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È vero se ci credo. Sull’idea di progresso nell’esperienza della vita quotidiana

18let01af01di Fulvio Cozza 

Mentre le religioni tradizionali concepiscono il processo storico come un moto verso un termine ultimo e conclusivo, verso un regno in cui il male sarebbe definitivamente vinto, e la lotta, e quindi la storia stessa, soppresse e annullate, la religione della libertà respinge invece come mitologica questa figurazione e afferma che ogni età storica ha il suo problema concreto di liberazione da certe servitù di cui acquista consapevolezza; e che ogni epoca ha la sua «giustizia» da conquistare, il suo «regno» sofferto e sperato, da attuarsi nel mondo con fatiche umane; e che quindi anche le epoche future avranno i loro travagli e le loro servitù, e quindi la loro «storia della libertà».

Ernesto de Martino, 15 giugno 1944, Centro Studi P.I.L. (Partito Italiano del Lavoro) 

978880618497graIntroduzione

Dopo aver accettato l’invito del direttore di Dialoghi Mediterranei a partecipare al dibattito sul concetto di progresso, ammetto di aver provato un certo timore nell’accostarmi a un concetto così complesso, dalla storia politica assai travagliata e che, come mostrerò più avanti, impone un particolare tipo di azzardo riguardo alle proprie aspettative. È su quest’ultimo punto che desidero concentrare la mia discussione, ma facciamo prima un passo indietro per ripercorrere brevemente l’argomentazione di Fabio Dei (2024), che nel numero precedente di questa rivista ha inaugurato il dibattito sull’utilità del concetto di progresso.

Il suo articolo passa in rassegna le vicissitudini otto-novecentesche vissute dalla nozione, non mancando di segnalare gli esiti nefasti degli usi etnocentrici e colonialisti di un concetto dal forte accento positivista. Successivamente, Dei individua negli ultimi decenni l’emergere di una fase di affievolimento ideologico, dai tratti irrazionalistici, che – specialmente nei campi della filosofia e della scienza – sembra aver frenato l’idea di progresso e, con essa, quella spinta propulsiva al miglioramento delle condizioni dei gruppi umani. Se, nel bene o nel male, l’appello alla ragione e allo sviluppo tecnologico aveva orientato una moltitudine di progetti politici progressisti (non solo della sinistra), in coda al suo testo Dei rileva la carenza contemporanea di un’idea forte di progresso capace di alimentare quel miglioramento delle condizioni simboliche e materiali che, ad esempio, aveva fatto parlare Ernesto de Martino (2019) di umanesimo etnografico.

Per sua stessa ammissione, Dei concentra il suo discorso sulla critica della teoria antropologica contemporanea, evidenziando i rischi che essa corre quando abbandona la cornice epistemologica della razionalità scientifica in favore di formule conoscitive afferenti al mondo magico. Le argomentazioni di Dei colgono un malessere analogo a quello segnalato da Telmo Pievani nell’ambito del dibattito evoluzionistico. Alcuni anni fa, proprio contestando l’idea di evoluzione come progresso voluto da Dio, Pievani (2006; 2011) aveva dimostrato come i tentativi di orientare il discorso in tale direzione – coinvolgendo persino teologi cristiani di spicco, come Benedetto XVI – mirassero in realtà a minare valori chiave della scienza quali il laicismo, il metodo sperimentale, l’umanesimo e lo stesso progressismo. L’idea che la natura segua un percorso predeterminato verso l’armonia divina e che, in caso contrario, la vita umana perderebbe senso, non solo restringe la libertà umana entro i confini stabiliti da un principio trascendente, ma mina anche alla base il nostro senso di responsabilità nei confronti del nostro pianeta. Se tutto è già scritto, che senso ha impegnarsi? Oppure, riprendendo il testo di Fabio Dei (2024), se le cornici interpretative del mondo contemporaneo si affidano a quelle del mondo magico, che senso ha fare antropologia?

