di Clara Campagnolo
Ce ne sont pas des aiguilles à tricoter
Il ticchettio dei ferri che sbattevano l’uno sull’altro, separati solo da quell’intreccio di filati di lana o di sintetico, era un vero e proprio rito che scandiva le giornate della mia infanzia. Mia nonna, appena aveva finito di lavare i piatti, aspettava pazientemente la puntata della sua serie televisiva preferita, sempre alla stessa ora, tutti i giorni feriali della settimana.
Ho spesso pensato che non potesse che essere quello il momento che segnava la distanza fra una dimensione e l’altra, una sorta di fase liminale fissata tra il tempo della scuola (la mattina) e il tempo dello studio, della merenda e dei giochi (il pomeriggio); il momento in cui mia nonna, aspettando la fine del telegiornale e della successiva pubblicità, raggruppava diligentemente tutto l’occorrente per “fare a maglia”. Prendeva misure, inforcava gli occhiali e mi ordinava con gentilezza, ma perentoria, di inserire l’estremo di un filo all’interno dell’ago. Ancora oggi mia madre – durante i pranzi con parenti – nostalgicamente ricorda di come le canottiere di lana l’abbiano protetta dal freddo invernale, quando era bambina e non c’erano i riscaldamenti in casa, se non la stufa a legna in cucina.
Tutti e tutte, nella mia famiglia, aspettavano il proprio turno nel pretendere un favore dalla nonna: chi chiedeva di rammendare un vestito, chi di stringere pantaloni, chi di aggiustare la cerniera del giubbotto. Quando il lavoro della nonna su un determinato indumento poteva dirsi concluso, un ringraziamento sincero segnava il buonumore sui visi soddisfatti. Presa dalla volontà di regalare a tutti la stessa gioia, al tempo della terza o quarta elementare, presi i ferri preferiti della nonna, quelli color rame, di 5 cm di diametro, e la pregai di insegnarmi almeno a lavorare a maglia. Lei provò a farmi da maestra ma io, cocciuta com’ero, non imparai.
Mia nonna si spense il 13 aprile 2016, e nessuno dei miei e delle mie parenti ha mai voluto sobbarcarsi la responsabilità di buttare via i suoi ferri da maglia. Sono rimasti chiusi in un cassetto della libreria della mia famiglia per molto tempo, fino al 2021. Complice forse il lockdown dovuto al COVID-19, che arrecava noia e richiedeva nuove strategie per ingannare il tempo, ho cominciato a vagliare l’ipotesi di provare nuovamente a imparare come funzionasse il lavoro a maglia. I miei primi tentativi sono stati un fiasco. Dapprima, ho provato a fare una presina, poi una sciarpa, quindi un cappello: i risultati riflettevano il fallimento delle mie iperboliche aspirazioni. Man mano che passava il tempo in cui mi esercitavo, le frasi di nonna mi risuonavano in testa – la più ricorrente: «Sta’ moea!» [1] – e io ho imparato quantomeno a realizzare i cappelli che ho regalato alle mie nipotine e al mio nipotino.
Inizialmente, quando ancora non ero pratica nel lavorare in questa maniera, i miei occhi diventavano lucidi. Impugnare un ferro, accostarlo sul fianco e cominciare a realizzare le maglie mi riportava alla mente un’ondata di ricordi d’infanzia travolgente: l’odore del brodo di carne, durante la malattia; la fragranza profumata appoggiata sul comodino, da cui sottraevo sempre una spruzzata; le canzoni cantate con parole sbagliate e i crudi racconti delle lotte partigiane; le statuette degli animali in vetro con cui giocavo nei giorni di pioggia; l’odore del caffè che aleggiava nella sala da pranzo; i cactus sulla finestra che mio padre regalava a mia madre quando avevano l’età che ho ora; i romanzi rosa sparsi per la camera da letto; il veleno per le formiche accanto alle icone della Vergine; le foto del nonno in Etiopia, durante la guerra, con la sua scimmia sulla spalla; i quadri di natura morta sopra il televisore, che mi sapevano incantare per ore intere; le foto dei figli e dei nipoti sullo scrittoio. Tutte queste immagini, calde e avvolgenti, affioravano al freddo contatto con il ferro da maglia e provocavano nostalgia, melanconia, dolcezza. Tutt’ora, ogni qualvolta io o mio fratello indossiamo i vecchi maglioni fatti da mia nonna, in cuor mio mi chiedo se la storia di quei ferri da maglia – e, quindi, quella di mia nonna – non abbia ancora smesso di essere tramandata.
