguaggio partendo dall’iconografia tradizionale luterana non mi sembra, inoltre, implicare che il pittore (che in piena Restaurazione descrisse in una lettera al fratello la propria visione della Chiesa come utopia politica di uguaglianza universale [31]) fosse pessimista rispetto al futuro del Cristianesimo o addirittura che lo rigettasse. Se si considera poi che a quell’epoca per molti borghesi di varie confessioni (molti uomini e pochissime donne) tutte le vecchie ideologie (religione compresa) stavano perdendo di credito, la scelta conservatrice (e fuori moda) di Friedrich non mi pare esattamente un manifesto anticlericale.
Tanto più che, come osserva lo stesso Frank, i veri avversari ideali di Friedrich non erano né i pastori tradizionali luterani né gli intellettuali atei ma i cosiddetti Nazareni, ovvero quel gruppo di pittori di lingua tedesca che riesumarono un linguaggio religioso (essenzialmente rinascimentale-cattolicheggiante), con opere come questa Die Hochzeit zu Kana (Le nozze di Cana, 1819) di Julius Schnorr von Carolsfeld.
Linguaggio che Friedrich condannava senza mezzi termini e che considerava infantile e non al passo coi tempi [32].
La questione se Friedrich credesse in Dio o meno, se fosse teista, panteista o panenteista non mi pare, in conclusione, veramente decisiva nella prospettiva laica e postreligiosa, agnostica e postteista che caratterizza il nostro modo di vivere occidentale. È molto più utile chiederci, casomai, con quanta laicità (ovvero libertà e oggettività) tutti noi ermeneuti (specialisti come quelli che ho presentato e profani come me) abbiamo reagito e reagiamo al suo discorso, nel momento in cui ne emergono sempre più chiare le radici religiose [33]. La sua capacità di usare un linguaggio che sa essere chiaramente religioso (e per di più confessionale-tradizionale) per poi divenire, vuoi sulle tele vuoi nell’animo di chi è disposto a interpretarle, spirituale; questo stile religioso ma non parrocchiale, libero da ogni tipo di proselitismo, vivo e perciò stesso capace di generare un’ermeneutica viva [34], libera e attiva mi sembra costituire l’eredità più feconda e interessante di questo anno di celebrazioni dedicate al pittore. Che una società non più convinta della sensatezza, della fondatezza e della solidità della propria convivenza sia capacissima di farsi raggiungere dalla sua pittura, indica, a mio avviso, che a livello simbolico le eredità confessionali tradizionali, quando – al contrario di molti altri discorsi contemporanei di tutt’altra fattura – non vengono brandite per instaurare gerarchie sociali, produrre superstizione, ignoranza e oscurantismo, possono riuscire a toccare le corde della nostra anima e sono, con ogni evidenza, ancora in grado di dare un contributo serio alla nostra convivenza [35]. Certo: non so quanti di noi (direbbe un mio amico) saranno sufficientemente laici (e laiche) da (accettare) di leggere un libro di teologia.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] V. Al riguardo Cavadi (2021), che presenta in modo, anche bibliograficamente, esaustivo la questione.
[2] Per un’esposizione argomentata e più fine della propria posizione v. lo stesso Börsch-Supan (1973/1980: 7 s.) o (2023: 9 ss.).
[3] In misura maggiore rispetto a quanto già accadeva nel catalogo di Börsch-Supan.
[4] A differenza che per le due prime posizioni, qui mi limito a riportare le opinioni di Busch, non avendo avuto accesso alla letteratura cui lo stesso Busch si rifà.
[5] Spero, in altra sede, di affrontare il trattamento della violenza e della guerra nell’opera di Friedrich. In questo articolo non ne avrei lo spazio.