Partendo da tali espressioni di sfiducia nel progresso, in questo articolo voglio offrire alcune riflessioni riguardanti il medesimo scetticismo allorquando si estende ben oltre l’ambito accademico, diventando, a mio parere, un elemento coessenziale a un certo senso comune nell’Italia contemporanea. Credo che il tentativo non sia del tutto vano, specialmente perché gli antropologi e le antropologhe vivono, tendenzialmente, nello stesso mondo in cui vivono le altre persone e dunque non è impossibile che il loro punto di vista rifletta – in maniera più o meno elaborata – atteggiamenti e assunti ricorrenti della realtà quotidiana.

Nel formulare le mie riflessioni sulla sfiducia nel progresso, attingerò in primo luogo alla mia esperienza personale e a quella di ricercatore; in secondo luogo, trarrò alcune intuizioni da Erving Goffman (1952) e dal suo articolo intitolato On Cooling the Mark Out – tradotto in italiano come Consolare lo sconfitto (2016); infine, mi servirò degli studi di Arjun Appadurai sui temi dell’immaginazione del futuro (Appadurai 2013), dell’elaborazione del rischio (Appadurai 2016) e dello sviluppo della gig economy (Appadurai e Alexander 2020).

L’idea di base dalla quale voglio partire è che pensare il progresso presupponga sempre una valutazione di valore riguardo allo scorrere del tempo: su quello che è successo (passato), su quello che sta succedendo (presente) oppure su quello che deve succedere o su quello che potrebbe succedere (futuro). Tale idea presuppone che non esista il progresso in sé, bensì diversi modelli narrativi di volta in volta definiti come progresso, capaci di orientare le aspettative e l’azione di un gruppo umano riguardo al passato, al presente e al futuro (Appadurai 2013). 

San Casciano dei Bagni, Siena (ph. Fulvio Cozza)

San Casciano dei Bagni, Siena (ph. Fulvio Cozza)

Scetticismo e sfiducia: la cifra del presente

Al di là dell’esperienza di vita quotidiana, che già offre numerose occasioni per osservare una diffusa diffidenza verso la scienza e la tecnologia, nella mia ancora giovane carriera di ricerca etnografica, la sfiducia nel progresso è senza dubbio il tema più ricorrente, declinato di volta in volta nei termini della nostalgia per un’età dell’oro, dello scetticismo verso le innovazioni e della critica al degrado dei tempi moderni. Dagli inizi nelle Serre calabresi (Cozza 2018) fino al mio attuale lavoro sul campo in provincia di Siena, passando per il Cassinate (Cozza 2023b) e l’area capitolina (Cozza 2022, 2023; Cozza e Seyedabadi 2024), tracciare la sfiducia nel progresso nei miei studi non è mai stato un compito complicato. Penso alla clausura dei Certosini di Serra San Bruno (VV), percepita da monaci, locali e visitatori del Museo della Certosa come una modalità appropriata per fronteggiare le minacce del mondo contemporaneo (consacrando la fuga dal mondo come un sistema utile a evadere i problemi del mondo, senza tentare di risolverli attraverso il sapere e la tecnica). Penso alla nostalgia per le “autentiche” relazioni romantiche del passato, raccontata dagli utenti dell’app di incontri Tinder per giustificare la preferenza di intimità distaccate (un altro sistema di rinuncia alla responsabilità verso l’Altro). Penso all’archeologia utilizzata come strumento per entrare in contatto privilegiato con la grandezza inarrivabile del tempo passato. Infine, penso ai diversi modi di narrare il passato che, nel quartiere Casal Bertone di Roma (Cozza e Seyedabadi 2024), in provincia di Frosinone e in quella di Siena, sebbene in forme diversificate, fanno emergere il disagio verso il tempo presente e quindi il rifiuto di tutti i progetti di cambiamento, riscatto e progresso che questo offre.