La vita di una persona è anche la vita degli oggetti che appartengono a quella stessa persona. Agli occhi di chi li osserva o li maneggia, gli oggetti hanno la proprietà di interiorizzare aspetti di chi li ha posseduti, dando la piacevole illusione che conservino una parte di chi li usava, richiamando così alla mente il detentore originario. La costruzione della propria identità trova infatti un’importante forma di manifestazione percepibile negli oggetti d’uso quotidiano, come nel caso di una penna, di un paio di occhiali, di un paio di ferri da maglia, di un profumo: «Paradossalmente, le cose parlano tanto più di noi, di ciò che ci costituisce, quanto più le lasciamo esprimere nel loro linguaggio» (Bodei, 2011: 115). D’altra parte, tanto un oggetto consente di definire l’identità di un individuo, quando ne diventa elemento costitutivo, tanto esso permette di influenzare nel tempo l’associazione fra oggetto e persona – creando quasi un tutt’uno, a livello di identificazione.
Nell’opera L’insostenibile leggerezza dell’essere, Kundera guida il lettore verso il dolore per il lutto del cane appartenente ai protagonisti, chiamato Karenin, attraverso una particolare e toccante immagine:
«Lei si chinò sulla buca e aggiustò il lenzuolo in modo che lo coprisse interamente. [...] Poi rientrò in casa e tornò con il collare, il guinzaglio e la cioccolata che dal mattino era rimasta a terra senza essere stata toccata. Gettò ogni cosa su di lui» (Kundera, 2021: 325).
Il defunto protagonista della frase è certamente Karenin, ma il corredo funebre è quasi parimenti importante: il guinzaglio, il collare e la cioccolata sono elementi che rimandano alla sfera dell’identità di Karenin stesso; sono infatti oggetti che esprimono una profonda densità e che hanno riguardato il cane quando era ancora vivo contribuendo, quindi, a portare un cane generico a essere quel determinato cane, a essere Karenin, colui che ha svolto molte passeggiate con quel collare e quel guinzaglio. Si è considerato il caso di Karenin – il quale, pur non essendo un essere umano possiede comunque una personalità, ampiamente descritta nel libro – come esempio emblematico per enfatizzare la concezione secondo cui gli oggetti, e in particolar modo quelli appartenenti alla sfera del quotidiano, sono elementi costitutivi per l’identità. A supporto di questa tesi, le parole dell’antropologa Silvia Forni appaiono particolarmente rappresentative; infatti, gli oggetti sono in grado di «rendere tangibile identità e appartenenze» (Forni, 2022: 96) [2].
Gli oggetti quotidiani sembrano dunque essere degli elementi fondativi sia dell’identità del singolo, sia intrinsechi nel corpus culturale appartenente a una determinata categoria o a un gruppo sociale. Seguendo queste premesse, si potrebbero dunque avanzare almeno due ipotesi.
