di Marinette Pendola [*]
« - Comu si dici ‘nfrancisi lu pani?
Lu pani ‘nfrancisi si dici lu pen.
- E comu si dici ‘nfrancisi u vinu?
Lu vinu ‘nfrancisi si dici lu vin.
- E l’alivi comu li chiamanu?
L’alivi ‘nfrancisi si chiamanu li zitoun» [1].
Si potrebbe partire da questa scenetta tratta dal giornale satirico Simpaticuni per cogliere il melting pot che è la cucina siculo-tunisina. In effetti, in queste parole traspare il desiderio di penetrare nel mondo culturale francese considerato raffinato anche nelle sue espressioni culinarie, mentre di fatto, quasi a sorpresa, emerge alla fine l’elemento popolare rappresentato dal termine tunisino. Da queste poche righe si possono dedurre a grandi linee le caratteristiche dell’alimentazione dei siciliani di Tunisia. Tuttavia sarebbe utile anteporre alcune riflessioni di carattere generale per poi affrontare il campo specifico. Le pagine che seguono vogliono essere in sostanza un invito a riflettere sulla vicinanza non solo fonica fra sapore e sapere.
La celebre scrittrice canadese Margaret Atwood afferma che impariamo a mangiare ancora prima di parlare, in altre parole prima di esprimerci in una determinata lingua o di usare consapevolmente il maschile o il femminile per definirci: è un’ovvietà a cui però non abbiamo mai dato importanza, che abbiamo anzi considerato come elemento culturale marginale rispetto ad altri saperi considerati più nobili perché utilizzano la parola. Mangiare e parlare sono azioni che si compiono con lo stesso organo, ma non si pongono nello stesso modo. Secondo Serafino Amabile Guastella (1819-1899), uno studioso siciliano ottocentesco, il desiderio di mangiare domina nei poveri mentre la parola appartiene ai ricchi. In sostanza, mentre i ricchi, che non sentono l’impellente bisogno di riempire lo stomaco, usano la parola per raccontare, fra le altre cose, la Storia, i poveri consumano tutte le loro energie nel cercare di colmare il vuoto determinato dalla fame, tagliandosi fuori dal racconto della Storia. I poveri appartengono a una categoria a lungo marginalizzata, come marginale è sempre stata la presenza delle donne nella narrativa storica.
Cibo e donne vanno di pari passo poiché è nel silenzio delle loro cucine che le donne, incaricate da sempre di nutrire e accudire, hanno elaborato, a partire dalle materie prime fornite generalmente dall’uomo, ciò che noi consideriamo oggi come tradizione gastronomica. La creatività delle donne è sempre stata minimizzata – se non addirittura negata – in tutti i campi della creatività umana, a maggior ragione nei settori considerati secondari come l’alimentazione. Eppure la trasformazione della materia prima in pietanza cucinata è un atto culturale che rappresenta un punto d’arrivo di tecniche elaborate nel tempo e implica connotazioni specifiche.
Per fare un esempio, il fatto di trasformare la melanzana in caponata e non in moussakà o in ratatouille è decisamente connotante. La trasformazione delle materie prime non implica solo il nutrire, lo sfamare, ma anche – e direi soprattutto – trasmette sensazioni, desideri, perfino sentimenti e tramanda inoltre storie, mitologie e cosmologie. Basti pensare, ad esempio, alla leggenda legata alla cuccìa, alla simbologia del pane e del vino nella religione cattolica, ai divieti alimentari in quelle mediorientali.
