di Giovanni Cordova [*]
Il ripensamento epistemologico e metodologico con cui le scienze umane e sociali hanno affrontato negli ultimi due decenni lo studio dell’Islam e dell’esperienza religiosa musulmana riflette le aporie e gli impliciti slittamenti semantici che, più in generale, l’assunzione ad universalità della categoria di “religione” (e del suo ineliminabile contrappunto, il “secolare”) ha comportato nell’applicarla oltre la genealogia storico-politico-culturale che l’ha generata.
In questo intervento mi propongo di avviare una riflessione su quegli “sconfinamenti” teorici e metodologici che condividono l’ambizione a un rinnovamento nelle prospettive di studio sull’Islam. A partire dagli stimoli etnografici ricavati da ricerche in corso sul rapporto tra migrazioni e rituali nella regione maghrebina e nel solco di quegli studi che, specie in ambito antropologico, negli ultimi anni hanno provato a individuare le reciproche interazioni tra sacro ed esperienza sociale quotidiana, vorrei mettere in evidenza come l’Islam – inteso nelle sue molteplici ramificazioni etico-morali, teologico-dottrinali e politico-sociali – possa essere prolificamente colto ed esplorato oltre gli ambiti e le pratiche cui esso viene “naturalmente” ascritto. È il caso dei contesti della migrazione (“regolare” e “irregolare”), nei quali l’Islam stimola la riflessione e la proiezione immaginativa degli attori sociali, l’interrogazione delle appartenenze comunitarie e la messa in forma delle soggettività individuali e collettive, imponendo lo sconfinamento del nostro sguardo oltre gli steccati delle consuete demarcazioni disciplinari.
Anzitutto, riconosciamo un dato molto prosaico del quale bisogna debitamente tenere conto, in quanto esercita un’influenza sul sapere che costruiamo come comunità scientifica. Gli attraversamenti, gli sconfinamenti, i confini categoriali – quelli per cui definiamo la categoria analitica di religione, identifichiamo una pratica come islamica, ecc. – sono decisivi nella nostra postura e soprattutto nella nostra carriera di studiose/i. Essi non riguardano sic et simpliciter un fatto intellettuale o simbolico, ma investono l’attraversabilità di spazi scientifici, la riconoscibilità e dunque le possibilità di successo di un percorso intellettuale, professionale, accademico. Dunque non è banale ricordarci che le categorie con cui facciamo scienza e di cui discutiamo sono consustanziali anche all’esigenza di vivere nell’accademia, tanto più in quella neoliberale con le sue dinamiche e le sue esigenze di messa a valore e di profittabilità dei prodotti della ricerca. Si tratta di un’operazione mai innocente o slegata da un’economia politica della produzione intellettuale che guida il nostro fare ricorso a talune categorie piuttosto che ad altre, il nostro isolare i fatti sociali piuttosto che complessificarne la decodifica all’interno di quei concatenamenti sociali nei quali tendono a presentarsi prima che li isoliamo per descriverli, astrarli, dare loro un nome.
Dov’è la religione? Cosa definisce “religiosa” una pratica? Perché studiarla, ad esempio, inquadrandola in un sotto-campo disciplinare piuttosto che in un altro? Sono questioni epistemologiche e metodologiche con cui ci confrontiamo da tempo: già Clifford Geertz affermava che le forme simboliche servono propositi molteplici e che dunque non è facile tracciare una linea tra performance religiose e performance non religiose.
In antropologia, negli ultimi due decenni, lo studio della politica e dello Stato è andato incontro a un ampliamento dei confini entro cui studi e ricerche avevano collocato la sfera politica, le sue configurazioni, regole e princìpi. Tutto è politica, si è detto, e dunque ci si è convinti, a torto o a ragione, che attraverso una pratica di ricerca rigorosa sostenuta dall’etnografia, gli antropologi potessero individuare la presenza e l’azione dello Stato, ad esempio, laddove altre tipologie di studiosi non avrebbero nemmeno immaginato potesse annidarsi – si pensi al lavoro dei funzionari delle pubbliche amministrazioni o a quello della burocrazia (Herzfeld 2022).