Da una parte, vi è l’assunto secondo cui le “cose” della quotidianità si presenterebbero in quanto simboli della quotidianità stessa. L’oggetto, quindi, parrebbe porsi in una sorta di limbo, attraverso un ruolo di mediazione che permette la connessione fra l’ambito dell’individualità e quello della sovra-individualità; come riporta Paul Ricoeur (1979: 99) «La realtà sociale è fondamentalmente simbolica», mentre Nancy Munn (1992: 7) nota che: «Le pratiche attraverso cui le persone costruiscono il loro mondo sociale, e simultaneamente il loro sé e il loro modo di esistere nel mondo, sono pensate come simbolicamente costituite, come pratiche simboliche in sé». Se, dunque, si premette che gli oggetti “quotidiani” siano simboli del quotidiano stesso, e se inoltre si presume che essi siano elementi costitutivi per la formazione di identità, allora gli oggetti si rivelerebbero essere elementi fondamentali della realtà relazionale e sociale. È in questi termini che ha senso parlare di “cultura materiale”, secondo un approccio di tipo induttivo – dal particolare al generale: un singolo oggetto è una piccola parte della realtà sociale in cui è inserito. In questi termini, ciò che appartiene a qualcuno non è in relazione solo con il possessore, ma anche con tutta la realtà sociale attorno a cui la persona che possiede l’oggetto gravita. Le parole di Pier Giorgio Solinas (1989: 6) sembrano validare questa tesi: «L’anima degli oggetti non risiede all’interno del loro corpo, ma all’esterno. È l’azione di cui partecipano ciò che fornisce loro principi di vita». Anche l’antropologo Fabio Dei (2011: 8) riflette sulla valenza della relazione che intercorre fra oggetti e cultura: «La cultura è sempre oggettivata, ma gli oggetti a loro volta sono sempre culturali. Lo studio della cultura materiale dovrebbe esser cauto verso il materialismo non meno che verso l’idealismo».
In estrema sintesi sarebbe dunque corretto affermare che gli oggetti portano con sé aspetti di umanità e aspetti di cultura, in virtù delle loro interrelazioni con i molteplici elementi del contesto socioculturale.
Da ciò consegue la seconda riflessione, ossia quella secondo cui gli oggetti posseggano un valore sociale che “marca” il tempo a cui appartengono. Si prenda il caso descritto nell’introduzione (i ferri da maglia): sebbene oggi, nella cosiddetta “cultura occidentale”, il lavoro a maglia o all’uncinetto siano considerati semplici passatempi o passioni personali, fino alla prima metà del secolo scorso risultava piuttosto difficile trovare donne e ragazze che non fossero avvezze alla pratica in questione. Si può dire che alcuni oggetti possano spingersi dunque a essere identificati come simboli in un’epoca? La risposta sembrerebbe essere positiva, anche se forse non è necessariamente un universale. D’altronde, come evidenziano le parole di Geertz (2019: 118, 119):
«Per quanto riguarda i modelli culturali, cioè i sistemi o i complessi di simboli, il tratto generale che è per noi di maggior importanza qui è che essi sono fonti estrinseche di informazione. Per “estrinseche” intendo solo che […] si trovano in quel mondo intersoggettivo di conoscenze comuni in cui nascono tutti gli individui, in cui essi perseguono le carriere separate e che lasciano così com’è dopo che sono morti».
In quanto simboli, dotandosi di senso ed esercitando una funzione comunicativa e identitaria, possono anche rappresentare un’ideologia che può avere carattere politico. Partendo dalle precedenti premesse, possiamo collocare gli oggetti in un piano “a metà” fra la componente sociale e quella politica. Secondo Remotti, l’idea è «Ciò che, sul piano mentale e in uno specifico ambito culturale, unifica e articola in qualche modo un molteplice» (2022: 89). Viene quindi sottolineato il carattere di molteplicità, in riferimento alle idee; tale carattere – la molteplicità – si potrebbe estendere anche agli oggetti, in relazione al livello di significati che essi possono assumere, in modo medesimo. Per fare un esempio di carica politica trasmessa dagli oggetti, si potrebbe fare riferimento all’esigenza che ne ha lo stesso Stato. Secondo il filosofo Michael Walzer, infatti, esso ha la necessità di essere percepito in termini di simboli condivisi: «Lo Stato è invisibile; deve essere personificato per poter acquistare visibilità, simbolizzato per poter essere amato, immaginato prima di poter essere concepito» (1967: 194).
Volendo riassumere, si potrebbe dire che gli oggetti “del quotidiano” costruiscono identità in veste di simboli. Come tali, essi hanno dimensioni che possono varcare il confine marcato dal perimetro individuale, diventando oggetti sovra-individuali. Poiché la “cultura”, così per come Tylor l’ha definita(cfr. Tylor, 1871), riguarda una vasta gamma di pratiche e abitudini «acquisita dall’uomo in quanto membro di una società», allora è possibile parlare di “cultura materiale” in relazione al valore sociale degli oggetti, i quali possono arrivare talvolta a rimarcare un’ideologia, ad esempio storica o politica, attraverso una «Visione non materialista della materialità» (Dei, Meloni; 2015: 55).