[6] Polemico sul punto Bach (2023: 17 s.) che piuttosto che di un fallimento della Rivoluzione francese preferisce parlare di “risultati ambigui” (al sing. in tedesco: ambivalentes Ergebnis), cui sarebbero legate le posizioni del primo romanticismo e in ogni caso, secondo Bach, Busch sbaglia a enfatizzare il legame dei primi romantici con la Rivoluzione francese trascurando invece quello secondo lui più forte con il dibattito etico del tardo illuminismo (Ethikdebatte der Spätaufklärung). Secondo Bach Busch avrebbe ragione a parlare della diffidenza semantica dei primi romantici verso le proposte ideologiche ma ancora una volta questa non si dovrebbe tanto al fallimento della Rivoluzione francese quanto alla forte confusione politico-linguistica (politische Sprachverwirrung) tipica di quel tempo tumultuoso, confusione che spingerà il primo romanticismo a cercare, in ambito artistico, una nuova “lingua di simboli ed immagini” (Bilder- und Symbolsprache) e a proporla come forma alternativa di comunicazione veridica (alternative Form einer auf Wahrhaftigkeit zielenden Kommunikation).
[7] Riprenderò il tema più avanti, rispetto a Friedrich stesso.
[8] Si chiede quindi Busch: come e dove trovare, allora, nelle opere di Friedrich una matrice obiettiva di generazione del significato (Bedeutungsgenerierung), un principio ermeneutico oggettivo perché morfologicamente inoppugnabile, non motivato ideologicamente? Busch elenca 4 ulteriori contributi che hanno provato a rispondere efficacemente a questa domanda. Il primo è di Werner Hoffmann (2000). Il secondo è dello stesso Busch (2003). Il terzo è di Hilmar Frank (2004). Il quarto è di Johannes Grave (2012). Non ritengo essenziale per il prosieguo del mio articolo riassumere i dettagli di tutti e quattro, ma solo di quelli più direttamente legati al tema dell’articolo. Delle posizioni di Busch (2003) e Grave (2012) dirò nel secondo paragrafo di questo articolo. Chi volesse saperne di più di Hofmann (2000) e Frank (2004) può consultare lo stesso Busch (2021). Aggiungo inoltre, per completezza bibliografica, che, come successe anche a Nietzsche, neanche Friedrich fu risparmiato dalla maldestra voracità culturale del Nazionalsocialismo, a caccia di improbabili padri fondatori e numi tutelari. Lo studioso che si prestò al gioco fu, per quanto riguarda Friedrich, Kurt Karl Eberlein. V. al riguardo Börsch-Supan (2023: 15 ss.) che riassume anche molto bene la ricezione di Friedrich fra la Seconda guerra mondiale e gli anni ’70 del secolo scorso.
[9] Cf. n. 6.
[10] V. l’articolo a mio nome in bibliografia.
[11] Lo stesso Grave, in altri contesti (2022a), si fa promotore di una grande democrazia ermeneutica. Ne ho esposto la natura e dato un esempio nell’articolo a mio nome in bibliografia.
[12] V. n. 8.
[13] È ovvio che seppure Friedrich era assai verosimilmente cosciente di questa sorta di grammatica personale (come dimostrerebbe, fra l’altro, il personaggio Kaspar —presunto alterego di Friedrich- nel romanzo Erwin von Steinbach oder Geist der Deutschen Baukunst dell’amico di Friedrich Theodor Schwarz pubblicato nel 1834 con lo pseudonimo di Theodor Melas, v. al riguardo Busch (2021) non è detto che avesse sempre del tutto chiaro il contenuto che voleva trasmettere.
[14] V. Grave (2022b: 150).
[15] Vari scritti di Friedrich corrispondono a questo modo… binario di intendere l’esistenza e Busch non manca di segnalarli in tutti i suoi scritti. Sono talmente noti e stracciati nella letteratura che non mi pare necessario gravare ulteriormente chi legge con testi che probabilmente non avrà mai il tempo di conoscere nella loro integralità.
[16] L’attesa umile e fiduciosa del credente (passività interrotta solo dall’intuizione religiosa, che non conosce né pensiero né azione) è un altro punto in comune fra il teologo e il pittore, testimoniato dagli scritti di entrambi, anche se va detto che gli scritti del teologo sono opere, meditate e pensate per essere pubblicate, di un intellettuale professionista. Nell’altro caso si tratta di appunti (o lettere) private di un’artista che, seppur chiaramente religioso, non aveva mai studiato teologia né era del tutto sicuro dell’ortografia o della grammatica tedesca, come testimoniano i frequenti errori.