Mi sembra che tentativi di sconfinamento siano rinvenibili nella produzione antropologica più recente intorno all’Islam. Cos’è l’Islam? Cos’è “islamico”? Sono alcune delle domande che con maggiore insistenza hanno accompagnato l’emergenza e il consolidamento dell’antropologia dell’Islam – ed è curioso, ma comprensibile, constatare come gli studi antecedenti alla definizione di questo campo o sottocampo disciplinare trattassero già di Islam e con grande disinvoltura, ma ricomprendendolo all’interno di intelaiature sociali più ampie: studiosi come Evans-Pritchard, Michael Gilsensan, Raymond Firth, Fredrik Barth, Jean Duvignaud, a oggi autori non ritenuti di una qualche centralità nell’elaborazione antropologico-teorica sull’Islam, sono riusciti con una certa disinvoltura a trattare della religione dei musulmani ponendola in relazione a dinamiche politiche ampie e globali. Gilsenan nel 1982 intitolava un’importante monografia nella quale condensava i suoi lavori sulle società musulmane Recognizing Islam, indicando pertanto un certo problema di identificazione e riconoscimento dell’Islam, e in cui evocava un problema epistemologico e metodologico di base nel cogliere e apprendere l’Islam “nella pratica”, laddove esso è inestricabilmente legato a molte dimensioni della vita sociale in modalità cangianti e non semplici da individuare.
Riferimenti analoghi possono essere presentati con una certa facilità, essendo ricorrenti nella storia degli studi: è il caso di concetti come quello di Islamicate, che nella formulazione di Marshall Hodgson non afferisce direttamente alla religione ma a quel complesso socio-culturale (incluso pratiche, generi e comportamenti a ben vedere non letteralmente islamici, come la poesia bacchica) associabile all’Islam tanto dai musulmani quanto dai non-musulmani. O, in tempi più recenti, alle domande di Shahab Ahmed o ancora alla necessità che percepiamo di dover tirare una linea, come scrive Samuli Schielke (2018), per stabilire dov’è l’Islam, come quando ci confrontiamo con gruppi o persone che non attuano una pratica religiosa puntuale, che non orientano in modo limpidamente pio le loro condotte morali, che non interpretano continuamente in senso religioso le loro aspettative, il loro passato, le loro ambizioni. Qui il discorso si complicherebbe, perché inevitabilmente – e succede a molte/i di noi quando si fa antropologia sul o dell’Islam – la curvatura scientifica del nostro posizionamento tende a coincidere o a riflettere o a riproporre intenti normativi che nel dibattito di ogni tempo e di ogni luogo che attraversa le società musulmane ripropone la stessa domanda: è islamica questa pratica? E se sì, fino a che grado?
In una ricerca di ormai qualche anno fa condotta in Tunisia, ricordo che il primissimo confronto con un gruppo di giovani musulmani conservatori era nato dalla premessa di definire quale fosse il “vero” Islam, quale fosse il suo nucleo teologico e devozionale a partire dal quale riconoscere i “veri” dai “falsi” musulmani. Possiamo qualificare come “islamico” un discorso, una pratica, una ricerca anche se l’ambito indagato oltrepassa quello strettamente rituale, che nella maggior parte dei resoconti antropologici definisce un comportamento simbolico, pubblico, standardizzato, convenzionale, distanziato dalle emozioni private dei soggetti?
In un illuminante e ben conosciuto articolo, Saba Mahmoud (2001) ha invocato un’estensione dello spazio rituale non concettualmente separato dalla vita quotidiana, scrivendo come la preghiera instilli un modo di essere e di agire che infonde la qualità dell’essere vicini a Dio su aspetti religiosi e mondani della vita dei credenti, da cui deriva la proprietà pedagogica dell’esecuzione rituale e delle posture corporee che è al contempo un’educazione sentimentale in grado di coltivare disciplina morale e, attraverso quest’ultima, di modellare le emozioni individuali. Nel paradigma della pietà islamica verrebbe dunque a determinarsi un continuum tra comportamento convenzionale e stereotipato – come è per definizione quello rituale – e routine o azioni strumentale, così come tra performance ed espressione spontanea delle emozioni – da cui il titolo di quell’articolo, Rehearsed Spontaneity.
E dunque, cosa riflette questa domanda di localizzazione della religione, in questo caso dell’Islam? Oltre a riflettere ambiti di ragionamento e discernimento morale che segnano la riflessione sapiente islamica contemporanea, tale questione segnala anche un disagio scientifico che affiora con particolare nitidezza quando la religione tende a essere collocata entro recinti angusti, al riparo dalla «produttività illimitata della vita sociale», come ebbe a scrivere Lara Deeb (2015) in uno stimolante e noto dibattito intessuto con Nadia Fadil e Mayanthi Fernando. È l’angustia in cui la categoria di “secolare”, se applicata in senso essenzialista o teleologico, o dimenticando le reciproche interazioni tra secolare e religioso all’interno delle quali viene prodotto il “religioso”, lo spazio occupabile dalla religione, fa precipitare le persone e i contesti “musulmani” in cui svolgiamo le nostre ricerche, non foss’altro per l’esigenza che il “secolare” ha di delimitare quello spazio, di emendarlo, circoscriverlo, definirlo anche giuridicamente in modalità compatibili con il funzionamento di uno spazio politico liberale plasmato dallo Stato-nazione.