Il cibo non nutre solo il corpo ma anche la memoria. Le abitudini alimentari acquisite nell’infanzia ci segnano in modo decisivo. I riferimenti letterari al cibo come memoria sono numerosi, il più celebre dei quali è certamente Proust con la sua famosa madeleine che, intinta nel tè, lo fa precipitare nella propria infanzia e diventa pretesto della sua scrittura. Come spiega chiaramente Vito Teti, le pratiche e i gesti alimentari affondano profondamente nell’infanzia poiché hanno “il sapore della madre”:
«Il volto materno della madre che parla e sorride, che porge il seno o dà la “pappa al bambino”, è decisivo per il formarsi della personalità, lo strutturarsi dell’identità, della memoria, delle sensazioni. Forse per questo “la lingua madre” e la “cucina della mamma”, per quanti mutamenti e arricchimenti e dilatazioni e anche tradimenti potranno conoscere, generalmente resteranno tratti indimenticabili, costitutivi dell’individuo» [2].
Il cibo dunque rivela l’attaccamento alle proprie radici, esprime quindi un valore identitario forte. E il legame con le proprie radici è tanto più forte quando, per necessità, ci si trova a dover prendere le distanze dal luogo di nascita. All’origine del viaggio che trasforma un individuo in migrante, c’è la necessità impellente di riempire lo stomaco. Scrive lo storico Piero Camporesi:
«La ‘civilizzazione’ ha camminato insieme alla storia perché ha avuto appetito, perché è stata spronata dai morsi della fame. Lo stomaco, inventore ingegnoso di tutte le scienze, è stato il motore occulto dello sviluppo, delle tecniche dell’organizzazione sociale, delle culture. La riflessione dell’uomo inizia partendo dal suo ventre» [3].
Nel lasciare la casa e gli affetti, il migrante porta con sé un bagaglio fatto di conoscenze, tecniche e gesti ancestrali, che deve adattare alle disponibilità delle proprie tasche e all’offerta di nuovi mercati, in cui a volte non trova gli ingredienti abituali, ma nuovi ingredienti che nemmeno conosce e che deve imparare ad adattare alle proprie abitudini e tradizioni. Soprattutto porta con sé i propri desideri: partire significa anche poter realizzare prima di tutto il sogno di soddisfare la propria fame. Nel film Nuovo Mondo (2006) di Emanuele Crialese, compare una scena emblematica dell’immaginario del migrante: il protagonista sogna l’America come un mondo in cui scorrono fiumi di latte e le olive sono grosse come meloni. D’altronde i canti popolari e la letteratura di emigrazione è ricca di riferimenti all’altrove – l’America in special modo – come paese di Cuccagna. Per fare un esempio – ce ne sarebbero tanti –, così va cantando Nanetto Pipetta, una sorta di personaggio picaresco le cui avventure sono narrate in veneto-brasiliano in Vita e storia di Nanetto Pipetta nassuo in Italia e vegnudo in Mérica per catare la cucagna:
Evviva la Mérica
Ze grande cucagna,
Se beve e se magna
E ligeri si sta….[4].
Non sempre, ma molto spesso, la cuccagna la si trova, nel senso che si riesce finalmente, dopo anni di sacrifici, a non sentire più i morsi della fame. Superato un primo shock culturale, la cucina familiare dei migranti si evolve, acquisisce nuove tecniche, introduce nuovi ingredienti, e s’imparano nuovi modi di stare a tavola. In sostanza ci si adatta al paese d’accoglienza e si fanno proprie alcune caratteristiche culinarie di quel luogo, giacché, come scrive Massimo Montanari «mangiare il cibo altrui è più facile (…) che decodificarne la lingua» [5]. Tuttavia, esattamente come la parola, l’alimentazione è un sistema complesso di comunicazione attraverso cui si trasmettono informazioni sulla cultura, le tradizioni, in fin dei conti sull’identità di un gruppo. Da una generazione all’altra, quest’identità d’origine si trasforma a contatto con altre culture, diventa altro: per esempio, in America, gli italiani diventano prima italo-americani, poi semplicemente americani e infine oggi, con orgoglio American-Italians, così come noi da siciliani in Tunisia siamo diventati siciliani di Tunisia.