[17] Il pietismo è una forma di luteranesimo (caratterizzata fra molto altro da devozione, studio e interiorizzazione), particolarmente seguita nel nordest tedesco e in Scandinavia, fra la fine del Seicento e l’inizio dell’Ottocento (epoca in cui cominciò ad essere considerata un po’ antiquata). Per Herrnhuntentum si intende un movimento sviluppatosi all’interno del pietismo luterano, dalla forte vocazione missionaria e solidale, centrato sulla croce. Lo stesso Schleiermacher fu cresciuto all’interno di questa corrente (dalla quale, giovane adulto, si dissociò). Per saperne di più si possono consultare Sauder (1993 / 2006 / 2009: 291-4) , Motel (1993 / 2006 / 2009: 722) e Günther (1993 / 2006 / 2009: 26).
[18] V. Richter (2024: 118 s.).
[19] Trovo questo aspetto della poetica di Friedrich sostanzialmente affine al modo di trattare le immagini nella cultura islamica (v. Curatola 2019).
[20] Né lo stesso Bush (2021), cui rimando, dimentica di menzionare questi dati.
[21] Merito di Grave (2012) aver messo in luce questo aspetto.
[22] Su quest’opera v. Busch (2023).
[23] Cf. a proposito di quest’opera il concetto, per nulla banale, di iconizzazione del paesaggio in Hofmann (2000: 46 s.)
[24] Una poesia del teologo potrebbe aver ispirato il motivo ricorrente nella sua opera dei cosiddetti Dolmen (V. p.e. Hünengrab im Schnee cioè Dolmen nella neve, c. 1807). Kosegarten lo avvicinò, fra l’altro, al pensiero di Herder e di Schelling.
[25] Per un’esposizione esaustiva, che colloca questa teologia all’interno dell’intera storia teologica occidentale (da Socrate a Darwin, passando per Tommaso D’Aquino e Kant) v. Busche (1993 / 2006 / 2009: 275.).
[26] V. p.e Noll (2006: 57) o Busch (2009: 186) ma si tratta di testi estremamente noti che rimbalzano abbastanza furiosamente per tutta la letteratura secondaria.
[27] V. Scholl (2023: 231-7).
[28] Mi permetto, per Eismeer, di rimandare ancora una volta al mio articolo in bibliografia.
[29] Il tema delle architetture in rovina è trattato con attenzione (e conclusioni diametralmente opposte a quelle di Frank) da Hofmann (1974: 60-3).
[30] Sull’Emblematica v. Peil (1993 / 1996 / 2009: 622).
[31] V. sul punto Birkholz (2024: 251). Ancora: non che la cosa sia di per sé molto importante (al massimo è una questione di metodo) ma faccio notare che per ogni architettura religiosa in rovina ce n’è almeno un’altra in perfetto stato nella produzione di Friedrich (e spesso in tele patriottiche). La maggior parte degli interpreti vede in queste architetture in rovina non la rappresentazione di una crisi del Luteranesimo, casomai della crisi del Cattolicesimo che portò alla Riforma. Il che non costituisce esattamente una novità nel mondo luterano.
[32] V. lo scritto di Friedrich cit. in Frank (2011: 118 s.).
[33] Cosa tutt’altro che scontata, come dimostrano alcuni momenti della discussione scientifica che ho cercato di riassumere e, notoriamente, il rigetto che provò Goethe dopo un’iniziale entusiasmo verso l’opera di Friedrich.
[34] Libera anche di esprimere rigetto nei confronti di una o di un’altra tela, talmente confessionale da risultare estranea al proprio sentire, ma almeno disposta ad ammettere che questo rigetto corrisponde a una propria incapacità ermeneutica piuttosto che alla radicale stupidità di quanto ha sotto gli occhi.
[35] Cf. Frank (2011: 117 s.).
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Francesco Azzarello, è stato segretario della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”, ha partecipato a varie attività antimafia collaborando con diverse associazioni palermitane. In Germania dal 1997, ha studiato Filologia romanza e Filosofia a Colonia. Dal 2003 insegna Filologia romanza a Friburgo. Oltre alle pubblicazioni accademiche in linguistica, letteratura e storia della cultura ha scritto di mafia, filosofia, teologia interreligiosa e altro. Dal 2015, con alcuni amici, accompagna diverse famiglie di profughi nel percorso di integrazione in Germania.
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