Confesso che in alcuni casi provo un certo scoramento nell’ascoltare queste retoriche, soprattutto quando esse – magari denunciando l’esistenza di un piano malvagio o di un male irriducibile – legittimano l’accettazione passiva della condizione attuale. Naturalmente, in quanto antropologo, il mio compito consiste nel prendere sul serio il senso comune; pertanto, se questo scetticismo nei confronti del progresso è così diffuso, devono esserci motivazioni socioculturali che ne favoriscono la riproduzione (probabilmente più di una). Considerando, inoltre, che tale questione sembra avere effetti significativi anche sui modi di scegliere i rappresentanti politici, sarà opportuno cominciare a riflettere proprio sulla fenomenologia di questa sfiducia in Italia. Nel prossimo paragrafo esporrò quello che mi sembra un punto di partenza imprescindibile per qualsiasi riflessione sul progresso in Italia: il modello di progresso che ci arriva dal passato e che plasma le nostre aspettative riguardo a ciò che il progresso dovrebbe essere. 

Una possibile raffigurazione della sfiducia nel progresso

Una possibile raffigurazione della sfiducia nel progresso

Un discorso che fa boom

Facciamo ora un’indagine sulla memoria dell’Italia contemporanea e proviamo a individuare il modello di sviluppo che oggi viene ritenuto – persino da alcuni detrattori – come quello che ha permesso un miglioramento oggettivo delle condizioni di vita. Se siete nati in Italia (ma credo che lo stesso valga per qualsiasi Paese ricco euroamericano), la risposta più ricorrente sarà probabilmente il progresso realizzatosi durante il cosiddetto “miracolo economico”, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Questo è vero non solo perché il livello di progresso risulta misurabile attraverso i classici indicatori sociali e demografici (tasso di istruzione, mortalità, occupazione, reddito, ecc.), ma soprattutto perché questo progresso è stato consacrato da una retorica profondamente radicata nelle narrazioni degli italiani e delle italiane (Cozza 2023b). Penso alle leggendarie storie sulla “prima televisione” o “la prima automobile” acquistata in famiglia, ma soprattutto alla diffusione di massa di strumenti di conservazione della memoria, come le macchine fotografiche. Gran parte degli album di famiglia inizia proprio con l’arrivo del benessere e molte raccolte ritraggono quella trasformazione.

Dunque, rimodulando le tesi di Appadurai e Alexander (2020), i fallimenti del progresso sono ovunque, eppure alcuni non vengono riconosciuti o valutati secondo una scala di valore. Alcuni fallimenti entrano nella memoria collettiva, mentre altri vengono semplicemente ignorati. Naturalmente, lo stesso vale per i successi del progresso. Pensiamo, ad esempio, a cosa direbbero i nostri bisnonni ottocenteschi se osservassero il disprezzo che spesso rivolgiamo agli alimenti surgelati, o alle maledizioni che lanciamo nei confronti di smartphone e Internet. Tornerò su questo punto nel paragrafo seguente.

In generale, mi sembra che in Italia si tenda a essere molto indulgenti nei confronti dei fallimenti del progresso degli anni Cinquanta e Sessanta, mentre ci si mostra critici spietati verso i progressi del mondo contemporaneo. Eppure, tutti gli indicatori dipingono una società italiana molto più benestante di sessant’anni fa. A questo proposito mi viene in mente una vignetta molto critica nei confronti di Greta Thunberg postata su Facebook da un utente over 60. La vignetta raffigurava un asino sorridente che inseguiva una carota penzolante da un bastone attaccato a sé. Sulla carota c’era scritto “progresso” (un pessimo fotomontaggio in realtà). Insomma, il progresso prospettato dall’attivista svedese non sembrava aver conquistato l’entusiasmo di questa persona, eppure l’idea di un modello di sviluppo sostenibile basato sull’impegno giovanile non è certo antiprogressista.