Le ultime generazioni – noi – nel loro bisogno di ritrovare le proprie radici, scavano prima di tutto in quel tesoro di saperi che è la cucina di famiglia rappresentativa della comunità da cui provengono. La ricerca d’identità si esprime con un sentimento di nostalgia – di ‘nostalgia alimentare’, direbbe Vito Teti – che corrisponde in fin dei conti a un tentativo di recupero del cibo dell’infanzia. Nel suo romanzo The Lost Ravioli Recipes of Hoboken. A Search for Food and Family [6], la scrittrice americana Laura Schenone racconta la propria ricerca, attraverso il recupero della ricetta dei ravioli che la bisnonna Adalgiza preparava a Natale, della propria storia familiare con lo scopo di trasmetterla ai figli. Tuttavia, insieme alla ricetta, è andato perduto anche l’antico senso della famiglia e ora il pranzo di Natale è condiviso solo con i membri più stretti e non più con la grande famiglia, mentre continua la tradizione dei ravioli di Natale che tutti ormai comprano al supermercato. Quando finalmente l’autrice riesce a mettere le mani sulla ricetta dell’antenata, convinta di trovare, insieme al parmigiano e agli spinaci, anche la ricotta, scopre con stupore che la vecchia Adalgiza, non avendo quell’ingrediente a disposizione, utilizzava il formaggio Philadelphia! E quindi faceva ciò che abitualmente fa ogni migrante, ossia adattare le proprie tradizioni agli ingredienti che riesce a reperire nel luogo di arrivo, trovandosi quindi nella necessità di tradire in parte pur di rimanere fedele alla propria alimentazione.
Un bisogno simile a quello della scrittrice americana ha spinto noi in Tunisia a recuperare la nostra cucina, non tanto per una vaga nostalgia del tempo che fu, ma soprattutto per fissare, anche attraverso l’alimentazione, una storia d’integrazione. E l’abbiamo fatto un po’ nell’urgenza, con la consapevolezza che stavano scomparendo le persone depositarie di tali conoscenze. La nostra collettività ha attraversato più di un’epoca e più di una condizione: è passata dalla cucina contadina o comunque preindustriale, a quella industriale, da una cucina d’emigrazione a una diasporica. Rispetto all’esperienza della scrittrice americana, la nostra è più complessa poiché ha attraversato più culture e ha vissuto più di una migrazione.
Prima di intraprendere questo percorso, conviene scorrere rapidamente un po’ di storia dell’alimentazione all’epoca in cui i nostri emigrarono in Tunisia, ossia dalla seconda metà dell’Ottocento ai primissimi anni del Novecento. La cucina italiana come la intendiamo oggi – e soprattutto come la si intende a livello internazionale – non esisteva. Il primo ricettario che si pone l’ambizione di unificare la cucina così come i patrioti avevano unito il Paese è La Scienza in cucina o l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi del 1891. È un lavoro straordinario che si diffonde rapidamente soprattutto nelle classi medie e nella piccola borghesia senza mai raggiungere le classi popolari che, peraltro, erano analfabete. Puntando lo sguardo sulla Sicilia dell’epoca, esistono due cucine. Innanzitutto c’è la cosiddetta cucina di Monsù, appartenente all’aristocrazia e all’alta borghesia, a quelle classi sociali che si possono permettere un cuoco francese [7] o di alta scuola italiana. È una cucina barocca, ricca d’ingredienti e complessa nell’esecuzione.
La cucina che i siciliani portano in Tunisia è invece popolare, strettamente locale. È una cucina che utilizza tutto ciò che la natura mette a disposizione dell’uomo, come ad esempio le erbe di campo la cui disponibilità è immediata e non sottoposta a vincoli di carattere economico. Il clima e la flora che questi migranti trovano nel nord della Tunisia sono pressoché identici a quelli del luogo d’origine, per cui non devono nell’immediato operare adattamenti alimentari specifici. Semmai devono cercare di sopravvivere con quello che trovano. In un testo di presentazione della comunità italiana di Tunisia pubblicato nel 1906 in occasione dell’Esposizione di Milano a cura della Camera Italiana di Commercio di Tunisi, si legge a proposito dell’alimentazione dello sterratore siciliano che il suo vitto è costituito da “un po’ di pasta e le erbe che ha raccolto nelle ore di riposo attorno all’accampamento.”