Ciò che si può e ciò che non si può toccare. Ciò che tocca
Remo Bodei si chiede (2011: 22, 23):
«Come si passa dall’indifferenza o dall’ignoranza di qualcosa al pensarlo, percepirlo o immaginarlo come dotato di una pluralità di sensi, capace di emanare da sé i propri significati? [...] Noi investiamo intellettualmente e affettivamente gli oggetti, diamo loro senso e qualità sentimentali, [...] li inquadriamo in sistemi di relazioni, li inseriamo in storie che possiamo ricostruire e che riguardano noi o altri».
Gli oggetti hanno la capacità di riflettere una componente emotiva, la cui carica può essere imponente a tal punto da riuscire a evocare piene sensazioni. È celebre il caso proustiano della madeleine, il quale segna l’esordio dell’opera Alla ricerca del tempo perduto di Proust (1990; edizione originale 1913) l’autore ha un richiamo, involontario, a un momento cristallizzato nella propria memoria al punto da renderlo presente e percepibile. L’aspetto sensoriale è predominante: ciò richiama il concetto di agency, cioè una capacità di azione, che sottintende una “non-passività” nel fare esperienza con gli oggetti, decodificandone i significati percepiti.
Scrive Michael Taussig (2020: 213):
«Mentre riflette sul fatto che le cose potrebbero avere la capacità di conservare la memoria dello sguardo degli uomini, Marcel Proust [...] sottolinea come l’incontro con alcuni oggetti – come la famosa madeleine – che una volta assaporati restituiscono, con un impatto fisico fuori dal comune, la memoria di quell’evento d’infanzia accaduto molto tempo prima, possa essere il frutto di una circostanza fortuita. […] Walter Benjamin [...] sostiene che gli oggetti abbiano effettivamente la capacità di restituire lo sguardo quando interpellati. Definisce questa loro caratteristica aura».
Secondo Forni (2022: 105), per alcuni è «necessario comprendere che gli oggetti, sia pure non dotati di volizione autonoma, possono agire nel mondo stimolando azioni e reazioni emotive». Ne possiamo dedurre che Benjamin e Forni sostengano la teoria secondo gli oggetti posseggano una propria agency, una propria capacità di azione, ma non in modo pienamente indipendente: si tratterebbe, infatti, di una sorta di riflesso, una scintilla che scaturisce attraverso l’interazione con l’oggetto – un’aura. Tale capacità di azione può essere caricata in modi diversi, a seconda della persona con cui entra in relazione. Per un archeologo, per esempio, “interrogare un reperto” – che quasi sempre è di per sé “muto” – vuol dire cercare di interpretarlo, ovvero risalire idealmente al contesto originario e quindi alle pratiche persone di un passato anche molto remoto: questa sorta di aura, per riprendere le parole di Benjamin, è dunque diversa da quella provata da Proust quando sente l’odore della madeleine, proprio perché sono diversi gli attori agenti. A seconda dell’intimità che caratterizza la relazione con un determinato oggetto, si avranno dunque “risposte” differenti da parte dell’oggetto. In una certa misura, è proprio il valore soggettivo di un oggetto a distinguerlo da un’indeterminata “merce”, sempre tenendo a mente l’assunto secondo cui un oggetto può fondare e marcare un’identità.
In qualche modo, il concetto di agency si rende manifesto anche attraverso l’assenza o l’inviolabilità temporanea di un oggetto: durante l’elaborazione di un lutto, per esempio, il vedere qualcosa che precedentemente apparteneva alla persona defunta può portare alla percezione una carica emotiva molto – a volte perfino troppo – forte, tanto da poter parlare di “crisi della presenza”. Ernesto De Martino a questo proposito scrive (2000: 28):
«Gli oggetti che “non stanno in sé”, ma vanno oltre in modo irrelativo, riflettono e denunziano il perdersi della presenza che non riesce ad andar oltre le situazioni, e a gettarle davanti a sé, per entro un determinato valore operativo. Col venir meno della stessa funzione oggettivante gli oggetti entrano in un rischioso travaglio di limiti, per cui appaiono accennare ad un oltre inautentico, vuoto, estraneo: in realtà questo oltre improprio è la potenza oltrepassante della presenza che in luogo di fondare l’oggettività sta diventando essa medesima un oggetto, si sta alienando con l’oggetto e nell’oggetto».