Una bella declinazione di Islam è stata proposta da Anne-Marie Mouline (2013), che in un testo dedicato alla medicina e ai cambiamenti nelle pratiche e nei discorsi sul corpo che le trasformazioni del campo medico hanno portato nelle società musulmane, descrive l’Islam non come una cultura specifica che stabilisce una barriera e una differenza irriducibile tra chi o cosa è islamico e chi o cosa non lo è, ma come una “modulazione” di problemi comuni agli uni e agli altri, all’interno e all’esterno del Dar al-Islam. Questa prospettiva potrebbe apparire impoverente rispetto alla complessità dello studio dell’Islam nella sua ricca sedimentazione di tradizioni, pratiche, discorsi, posture devozionali, progetti etici, ontologie, ma andrebbe intesa come una “lente” buona per riequilibrare l’osservazione dell’Islam e dei fedeli.
Definire le religioni
Eppure, a ben vedere, queste problematiche di “messa a fuoco” non riguardano solo l’Islam, ma investono la categoria antropologica di religione nella sua intera estensione. Talal Asad (1993) ha ampiamente argomentato come ogni definizione universale di religione, da cui tuttavia dipende la sua individuabilità analitica, poggia su un oscuramento di quei processi discorsivi e autoritativi storicamente determinati che “fanno” la religione, secondo la ben nota lettura asadiana dell’Islam come “tradizione” rispondente a determinati processi autoritativi e di potere con cui pratiche e discorsi “islamici” vengono legittimati e riprodotti nelle società musulmane. Da questo inquadramento epistemologico deriva la messa a punto di una “modesta visione di religione” in termini di “credenza” individuale e privatizzata, coincidente con quella che Asad riconduce a una ben precisa genealogia, inerente alla Cristianità post-riforma nell’Europa moderna illuminista, e determinante una riduzione delle pratiche in testi, un appiattimento secolar-liberale delle forme di vita religiose su princìpi, dottrine e atti individuali comodamente separabili dalla politica, dalla scienza e dalla legge [1].
Le considerazioni di Asad sono articolate nella forma di un confronto polemico con Clifford Geertz (e, in misura minore, con Marshall Sahlins) e la sua lettura della religione in termini di sistema simbolico-culturale, responsabile di confondere i simboli e i processi di simbolizzazione con il loro collocamento all’interno di un edificio cosmologico, operazione che – per Asad – avviene sempre secondo una trama che coinvolge diversi livelli di potere e autorità. Pertanto, ragionare sulle complicazioni della traducibilità trans-culturale di “religione” può trovare applicazione anche sul terreno del Cristianesimo.
In effetti, le riflessioni che muovono questo contributo sono stimolate anche da una ricerca che negli ultimi tre anni ho condotto in un contesto religioso non islamico ma cattolico. Si trattava di una cattolicità “altra”, innervata di visioni del mondo non perfettamente delimitate all’Occidente – nonostante la sua origine colonial-missionaria – ma situate nell’instabile intersezione tra sistemi di pensiero e forme di vita porosi, aperti all’ibridizzazione di linguaggi, posture devozionali e tradizioni diverse (Buddhismo, Induismo, Cristianesimo). Nel caso etnografico di cui mi sono occupato negli ultimi anni, la devozione e la relazione al trascendente e alle entità meta-umane che lo abitano sono da un lato oggetto di valorizzazione da parte delle istituzioni ecclesiali cattoliche che vi ravvedono una prossimità al sacro sincera e autentica, merce rara in un Occidente di cui si constata l’irrimediabile secolarizzazione; tale prossimità, tuttavia, straripa in una intimità e in una personalizzazione dei rapporti con il sacro che interroga seriamente l’equivalenza tra religione e credenza individual-privata su cui si basano la pastorale cattolica e l’evangelizzazione post-coloniale nel quadro della modernità “secolare”, non sempre valutata in termini spregiativi nella teologia cattolica contemporanea (Autiero 1987).