San Casciano dei Bagni, Siena (ph. Fulvio Cozza)

San Casciano dei Bagni, Siena (ph. Fulvio Cozza)

Possiamo allora chiederci quali siano le motivazioni di questo rifiuto che può assumere anche forme virulente. Come spesso accade, si tratta di un processo complesso che combina ragioni diverse. Una prima ragione potrebbe essere che il modello di progresso contemporaneo si oppone esattamente alla mitica narrativa del miracolo italiano. Su questo punto mi vengono in mente le caratteristiche della memoria culturale che sto studiando nella mia ricerca sul campo a San Casciano dei Bagni, in provincia di Siena. Mi colpisce molto come le narrazioni dell’abbandono della vita contadina e il trasferimento dalla campagna vengano descritte con un tono contemporaneamente amaro e dolce. Amaro perché l’esperienza della mezzadria – formula produttiva assolutamente dominante di quest’area (Scarpelli 2020) – delineava un mondo terribilmente diseguale, che implicava una lotta contro agenti per noi inimmaginabili, come la carestia e la fame (Contini 2008); dolce perché, al di là del confronto con queste possibilità terrificanti (De Martino 1948), lo stile di vita mezzadrile seguiva cicli ben definiti dalle incombenze stagionali e, quindi, poteva essere affrontato secondo un piano di intervento le cui aspettative non venivano generalmente contraddette dai fatti. In fondo, una pianta si pota sempre allo stesso modo e un bovino pascola sempre nello stesso modo. Le frequenti dispute odierne tra i sancascianesi riguardo a chi debba essere considerato l’ortolano più abile e produttivo – andando ben oltre le esigenze di sussistenza – mettono in evidenza con chiarezza che ciò che è in gioco è la capacità – oggi quasi magica (De Martino 2019) – di ottenere frutti da una rigorosa sequenza di azioni orientate a uno scopo.

Uno dei curatissimi orti di San Casciano dei Bagni (ph. Fulvio Cozza)

Uno dei curatissimi orti di San Casciano dei Bagni (ph. Fulvio Cozza)

Inoltre, la nostalgia per la mezzadria va senza dubbio messa in relazione all’esperienza passata di una campagna brulicante di vita (in contrasto con la contemporaneità segnata dallo spopolamento), al valore che la cultura contadina attribuiva alla frugalità (un valore tornato di moda negli ultimi decenni), senza dimenticare che queste narrazioni non riflettono una realtà oggettiva, ma si parla piuttosto di ricordi attualizzati, discorsi sul passato mezzadrile elaborati mentre si passeggia in un panorama sempre pronto a regalare uno spettacolare post su Facebook o su Instagram. Sono sistemi per rivendicare con orgoglio il proprio percorso proprio perché questo sfoggia un primato: “sono partito da questo podere dove si dormiva insieme alle bestie e mi sono fatto una posizione”, dice l’insegnante in pensione, l’albergatore e il ristoratore. Anche questo dimostra quanto l’improvviso benessere del boom economico abbia assorbito gran parte delle narrazioni sul progresso in generale. È difficile accettare le prospettive di progresso contemporanee se le si guarda da quel punto di vista che ricorda ancora la cabina per le deiezioni umane posta a debita distanza dall’abitazione nella quale si dormiva tutti e tutte nella medesima stanza.

A proposito di questa difficoltà nell’accettare le differenze dell’epoca contemporanea e i criteri secondo i quali vengono distribuite le risorse – e quindi il benessere e il progresso – mi viene in mente una storia che mi è stata raccontata e che è successa pochi anni fa. Riguarda una riunione tra imprenditori e amministrazioni locali del senese. A un certo punto, dopo aver ascoltato le pressanti richieste di sovvenzioni, per comunicare l’esiguità dei fondi disponibili, un funzionario di un’amministrazione locale gelò il pubblico con una sconcertante notizia: “Signori miei, gli anni Ottanta son finiti”. 

scommettere-sulle-parole-2475Consolare la sconfitta, del progresso

Fino ad ora si è parlato dell’idea di progresso maggiormente impressa nella memoria italiana e di come questa condizioni profondamente i modi di valutare le nuove proposte di progresso. È ora necessario passare all’analisi del tempo presente, osservando quanto questo faccia emergere una diffusa esperienza del rischio che concorre a rendere ulteriormente problematica la fiducia nel progresso. Proviamo ad esaminare questa esperienza tenendo a mente che il punto di vista adottato sarà quello prevalente – ma non unico né univoco – della classe media italiana, ossia quel gruppo di persone che riesce a concludere il mese senza dover fare gravi rinunce o calcoli complicati. Ritengo che questo aspetto svolga un ruolo centrale nella discussione, soprattutto perché, diffuso attraverso i mass-media e i social, contribuisce a formare il senso comune italiano.