Erbe e pasta sono gli elementi che connotano i siciliani agli occhi delle altre comunità presenti sul territorio tunisino. In effetti, tutti i soprannomi a loro affibbiati sono legati all’alimentazione: per i tunisini sono mangiatori di erbe selvatiche, oppure semplicemente bsal [8] o, quando va bene mangia babbusci, mentre per i francesi sono sales macaronis. Eppure quest’alimentazione non rimane chiusa nel proprio mondo, si apre alle altre culture alimentari con modalità diverse che rispecchiano l’evoluzione storica della comunità siciliana. L’incontro con la cucina tunisina avviene abbastanza rapidamente: nei cantieri, dove siciliani e tunisini lavorano a fianco a fianco, nei quartieri popolari, dove sono vicini di casa e lo scambio di piatti fra donne è un gesto comune, tipicamente mediterraneo. La cucina tunisina penetra senza particolari frizioni per due motivi: innanzitutto perché entrambe appartengono alla grande famiglia delle cucine mediterranee e sono rette dagli stessi principi; poi perché i siciliani nel loro lontano passato, hanno già incontrato l’universo alimentare tunisino che ha lasciato tracce tuttora visibili.
Una rapida evoluzione della cucina siculo-tunisina avviene dopo la Seconda guerra mondiale, insieme a un notevole miglioramento delle condizioni di vita, grazie all’introduzione di nuove apparecchiature per la cottura dei cibi e per la loro conservazione. Dal fornello a carbone dei primi tempi, si passa rapidamente alla spiritiera a petrolio o a cherosene, poi al fornello a gas, come dalla ghiacciaia si passa al frigorifero. Contribuisce a questa rapida evoluzione l’introduzione dei prodotti industriali, dal lievito per i dolci, al dado da brodo, a certi legumi e verdure in scatola (come i funghi, per esempio). Tutti questi nuovi prodotti e queste nuove tecniche permettono di semplificare il lavoro ma anche di accedere alla cucina francese in un momento in cui la francesizzazione della comunità si fa molto forte.
Nel decennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale, la penetrazione della cucina francese avviene con grande rapidità grazie alle ragazze siciliane che lavorano presso famiglie francesi, ma anche perché le giovani donne sono scolarizzate nelle strutture francesi e leggono in quella lingua le riviste femminili in cui spesso compaiono ricette. Proprio la francesizzazione fa sì che ci si accosti a quella cucina con vero e proprio spirito di emulazione. La cucina francese diventa un obiettivo da raggiungere: mangiare alla francese significa uscire dai vincoli di abitudini alimentari che richiamano alla mente i sacrifici della generazione precedente [9]. Per molti, non è soltanto l’espressione di un raggiunto benessere economico. Equivale a oltrepassare definitivamente un confine poiché appare difficile far convivere due mondi culturalmente distanti: uno più nordico e quindi abituato all’uso del burro e del latte, l’altro assolutamente mediterraneo. L’uno borghese, l’altro popolare. Accogliere la cucina francese significa far propri principi distanti dai propri parametri, come ad esempio sostituire l’olio d’oliva con il burro come fondo di cottura, accettare salse a base di latte come la besciamella, adottare nuove tecniche di cottura, modificare l’ordine delle portate aumentandone il numero con l’introduzione di nuove categorie come gli antipasti. Passare alla cucina francese, anche se per tappe e mai in modo totale, vuol dire accostarsi a un modo di alimentarsi ritenuto raffinato, in cui predominano le carni, e la pasta scompare, o perlomeno assume un ruolo marginale.