Quando Dipesh Chakrabarti (2004) scrive come «essere uomini comprenda la questione della nostra relazione con divinità e spiriti» e, riprendendo le parole di Ramachandra Gandhi, afferma che «essere uomini significa scoprire la possibilità di evocare Dio o le divinità senza prima essere obbligati a statuirne l’esistenza», in fondo esprime un disagio similare che lo porta a escludere qualsivoglia sociologia della religione nella sua trattazione critica dello storicismo.
Di fronte a tali scarti interpretativi non sorprende che più di un autore abbia valutato la possibilità di impiegare una definizione politetica di religione che attinge al concetto di somiglianze di famiglia formulato da Wittgenstein per individuare quel comun denominatore al quale possiamo ricondurre le religioni nel loro complesso di esperienza del sacro, norme, istituzioni.
Eppure, nel senso comune così come in molte letture specialistiche l’Islam assurge a eccezione, descritto come un dispositivo nel quale fatto religioso e impianto normativo del fiqh sarebbero indistinguibili, assumendo la configurazione di una religione totale, totalizzante se non addirittura totalitaria, in cui ‘aquida (fede), sharia, dīn e dawla sono legati indistintamente, sebbene sappiamo che nella storia dell’Islam dīn e dawla raramente siano coincise perfettamente, anzi, è vero esattamente il contrario.
Nei Paesi arabi, ad esempio, fino all’inizio del XX secolo, il termine dunyawi designava ciò che non era religioso, che pertiene alla dunya, il “mondo di giù”, contrapposto al dīni, religioso, che concerne l’al di là, ukhrawi (Ferjani 2017). Quando nel corso del XX secolo emerge il concetto di madāni, civile, esso non presuppone necessariamente una separazione tra l’ambito religioso e quello non religioso, come è evidente nel rifiuto di questa dicotomia da parte di Mohammed ‘Abduh, rinviando a qualcosa di piuttosto diverso da ciò che la tesi della secolarizzazione prevede (Salvatore 2007), anche nelle sue versioni emendate – penso alla riflessione di Habermas sulla società “post-secolare” caratterizzate da pluralismo confessionale e in cui viene riconosciuta l’influenza delle religioni sulla sfera pubblica.
Islam in movimento
Vengo dunque all’ambito specifico dell’Islam in migrazione, momento di interrogazione dei confini geografici e anche comunitari, morali, politici. Dove “cerchiamo” e “situiamo” questo Islam sullo sfondo della pratiche e degli itinerari di mobilità transnazionale? Studiamo le moschee; i luoghi di culto; i garage e gli scantinati in cui ancora oggi le comunità islamiche sogliono riunirsi per pregare; le associazioni, che spesso intrattengono relazioni transnazionali con corpi sapienti che viaggiano tra sponde, gli ulāma e gli imam; le associazioni dei giovani musulmani? O possiamo forse considerare indice di pratiche e discorsi relativi all’Islam anche cioè che attiene a quei musulmani “scostanti” la cui pratica non è regolare e che per certi versi si distanziano dall’ortoprassi, adottando talvolta una pratica selettiva e ambigua, per cui si pratica il digiuno al Ramadan ma talvolta si consuma l’alcol?
Ecco, nelle migrazioni individuiamo il crocevia del sacro che può istituire anche una temporanea negazione o messa tra parentesi delle forme “corrette” di religiosità. Quando parlo di migrazioni mi riferisco a una molteplicità notevole di campi possibili di ricerca, compresa la musica trap praticata da giovani delle cosiddette seconde o terze generazioni, le generazioni di “nuovi italiani”; l’apertura di negozi halal; il rapporto tra tradizioni religiose e condotta quotidiana; la valutazione morale di una condotta illecita (tenendo a mente che i concetti cristiani di colpa e di peccato non hanno un’equivalenza adamantina nell’Islam) o la coesistenza di registri morali alternativi nelle grammatiche sentimentali, sessuali, estetiche.
Ma penso anche a recenti studi che invocano la reciproca fecondazione tra i valori liberali del multiculturalismo, sotto-testo di molte ricerche sulle migrazioni, i paradigmi morali e legali affermati in ambito internazionale nella governance delle migrazioni e gli studi dell’etica islamica. La riconcettualizzazione dell’esperienza della hijra, declinata oggi nei termini di un reverse hijra, garantisce ad esempio il confronto con le migrazioni dai Paesi musulmani verso quelli non musulmani, alimentando dibattiti sullo statuto politico e morale della cittadinanza non confinati alla classica dicotomia dār al Islam – dār al ḥarb. Oppure, come affermano gli autori di un interessante volume curato da Ray Jureidini e Said Fares Hassan (2020), Migration and Islamic Ethics, pensiamo all’elaborazione di quegli “impulsi morali islamici” che consentono di riconoscere quei principi in grado di fondare un’etica della mobilità a partire dalla normatività del Corano – quando si riconosce ad esempio il dovere di migrare per scampare a ingiustizia, persecuzione e oppressione, wajib al hijra, o si affermano i valori di ospitalità e fratellanza per alleviare l’impotenza che caratterizza chi è costretto a emigrare.