Seguendo quanto dice l’antropologo, potremmo pensare a una sorta di ossimoro: infatti, se da una parte l’oggetto riflette un’identità che non c’è più, dall’altra esso assume su di sé un eccesso di significato, sovraccaricandosi di densità. Questa simultaneità antitetica si può spiegare se si pensa alla morte come rito così come inteso nella concezione di Van Gennep (1981: 14):
«Perciò “varcare la soglia” significa aggregarsi a un mondo nuovo [...] Propongo dunque di chiamare riti preliminari i riti di separazione dall’ambiente precedente, riti liminari i riti eseguiti durante lo stadio del margine e riti postliminari i riti di aggregazione al nuovo ambiente».
Seguendo queste concezioni, si potrebbe affermare che l’agency dell’oggetto risieda in un’operazione particolare, ossia quella di recisione del legame di appartenenza precedentemente creato con il proprio possessore, poi defunto. L’oggetto non è più proprietà di un possessore, ma ciò non prescinde (o almeno, non totalmente) il proprio senso: è, dunque, in un margine compreso fra il “non è più” e il “non è ancora”. È in questa fase che si genera la “crisi della presenza”: l’oggetto da una parte «inautentico, vuoto, estraneo», come indica De Martino; dall’altra, al contrario e contemporaneamente, è «la potenza oltrepassante della presenza». È, pertanto, in una fase liminare.
Anche Bodei (2011: 26) riflette sulla questione in termini affini:
«Quando il legame tra la persona e la cosa si spezza – o per la morte della prima o per la perdita della seconda –, l’avversione ad accettare la scomparsa di quanto amiamo rivela la nostra inutile, ma eroica protesta contro l’irreversibilità del tempo. Non potendo conservare le cose, una volta perdute, cerchiamo di volta in volta dei surrogati spostando altrove i nostri investimenti affettivi e cognitivi. Questo spiega, almeno in parte, il deperimento o l’incremento di senso o di valore che esse subiscono grazie all’incessante e spesso inconsapevole incorporazione di significati o alla loro dimissione: gli oggetti sono o trasformati in cose o da cose degradanti a entità differenti».
Si è visto in precedenza il caso di Karenin, per il quale il collare e il guinzaglio, oltre a essere degli elementi costitutivi della sua identità, ricoprono anche un altro ruolo performativo, pur “di riflesso”: su di essi, infatti, si imprime una forte e improvvisa valenza emozionale – un’eccedenza di senso – tanto che non si riesce più a guardarli, e vengono quindi sotterrati assieme al corpo del cane. Quegli oggetti assumono questa “carica riflessa” proprio perché sono elementi costitutivi di identità.
Volendo sintetizzare gli assunti precedenti in modo icastico, si potrebbe dunque riportare così:
- gli oggetti costituiscono identità;
- gli oggetti hanno carattere relazionale e sociale;
- gli oggetti possiedono una capacità di “agency di riflesso”;
- gli oggetti possono avere, temporaneamente o permanentemente, totalmente o parzialmente, una carica emotiva (ad esempio, la “crisi della presenza”).
Con queste premesse, possiamo trasferire il discorso sull’esempio degli oggetti presi inizialmente in considerazione: i ferri da maglia.
Essi rispondono a tutte le caratteristiche sopra elencate: da una parte, essi si rivelano essere dei simboli dell’identità della persona a cui sono appartenuti; dall’altra, hanno valore sociale e relazionale, non solo perché “entrano in contatto” (attraverso se stessi o attraverso ciò che viene prodotto, ad esempio maglioni o sciarpe) con una molteplicità di persone, ma anche perché marcano una pratica diffusa di una determinata epoca e in una determinata società (e, solitamente, per un determinato genere). A seconda della persona che li “guarda”, i ferri da maglia hanno un’agency che restituisce reazioni emotive e, talvolta, anche sensoriali. A sua volta, l’agency che possiedono ha creato una “crisi della presenza” durante la fase di elaborazione del lutto della precedente proprietaria, tanto da doverli celare alla vista, all’interno di un cassetto. Nel momento in cui i ferri da maglia vengono recuperati e resi visibili, inizia per loro (e non solo) una nuova fase.