Ed è proprio intorno alla pasta che si gioca il passaggio da una civiltà culinaria all’altra. Coloro che hanno definitivamente scelto la nazionalità francese [10], ostentano disprezzo per quest’alimento che considerano rappresentativo di un mondo arretrato in cui era indispensabile per la sussistenza introdurre grandi quantità di farinacei. Il passaggio alla cucina francese non avviene in modo generalizzato. Per fare un esempio, l’uso del burro come fondo di cottura viene accolto per i piatti francesi, ma si continua ad usare l’olio d’oliva per quelli siciliani o tunisini. Capita, anche per i piatti francesi, di mescolare burro e olio in ugual quantità. E dopo un periodo di grande attrazione per quella gastronomia, si ritorna a un equilibrio fra la propria tradizione e gli apporti delle altre cucine. Rimangono nel bagaglio culinario dei siculo – tunisini alcuni piatti che si sono integrati perché sono in qualche modo in sintonia con la propria cultura gastronomica di base.
Di tutto questo patrimonio culturale che costitutiva la trama della vita quotidiana delle donne italo – tunisine oggi rimane poco, essendosi in qualche modo inceppato il meccanismo della trasmissione dei saperi da madre in figlia. Dopo la dispersione della comunità negli anni Sessanta del Novecento, qualcosa si spezza definitivamente. La cucina italo – tunisina diventa una cucina della migrazione, per cui è necessario adattare quotidianamente le proprie conoscenze ad altre realtà, far entrare gesti, ingredienti, modalità abituali in altri alvei. Nascono due filoni: quello della cucina quotidiana che pian piano si amalgama con quella locale, diventando sempre più italiana in Italia, ovvero piemontese, lombarda, emiliana, laziale, ecc…, e sempre più francese in Francia; e quella delle feste in cui si recuperano le antiche tradizioni. Quest’ultima finisce dunque per esprimere un valore identitario forte poiché da una parte accomuna tutti coloro che hanno la stessa storia alle spalle, ma nello stesso tempo li differenzia dagli altri, da tutti gli altri: dagli italiani e dai francesi in generale, ma anche dai siciliani stessi poiché, come abbiamo visto, pur conservando un fondo comune piuttosto evidente, le due cucine hanno intrapreso percorsi diversi. La cucina italo – tunisina diventa una cucina simbolica poiché mantiene vivi i legami dell’individuo con la propria comunità e quindi con la propria storia, una cucina della memoria, di una memoria attiva che si esprime con il recupero di modi antichi rinnovati e adattati al vivere attuale.
Per tornare al titolo, in questo percorso si coglie l’apertura verso le altre cucine con la generosa accoglienza di cibi estranei ma non appare chiaro quali siano stati i rifiuti. Che cosa sia un rifiuto in campo alimentare lo lascio dire a. Ahmed Somai che racconta così un episodio specifico della sua vita, quando decise di annunciare al padre la volontà di sposarsi:
«Ho preso il mio coraggio a due mani e gliel’ho detto: “Mi sposo con un’italiana!”, tutto d’un fiato. A lui, invece, mancò il fiato. Diventò rosso come un pomodoro, congestionato e uscì con questa sentenza, urlata, con gli occhi sgranati e la bava alla bocca: “Come? Ti sposi con una mangiatrice di ranocchie?” Io non avevo mai visto la mia futura moglie mangiare le ranocchie (…), e offeso e scandalizzato per la grave ingiustizia risposi urlando: “Non è vero! E anche se fosse la sposo uguale”. (…) Più tardi capii che mio padre, nel suo furore contro il mio progetto era andato a cercare l’aspetto più inaccettabile di quell’estranea che gli rubava il figlio, più inaccettabile del suo essere italiana, o cristiana, o “rumia”: è il fatto che mangiava le ranocchie. Non è la diversità della razza o della lingua o della religione che è motivo di rifiuto ma la diversità della sua cultura culinaria» [11].