Un primo elemento che rende rischiosa la quotidianità e che dunque mina le prospettive di progresso futuro è senza dubbio il costante aggiornamento della scienza e della tecnologia, un fattore che porta a un rapido aumento dell’esperienza dell’obsolescenza (Appadurai e Alexander 2020). Tale processo avviene a una velocità talmente elevata da far sì che i fruitori non possano considerare acquisito e stabile neanche il più banale dei risultati ottenuti (Appadurai 2016). Questo tema si ricollega direttamente alla discussione precedente, secondo la quale una valutazione positiva del progresso emerge più facilmente se l’esperienza quotidiana ha avuto il tempo di assimilarlo e, in un certo senso, patrimonializzarlo (Bausinger 2005). Non si può sapere cosa si vuole domani se non si sa cosa si ha oggi (Appadurai 2013). Pensiamo solo a quanto tempo ha impiegato la connettività a internet per diventare un indicatore basilare del progresso di un’area; oppure a quella frustrazione che si prova subito dopo aver sostituito un vecchio apparecchio, con il quale avevamo stabilito una certa affinità attraverso la routine. Quante volte, subito dopo aver cambiato computer o smartphone, ci siamo chiesti: “Ma chi me l’ha fatto fare? Questo dispositivo non è come mi aspettavo”.

Un secondo elemento che disturba l’apprezzamento del progresso contemporaneo è, paradossalmente, l’alto valore che attribuiamo al modello di progresso che abbiamo in mente. Mi riferisco al fatto che talvolta sembra che assegniamo alla scienza e alla tecnologia un livello di realizzazione più alto di quello che gli stessi scienziati e progettisti attribuiscono loro. Poiché, come è noto, affermare che la scienza sia infallibile è forse il gesto più antiscientifico in assoluto, tale atteggiamento non può che portare a delusioni clamorose in chi lo adotta. Si sente spesso dire che la gente continua a morire per le stesse malattie di quarant’anni fa, nonostante tutte le scoperte e innovazioni nel campo delle cure e della prevenzione; tuttavia, non si nota mai il costante aumento delle aspettative di vita in Occidente. Mi sembra che lo stesso discorso possa essere applicato alle attitudini verso lo sviluppo della tecnologia e in particolar modo ad una certa vulgata riguardante l’intelligenza artificiale ed i sistemi di automatizzazione della vita quotidiana. In qualche modo le retoriche intorno a questi temi fanno quasi sempre emergere un allarme, il panico che l’intelligenza artificiale possa esaurire tutte le mansioni del reale, riducendo gli esseri umani ad una sorta di stato vegetale, senza neppure una vaga fiammella di agentività. Come spiega Luciano Floridi (2020, 2022), in realtà a distinguere il lavoro che può essere automatizzato da quello che non può esserlo ci pensa l’economia e il calcolo costi/ricavi; calcolo che naturalmente è profondamente influenzato dallo sviluppo tecnologico ma soprattutto dalla cultura (Appadurai 2013, 2016). Insomma, se mai un giorno il lavoro umano sarà completamente svolto dalle macchine e decideremo di usare un dispositivo digitale come unico mezzo di socialità verso le persone che amiamo, non potremo certo incolpare lo sviluppo tecnologico. Concludo questa breve carrellata di esempi chiedendomi se ci sia un dibattito che elevi così tanto la scienza medica quanto quello che ha messo in dubbio i criteri di sperimentazione di alcuni vaccini poiché questi non garantivano una percentuale di efficacia del 100% (onestamente, a volte sembra che queste argomentazioni vengano sollevate solo per fini polemici, cioè con l’intento di attaccare l’autorità della scienza usando le sue stesse munizioni).