Quando una storia non si interrompe: conclusioni
«Le biografie delle cose possono dare risalto a quello che altrimenti resterebbe ignoto. [...] le biografie delle cose non possono essere altro che parziali» (Kopytoff, 2021: 106); «Come evidenzia Kopytoff, il problema relativo a quale sorta di biografia possa avere un dato oggetto è una questione di contesti sociali e di gusto personale» (Appadurai, 2021: 37).
Le “cose”, che possono quindi non essere considerate come mera merce, bensì come oggetti presi nel loro aspetto (inter)soggettivo, raccontano e plasmano storie, divenendo produttrici di comunicazione. Si tratta di narrazioni che valicano il confine dell’individuale, poiché entrano in relazione non solo con più persone, ma anche con un contesto, con una “cultura” (o più), con una generazione o con una storia, e che in quanto simboli densi formano identità; si tratta di artefatti che posseggono capacità di agire, e che restituiscono lo sguardo degli interlocutori in modi differenti. Come tali, essi possono possedere una carica emotiva soggetta a intensità ed esiti diversi e personali.
Esistono degli oggetti, tuttavia, che non muoiono insieme al proprio possessore, come accade invece nel caso del guinzaglio e del collare di Karenin, ma che continuano la propria storia, ampliandola e arricchendola con dei passaggi fra individui, che ne accrescono i significati, come proposto dall’esempio dei ferri da maglia. Questi ultimi, infatti, successivamente alla fase di elaborazione del lutto, sono passati nelle mani di qualcuno che non ne era il proprietario originario. Come tali, essi sono messi al servizio di un altro costrutto narrativo, con tutte le conseguenze che ciò comporta: essi, infatti, saranno calati in nuove relazioni con il tempo, il contesto e le persone; nuovi “riflessi” con cui risponderanno allo sguardo; nuove cariche emotive, perché:
«Vi è una sorta di translatio imperii o di metempsicosi che fa sì che essi [gli oggetti] passino di mano e che la loro vita possa continuare anche dopo la morte o la lontananza di chi li custodiva. [...] essi diventano anelli materiali di continuità tra le generazioni» (Bodei, 2011: 27).
I ferri da maglia in questione, seguendo un keda (cfr. Malinowski, 1978), potranno quindi vedere una “nuova primavera”:
«Questo corpo così assetato e stanco forse non arriverà fino all’acqua del mare.
Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino,
ma promettimi, Dio, che non lascerai finisca la primavera.
Oh mio caro, che dolore riserva l’attimo dell’attesa
Ma promettimi, Dio, che non lascerai finisca la primavera» (Sammartino, 2014: 63).
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Dal veneto, letteralmente: «Stai molla!»: l’affermazione indica il lavorare in modo da non rendere troppo serrate le maglie avvolte sul ferro, dunque in modo morbido.
[2] L’antropologa si appella al concetto di habitus introdotto da Bourdieu e a quello di strutturazione maturato da Giddens, intendendo la definizione di “struttura” di Giddens come «le regole e le risorse implicate ricorrentemente nella riproduzione dei sistemi sociali», spiegando che per entrambi i sociologi le attività del quotidiano sono alla base della formazione della cultura: «Le pratiche e le azioni del quotidiano sono l’arena in cui si attuano i gesti, i pensieri e i discorsi che costituiscono la cultura» (Forni, 2022: 101).
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Clara Campagnolo, laureata in Antropologia Culturale, Etnologia ed Etnolinguistica presso l’Università Ca’ Foscari Venezia (con una tesi dal titolo: “Il senso del luogo nel Comelico Superiore: analisi etnografica di un caso specifico”, da cui è tratto un omonimo articolo presente nella rivista scientifica DOLOMITI), i suoi interessi scientifici riguardano principalmente questioni sociali e ambientali, con una particolare attenzione nei confronti del “senso del luogo”, degli spazi rurali e dell’attivismo ambientale.
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