Inaccettabile è ciò che si discosta in modo molto evidente dalla propria tradizione. Nella cucina siculo-tunisina, la resistenza verso nuovi cibi avviene soprattutto da parte dei membri più anziani della comunità, in modo particolare nei confronti della cucina francese, troppo distante dai propri parametri. Tuttavia tali forme di rifiuto vengono con il tempo smorzandosi. Un’altra forma di rifiuto è, come abbiamo già notato, quello della pasta nei siciliani francesizzati. C’è infine una forma di rifiuto che, di primo acchito, può apparire paradossale. Il nucleo siciliano di quella cucina rimane saldamente legato alla propria tradizione e si tramanda da madre in figlia con una fedeltà assoluta, mentre la cucina siciliana ‘di Sicilia’ evolve avvicinandosi, con il miglioramento delle condizioni di vita, alla cucina aristocratica. Per fare un esempio, la pasta alla milanisa prevede fra gli ingredienti anche l’uva passa e i pinoli, ma quest’arricchimento dell’antica ricetta non viene accolto dai siculo-tunisini, un po’ perché hanno perso contatto con la terra d’origine e quindi non sono in grado di seguirne i percorsi di cambiamento, ma anche perché adattarsi a tale evoluzione rappresenterebbe un tradimento. È un rifiuto motivato quindi dalla forte necessità di rimanere fedeli alla propria storia culinaria. E la fedeltà è un tratto rilevante delle cucine migranti.
Il sistema alimentare dei siculo-tunisini dimostra, come avviene in tutte le culture alimentari, che, se da una parte è uno strumento di auto-rappresentazione, dall’altra si apre alle altre culture in uno scambio ricco di contaminazioni. Uno scambio, appunto: molto ha ricevuto, ma ha anche trasmesso. Basti pensare che la Tunisia attuale è il secondo Paese consumatore di pasta al mondo [12] .
I siciliani che lasciano la Tunisia dopo l’Indipendenza non hanno più la stessa identità degli antenati arrivati su quella riva: hanno attraversato altri mondi, hanno accolto altri saperi, hanno un’altra identità che, in parte rimane fedele alle proprie lontane radici, ma in gran parte si modifica e si adatta a nuovi valori. A mo’ di conclusione, vorrei riferirmi alle parole di Massimo Montanari il quale precisa che le identità non sono scritte nel cielo né tantomeno nel nostro DNA [13] ma che «si modificano e si ridefiniscono incessantemente, adattandosi a situazioni sempre nuove determinate dal contatto con culture diverse» [14]. Di conseguenza, «ogni cultura, ogni identità è un prodotto della storia, dinamico e instabile, generato da complessi fenomeni di scambio, di incrocio, di contaminazioni» [15]. La storia dei siciliani di Tunisia racconta che
«Il confronto con l’altro consente non solo di misurare, ma di creare la propria diversità. Le identità pertanto non esistono al di fuori dello scambio, e tutelare la biodiversità culturale non significa chiudere ciascuna identità in un guscio, bensì metterle in rete» [16].
Perciò, alla luce di queste parole, è oltremodo interessante seguire ciò che sta avvenendo nelle cucine delle donne tunisine che vivono a Mazara del Vallo. Si tratta, di fatto, di un laboratorio che in modo speculare rispetto a quello dei siciliani stabilitisi in Tunisia, sta creando – per riprendere le parole di Montanari – la propria diversità. Un percorso pertanto di grande interesse per noi.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
[*] Il testo è la versione ampliata e riveduta dell’intervento tenuto a Mazara del Vallo in occasione del Convegno “Matabbia. Siciliani in Tunisia, Tunisini in Sicilia. Esperienze di convivenza”, 11-13 settembre 2024.
Note
[1] Simpaticuni, anno XIII, n. 586, 13 gennaio 1923.
[2] Teti Vito, Fine pasto. Il cibo che verrà, Torino, Einaudi, 2015: 25.
[3] Camporesi Piero, La terra e la luna. Dai riti agrari ai fast food. Un viaggio nel ventre dell’Italia, Milano, Garzanti, 1995: 297.