In sintesi, torniamo alla questione del progresso osservando che «nell’era digitale l’idea che la vita debba essere il più possibile agevole e indolore, data per scontata, funziona come una doxa» (Appadurai e Alexander 2020: 39). Di conseguenza, poiché la realtà è molto più complessa rispetto a quanto descritto da queste narrative positiviste, che ingigantiscono le reali capacità della scienza e della tecnologia, credere acriticamente nel progresso contemporaneo comporta il rischio di confrontarsi con un’illusione o con una promessa non mantenuta (Appadurai 2016). In altre parole, poiché ci sono domande alle quali la razionalità scientifica e la tecnologia non possono rispondere, credere nel progresso oggi richiede la consapevolezza quotidiana che il fallimento è altamente probabile, se non certo. Come regolarsi allora? E se dovessi perdere la scommessa col progresso?

Per comprendere appieno la fenomenologia di questo atteggiamento, mi sembra opportuno fare un breve riferimento ad un articolo giovanile di Erving Goffman (1952) intitolato On Cooling the Mark Out. Partendo dall’esplorazione del mondo delle truffe di strada, il sociologo nordamericano sviluppa una teoria generale della consolazione dalla sconfitta. 

«Per il perdente – afferma Goffman – la consolazione rappresenta un processo di adattamento ad una situazione impossibile, che sorge dall’avere definito sé stesso in un modo che i fatti contraddicono. Al perdente va quindi fornito un nuovo set di scuse da rivolgere a sé stesso, una nuova cornice per guardarsi e giudicarsi» (Goffman 2016: 31). 

9788857533094_0_536_0_75Il “pollo” che si è fatto spennare al gioco delle tre carte (mark) viene sottoposto a un processo di raffreddamento (cooling out), attraverso il quale la vittima è guidata nell’accettazione dell’amara verità di aver subìto una sconfitta. La “consolazione del pollo” diventa quindi una metafora delle tecniche adottate per gestire la delusione derivante dalla perdita di uno status (si evita che il “pollo”, bruciato dalla propria credulità, chiami la polizia). Goffman elenca una serie di soluzioni consolatorie generiche adottate nella società occidentale e successivamente affronta quei casi in cui la consolazione non va a buon fine. Qui il testo diventa particolarmente utile per la mia discussione sulla sfiducia nel progresso. In tali situazioni, ci dice Goffman, il “pollo” sente di avere un conto aperto con la fonte della sua sconfitta e si trova in uno stato di ostilità permanente nei confronti della sua “scottatura”. Infatti, una di queste modalità di mancata accettazione della sconfitta è il sentimento di rabbia; l’altra è ciò che lui definisce “inacidimento” (turning sour), cioè: «il perdente esteriormente accetta la sua sconfitta, ma rimuove ogni entusiasmo, buona volontà e vitalità da qualsiasi altro ruolo gli venga concesso di mantenere. Così, pur soddisfacendo i requisiti formali del ruolo, ritira il proprio spirito e la propria identificazione in esso» (Goffman 2016: 37).

A questo punto, chi legge non avrà tardato a riconoscere in questi due stati emotivi descritti da Goffman – rabbia e apatia – la cifra di quella disposizione verso il progresso che ho descritto poco fa, la miccia che innesca frasi come: “penso che questo prodotto non funzionerà”, “non esistono più le ideologie”, “questo trattamento non sarà efficace”, “votare non cambierà le cose”, “chissà cosa c’è sotto questa idea”. Non c’è tempo qui per approfondire se questa percezione del rischio fallimento sia il risultato di una delusione effettivamente subita oppure un meccanismo per evitare la possibilità della delusione stessa (la questione riguarda la consapevolezza individuale e, come spesso accade, la risposta potrebbe essere: dipende); piuttosto, riflettiamo sul significato di questo bisogno di esprimere disincanto nella sfera pubblica come un sistema per salvare la faccia.