Abbas Barzeghar (2020) ha a tal proposito individuato l’emergenza contemporanea di una tradizione discorsiva islamica da cui derivano soluzioni etico-normative atte a delineare i contorni di un umanesimo universalista non secolare, a partire dal concetto di living fiqh, descritto nei termini di una teologia pratica in cui l’umanitarismo viene vernacolarizzato grazie all’apporto di un carattere religioso che l’autore ha rintracciato etnograficamente nei contesti dell’aiuto umanitario in Turchia e Siria negli ultimi anni, esaminando le retoriche e le pratiche di organizzazioni come Islamic Relief, in cui il principio del Tawḥīd viene declinato fino a comprendere la natura integrata e interconnessa dell’umanità, emanazione della creazione divina, o il concetto di Firah, su cui poggia l’assunto della sacralità e della dignità della vita umana. Questi esempi rivelano un adattamento pragmatico e eticamente fondato alla logica dell’umanitarismo, radicato in una tradizione discorsiva e performativa che è propria dell’etica islamica.
Si tratta solo di esempi che meriterebbero maggiore approfondimento, ma che cito per testimoniare alcune recenti elaborazioni teoriche, che maturano all’interno dei mondi dell’Islam, in cui troviamo il religioso fuori dalla sua collocazione più pura, apparentemente “naturale”, e che si confrontano con temi, contesti, fenomeni, processi sociali che segnano la vita di musulmani e non musulmani nel mondo.
Un ultimo esempio nel quale rintracciare quel crocevia del sacro in migrazione è l’esperienza della mobilità in condizioni di “irregolarità” politico-giuridica. Entrare nello spazio europeo senza documenti determina l’illegalità delle persone che vi accedono, sebbene questa modalità di mobilità rappresenti una delle poche possibilità di spostamento che porzioni tutt’altro che trascurabili di donne e uomini posseggono per muoversi nell’area mediterranea e oltre. In ogni caso, la produzione di soggetti “illegali” non è priva di conseguenze di carattere morale, interrogando in misura dirimente la liceità etica e religiosa di un atto che può configurarsi come trasgressione e limite (Cordova 2024).
Il ventaglio semantico presentato dal concetto di ḥarga – con cui nelle varianti maghrebine dell’arabo si suole definire la “migrazione” clandestina – è in effetti molto ampio. Ho avuto occasione di esplorarlo etnograficamente nel corso di studi sulla condizione giovanile contemporanea nella Tunisia post-rivoluzionaria (Id. 2022). L’ḥarga non è solo un atto individuale ascrivibile al superamento dei confini ma definisce un mondo di senso, comunitario e politico.
L’inscrizione della migrazione in un registro morale è agita da tutti gli attori coinvolti in discorsi, pratiche e politiche della mobilità. Anche il personale burocratico che lavora nelle istituzioni deputate al rilascio dei visti (come ambasciate e consolati) è chiamato
«a esprimere una valutazione morale sul candidato al visto, sondandone l’affidabilità e la credibilità – si tratta perlopiù di giudicare l’intenzionalità del soggetto migrante: “brucerà” una volta varcata la frontiera, trattenendosi in Italia (o in Francia o altrove) oltre la scadenza del visto? Rientrerà in Tunisia rispettando i termini temporali della mobilità “concessa” dalle istituzioni? Tra parametri oggettivi, imperscrutabilità dell’agire istituzionale – l’“illeggibilità” degli apparati statuali (Das, 2004) – e valutazione morale, il regime dei visti assurge a vero e proprio dispositivo biopolitico nel quale l’equazione tra “visto” e “merito” – evidente nella concezione del primo come bene scarso e il cui consumo va scrupolosamente soppesato – ratifica quasi ontologicamente l’inferiorità delle società di emigrazione (Garnaoui 2022), sui cui abitanti vengono evidentemente applicati quegli assunti classificatori e razzisti – quali la tendenza alla menzogna e l’insolenza – di cui la scuola psichiatrica coloniale francese ha fornito esempi tristemente noti» (Cordova 2024: 127).