[4] Bernardi Aquiles (fra’ Paulino de Caxias), Vita e storia di Nanetto Pipetta nassuo in Italia e vegnudo in Mérica per catare la cucagna, Ed. Fiorenzo Toso, Genova-Udine, Le Mani – Centro Internazionale sul Plurilinguismo, 2008. Citato in: Gian Paolo Gri, Il valore simbolico del cibo. Dalle etnoscienze all’antropologia delle migrazioni, in Oltreoceano. L’alimentazione come patrimonio culturale dell’emigrazione nelle Americhe, a cura di Silvana Serafin e Carla Marcato, n. 4, Udine, Editrice Universitaria Udinese, 2010: 27.
[5] Montanari Massimo, Il cibo come cultura, Roma-Bari, Laterza, 2006: 153.
[6] Schenone Laura, The Lost Ravioli Recipes of Hoboken. A Search forFood and Family , New York-Londra, W.W. Norton & Company, 2008; V. Daniela Ciani Forza, «Nespresso! What else?» Appunti sulla storia migratoria della cucina italiana negli USA, in Oltreoceano. L’alimentazione come patrimonio culturale delle emigrazioni nelle Americhe, cit.: 119-128.
[7] Il termine Monsù è la deformazione della parola francese Monsieur.
[8] Ossia ‘cipolla’, per l’uso di mangiare pane e cipolla in mancanza di erbe.
[9] Le carni vengono sempre più consumate a scapito dei farinacei. Si introducono ricette francesi nella preparazione delle verdure: ad esempio, si preferisce la soupe (in sostanza, una crema di verdure) alla minestra tradizionale considerata più rustica. Si condisce l’insalata non più con semplice olio e aceto o limone, ma con la vinaigrette.
[10] E che gli altri chiamano con disprezzo carni vinnuta.
[11] Somai Ahmed, La cucina che unisce, in Pendola Marinette (a cura di), L’alimentazione degli italiani di Tunisia, Tunisi, Ed. Finzi, 2005:85-86.
[12] Il consumo pro capite annuo è di 17 kg, contro i 23 kg dell’Italia.
[13] Montanari Massimo (a cura di), Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. VIII.
[14] Montanari Massimo, Il cibo come cultura, cit., 2004: 154.
[15] Ibid: 159.
[16] Montanari Massimo (a cura di), Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi, cit. 2002: VIII.
Riferimenti bibliografici
Camporesi Piero, La terra e la luna. Dai riti agrari ai fast food. Un viaggio nel ventre dell’Italia, Milano, Garzanti, 1995.
Montanari Massimo (a cura di), Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi, Roma-Bari, Laterza, 2002.
Montanari Massimo, Il cibo come cultura, Roma-Bari, Laterza, 2006.
Pendola Marinette (a cura di), L’alimentazione degli italiani di Tunisia, Tunisi, Ed. Finzi, 2005.
Oltreoceano. L’alimentazione come patrimonio culturale dell’emigrazione nelle Americhe, a cura di Silvana Serafin e Carla Marcato, n. 4, Udine, Editrice Universitaria Udinese, 2010.
Simpaticuni, Giornale Politico, Umoristico, Letterario, Dialettale, Tunisi, 1911-1933.
_____________________________________________________________
Marinette Pendola, scrittrice, è nata a Tunisi da siciliani nati a loro volta in Tunisia. Partita da Tunisi nel 1962, da allora vive a Bologna. Ha pubblicato: L’alimentazione degli italiani di Tunisia, Tunisi, Finzi, 2006; Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Gualdo Tadino, 2007. Per la narrativa, i romanzi: La riva lontana, 1° ed. Sellerio, 2000; 2° ed. Arkadia 2022; La traversata del deserto, Arkadia, 2014; L’erba di vento, Arkadia, 2016; Lunga è la notte, Arkadia, 2020.
______________________________________________________________