In primo luogo, questo desiderio di “non passare per pollo” potrebbe funzionare come marcatore della propria condizione privilegiata. In questi casi, come insegna Bourdieu (1979), è fondamentale mostrare di potersi spingere ben oltre la semplice soddisfazione dei bisogni essenziali. Effettivamente, vivere in un contesto in cui la biomedicina offre un servizio essenziale di qualità rende più facile esprimere dubbi sull’efficacia di determinate terapie o scegliere liberamente trattamenti alternativi (sistemi esplicativi del male che vanno oltre la “grettezza” dei microbi e della fisiologia per riguardare l’ambito della filosofia e della spiritualità). Allo stesso modo, lamentarsi per una connessione internet instabile è possibile solo perché si possiede uno smartphone assai performante; criticare il sapere accademico è una tendenza favorita dall’accesso facilitato agli studi universitari e fabbricarsi dei saperi alternativi risponde pur sempre al bisogno di “farsi una cultura”. Infine, se le proprie condizioni di vita non dipendono da piccoli cambiamenti nell’amministrazione pubblica, è più semplice criticare i compromessi della politica e abbracciare principi morali rigorosi quanto irrealistici. Secondo questo punto di vista, applicare la realpolitik mostra a tutti di non aver letto Kant, Marx o Heidegger; e accettare un compenso per l’impegno politico che ci si assume squalifica automaticamente la proposta politica per la quale si parteggia.

Spia di una condizione privilegiata, la sfiducia nel progresso diventa dunque il campo da gioco per la coltivazione di fantasie sempre più ascetiche e distintive (Bourdieu 1979). La democratizzazione dell’accesso a beni che un tempo erano considerati superflui ha spostato il campo della distinzione sociale verso aree come il sapere specializzato, le opinioni controverse e l’elaborazione intellettuale sofisticata (Currid-Halkett 2018). Non è più sufficiente godere degli agi offerti dalla propria condizione; ciò significherebbe accettare una vita semplice e comune, accessibile a tutti e, quindi, banale. Questa cornice culturale rifiuta l’idea che il progresso abbia già soddisfatto i bisogni principali e sposta il desiderio di distinzione su un piano intellettuale, dove è più difficile raggiungere il consenso unanime. Non a caso, oltre a essere nemiche dell’ideologia capitalistica – che appunto si riproduce grazie alla costante espansione della sfera dei bisogni e delle merci – il sapersi accontentare e il saper condividere sono anche le virtù tipiche dei poveri, cioè il gruppo che per definizione viene tagliato fuori dal progresso (Sahlins 2020). Questo fenomeno di sofisticazione intellettuale dei bisogni si riflette anche nel discorso pubblico e nelle scelte politiche. Con tutte le critiche legittime che si possono rivolgere alla classe politica italiana – che, occorre ricordarlo, offre tuttavia una rappresentazione abbastanza fedele della cittadinanza – non è semplice per la sinistra trovare una formula di interessi comuni se il bisogno perseguito dagli elettori è proprio quello di non essere comune. In questo contesto, la destra trova terreno fertile nel concentrare la sua retorica persecutoria sugli stranieri, mantenendo inalterati i rapporti di forza e insabbiando i temi del conflitto sociale.

Un altro esempio di sofisticazione si evidenzia nelle critiche sul degrado urbano allorquando si focalizzano più sulla presenza di mendicanti e senza tetto nel centro storico anziché sulle carenze di cure e ripari offerti loro dalle autorità competenti. Questa preoccupazione centrale riflette l’incapacità di godere appieno dell’estetica del bello pubblico allorquando – a loro dire – viene “lordata” dalla presenza di persone con necessità umane decisamente più terrene. Un ulteriore esempio è l’incessante enfasi dei governi italiani sulle “grandi opere” che da decenni alimenta immaginari di modernizzazione e sviluppo, trascurando la manutenzione del territorio, considerata troppo banale per catturare l’apprezzamento collettivo. Analogamente, sempre seguendo l’agenda della destra, i partiti di sinistra dell’Occidente hanno iniziato a evitare temi cruciali come l’accoglienza dei migranti e lo sfruttamento dei lavoratori, preferendo enfatizzare un concetto di progresso allineato con i valori esclusivi della classe media, tradendo così i principi di solidarietà e uguaglianza che dovrebbero essere al cuore del progresso stesso. In buona sostanza, il disincanto verso il progresso, lungi dall’essere una semplice reazione passiva ad una effettiva carenza di possibilità, a me sembra un fenomeno che nasce da una condizione di privilegio o dal desiderio di distinzione sociale. Francamente, a volte ho l’impressione che le persone siano disposte a fare dei sacrifici pur di non mostrare di avere dei bisogni molto concreti e dunque denunciare pubblicamente il loro essere di classe inferiore. In questo senso, il prezzo di ingresso alla classe media è la sfiducia dell’idea di progresso, indipendentemente che tale sfiducia sia reale o simulata.