La morfologia della parola ḥarga rinvia all’etimo ḥaraqa, verbo dal significato di “bruciare”. Bruciare documenti e identità, come fanno tanti migranti che giunti a destinazione provano a “rifarsi una vita”, assumendo una nuova identità. Ma non solo. Nei dintorni di Tunisi mi è stato spiegato che
«quando sei a un semaforo ed è ancora rosso ma tu passi lo stesso, velocemente, quello è “fare l’harga”. Così come quando sei in fila in un ufficio e la pratica per cui attendi viene espletata solo grazie a una conoscenza che ti permette di saltare la fila, se non addirittura attraverso il ricorso a una tangente. Si può allora ipotizzare che l’harga rifletta e sussuma una postura più complessa nei confronti dell’ordine sociale, ben al di là della pratica migratoria stessa, e che si carichi di prefigurazioni e ipotesi di riassestamento del piano dei rapporti sociali ordinari» (Id. 2022: 171).
Alla pratica migratoria “irregolare” e alle persone che la attuano viene così assegnato uno statuto ambiguo, tra celebrazione della temerarietà dell’atto e del successo dell’impresa dello sconfinamento – specie quando produce miglioramento sociale ed economico – e riconoscimento della ambivalenza morale di un’azione che implica la violazione delle regole, la consapevolezza della possibilità di trovare la morte in mare (il che la rende pericolosamente prossima al suicidio), la necessità di guadagnarsi da vivere con pratiche e mezzi illeciti. Può risultare sorprendente – ma non troppo – come alcune ricerche etnografiche condotte tra giovani candidati alla partenza nelle modalità dell’ḥarga abbiano evidenziato la complessità dei registri morali con cui i giovani maghrebini configurano commentari sociali complessi sull’esperienza migratoria, appropriandosi e vernacolarizzando saperi religiosi e posture morali rinvenibili nelle tradizioni religiose della mistica islamica e dell’Islam politico contemporaneo (Pandolfo 2007). Rischio, azzardo, morte in mare sollecitano il ri-pensamento di un’escatologia in cui il “ritiro” del migrante dalla propria comunità politica segnala anche una rottura morale che richiede una riflessione etica su se stessi ma che interroga al contempo l’abitabilità condivisa dei mondi sociali (Zigon 2007).
Ecco perché partire interroga i limiti dell’appartenenza politica e sociale – ma anche della fede. “Bruciare” le frontiere chiama in causa l’esperienza di esclusione e miseria sociale patita da quote consistenti di gioventù mediterranea, ma tocca anche «gli snodi […] della morte, del concetto di “limite” – inteso come perdita radicale di Sé e smarrimento, così prossimi all’apostasia – e delle disposizioni affettive della rabbia e del desiderio» (Cordova 2024: 127), interrogando il sacro e i suoi sconfinamenti.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
[*] Questo contributo è ricavato da un intervento realizzato all’interno del XVI Convegno della Società per gli Studi per il Medio Oriente (SeSaMO) – Università di Cagliari, 3-5 ottobre 2024 – e, nello specifico, nel panel coordinato da Gianfranco Bria e Fabio Vicini con il titolo Crossing and a Contaminations in the Study of Islam and Muslim Life.
Note
[1] Tale visione della religione risuona con parte dell’epistemologia islamica modernista e con la curvatura che in alcuni approcci sociologici all’Islam appare predominante nel paesaggio religioso contemporaneo. Penso all’enfasi sulla religiosità personale che Olivier Roy assegna all’Islam globale e ai cosiddetti fondamentalismi, da cui discende il peso che la soggettività, il corpo e l’ortoprassi ricoprono nelle posture devozionali di ampi segmenti dei pubblici islamici.
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Giovanni Cordova, ricercatore in antropologia culturale presso il dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Federico II di Napoli. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia, Antropologia, Religioni (curriculum etno-antropologico) presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma. Ha preso parte a progetti di ricerca inerenti al Nord Africa (Tunisia, Libia) e alle migrazioni internazionali. Negli ultimi anni ha condotto uno studio sulla ritualità religiosa delle comunità di origine asiatica residenti in Sicilia. Ha recentemente pubblicato per le edizioni Rosenberg&Sellier il volume Karim e gli altri. La gioventù tunisina dopo la Primavera (2023) e per le edizioni del Museo Pasqualino nella collana “Dialoghi” L’approdo e l’assedio. Prospettive mediterranee tra solidarietà e conflitti (2024)
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