Detto ciò, sono convinto che il concetto conservi ancora un’importanza fondamentale. Il progresso non solo sfida quotidianamente il valore delle conquiste materiali e tecnologiche già ottenute, ma apre anche un dibattito più profondo sul miglioramento della società e, di conseguenza, sulla capacità di mantenere vivo il senso di comunità e giustizia sociale. Senza questi elementi dove si va? 

9788891774286_0_536_0_75Conclusioni: è vero se ci credo

In questo articolo ho cercato di mostrare che le idee riguardanti il progresso non riflettono una realtà oggettiva, bensì devono essere lette come modelli narrativi che si applicano al mondo, i quali possono rivelarsi vincenti o perdenti e alimentare forti aspettative, definendo così la propria appartenenza sociale. In questo senso, il terzo paragrafo è stato interamente dedicato alla descrizione del modello di progresso che, attualmente in Italia, sembra fungere da termine di paragone per tutti gli altri, definendo quindi i modelli di progresso promettenti e quelli suscettibili di delusione. Successivamente, sono passato ad analizzare le strategie comportamentali più diffuse riguardo al progresso, evidenziando una caratteristica sfiducia che pervade il senso comune su questo tema. La sfiducia nel progresso è stata dunque concepita come un sistema di elaborazione della sconfitta o come un meccanismo atto a prevenire tale possibilità. Ho suggerito che il rigore con cui si valutano le proposte di progresso sembra riguardare più lo sfoggio delle competenze che la necessità di rispondere a bisogni essenziali. A tal proposito, si è riflettuto sulle origini socioculturali di tali attitudini, e ho provato a proporre un collegamento con la sensibilità e i gusti della classe media italiana, un gruppo sociale che, di fatto, può condurre una vita al riparo da gravi privazioni e che soprattutto, in virtù del suo peso simbolico, definisce un modello esemplare di italianità. Il problema che ho voluto denunciare non è solo che il senso comune italiano sembra aver smesso di credere nel progresso, ma soprattutto che questa “miscredenza” danneggia tutte quelle persone che, al contrario, sono costrette a rimanere escluse dal progetto di progresso. Se fin dagli esordi del concetto, in seno alla grande tradizione della sinistra, il progresso ha significato un miglioramento delle condizioni universali in virtù della comune umanità, mettere da parte questo concetto equivale ad accantonare molto più che il progetto politico del progressismo.

La fenomenologia del disincanto verso il progresso che ho cercato di far emergere mi porta alla mente quella storia del milanese che invitò a cena un suo amico romano. Il milanese avvertì il romano del fatto che “la cucina milanese ha pochissima tradizione”. L’invitato romano, tutto inquieto, domandò allora al suo amico: “Quindi… a Milano nun magnate?”. 

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024 
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Sahlins, M., 2020, L’economia dell’età della pietra. Milano, Elèuthera (ed. or. 1973).
Scarpelli, F., 2020, La Memoria del Territorio. Patrimonio culturale e nostalgia a Pienza, Pisa, Pacini.

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Fulvio Cozza, PhD in Antropologia culturale ed Etnologia presso la Sapienza Università di Roma, è assegnista di ricerca presso l’Unistrasi – Università per Stranieri di Siena nell’ambito del progetto “Memoria Orale e Etica dell’Archeologia a San Casciano dei Bagni”. I suoi studi riguardano l’antropologia della vita quotidiana, le pratiche archeologiche, i patrimoni culturali e il senso dei luoghi.

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