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Voci di donne, vite di uomini. “Storie minori” di siciliane in Tunisia

A passeggio per avenue Jules Ferry (Archivio di famiglia Contento Cangemi)

A passeggio per avenue Jules Ferry (Archivio di famiglia Contento Cangemi)

di Gloria Frisone [*] 

Le origini della diaspora italiana in Tunisia risalgono a una storia antica, scandita da diverse stagioni migratorie tra il XV secolo e il Secondo Dopoguerra (Speziale 2016, 21; Montalbano 2023). Ma la presenza di una vera e propria comunità diasporica che si percepisce e si autorappresenta nella categoria identitaria di “siciliani (e siciliane) di Tunisia” si installa solo dalla Seconda metà del XIX secolo, per raggiungere l’apogeo durante il Protettorato francese (1881-1956). Fu allora che i flussi migratori dalle coste siciliane cominciano a farsi tanto cospicui da condensarsi intorno a una categoria identitaria, oggi sopravvissuta nelle sembianze di una “comunità immaginata” (Anderson 1983).

Riprendendo la dicotomia tra “storia minore” e “storia maggiore” (Alfonso Campisi e Flaviano Pisanelli, 2024), questo contributo si sofferma, più in particolare, sulle storie minori di donne siciliane incontrate a Tunisi nel corso della mia ricerca sull’invecchiamento diasporico tra Italia e Tunisia.

Tale scelta, sorge da una circostanza del tutto accidentale: in occasione della terza edizione della manifestazione Matabbia, appena svoltasi a Mazara del Vallo dall’11 al 13 ottobre, sono stata invitata a intervenire in una tavola rotonda che aveva per oggetto esperienze e condizioni di vita di donne italiane e tunisine. Sollecitata da questo focus tutto al femminile, ho provato a riflettere su quali fossero gli elementi sostanziali e simbolici che caratterizzano in modo specifico le traiettorie esistenziali di donne mature e anziane di origine siciliana ancora oggi residenti in Tunisia.

Se vogliamo raccontare la Storia maggiore a partire dalle singole storie minori, le vite delle donne rappresentano le più “piccole” testimonianze che si possono raccogliere tra gli italiani e le italiane di Tunisia. In termini più formali, le storie di vita che emergono dalle voci di siciliane di Tunisia sono casi paradigmatici di piccole “storie minori”. Ora, proprio da queste testimonianze al femminile, si possono tracciare itinerari biografici di donne e uomini del passato, contribuendo a delineare la memoria storica, familiare, collettiva della diaspora siciliana in Tunisia.

9788854816831_0_200_0_0Al contrario, le pagine della “storia maggiore” sono costellate da presenze maschili, presenze ingombranti, quant’anche anonime. Con il protettorato francese aumentano cospicuamente i flussi di immigrati dalle diverse sponde del Mediterraneo. Si tratta perlopiù di lavoratori di bassa estrazione sociale – muratori, pescatori, agricoltori, costruttori edili, falegnami, saldatori – attratti dalla politica coloniale francese che dà impulso all’economia, in ambito agricolo, edilizio e infrastrutturale (Melfa 2008). Pertanto, mentre gli uomini ci hanno lasciato tracce concrete del passaggio degli italiani in Tunisia – nell’architettura, nell’edilizia, nella pittura – , le donne hanno veicolato voci e testimonianze orali, hanno condensato le proprie esperienze negli insegnamenti scolastici, nel sedimentare uno ordito sociale che passa dallo scambio culinario, nell’educazione dei figli, nella condivisione di un sapere quotidiano, popolare, in un linguaggio colloquiale ma forbito, antico (El Houssi 2005).

9788868513726_0_424_0_75Sono le donne che tessono le trame di questa lunga storia, che ricuciono i fili e smerigliano i ricordi, che recuperano i frammenti e riassemblano i lembi sfibrati di piccoli accadimenti lontani, impedendo loro di scivolare nell’oblio. Sembra dirci questo Marinette Pendola, scrittrice nota per essere stata lei stessa protagonista della diaspora siciliana in Tunisia, quando nel romanzo La lunga notte (2020a), lascia proprio a due donne Tanina e ‘Nzula il compito di salvare i ricordi di un terribile passato risalente al femminicidio della madre del protagonista-narratore.

Le donne hanno co-costruito comunità, hanno agito, operato, lavorato nello spazio domestico e locale, condividendo chiacchiericci e respiri, i passi lungo le strade, il cortile, la sala da pranzo, la tavola e talvolta anche il piatto con altre donne, uomini, bambini, tunisini, maltesi, greci, portoghesi, balcanici. «Un giorno la nonna se ne stava tranquilla in cucina», scrive Marinette Pendola in La riva Lontana (2020b). 

«Quella mattina non si erano visti arabi in giro. Non erano nemmeno andati al lavoro, era la festa dell’Aid el Kebir. Per tutti gli altri era un giorno qualsiasi e la nonna stava per mettere sul fuoco la minestra. Era intenta a pulire le verdure quando sentì tre brevi colpi allo stipite della porta. Si affacciò. Era Mohammed ed Hadj con una coffa in mano. [...] La nonna allargò i manici della coffa e vide una stoffa colorata che avvolgeva qualcosa. Prese il pacchetto, lo appoggiò sul tavolo e lo aprì, era un nel cosciotto d’agnello. Da quella volta, ogni anno per l’Aid el Kebir, Mohammed el Hadj arrivava con lo stesso dono e le stesse parole. E mai una volta fino alla sua morte venne meno al suo appuntamento annuale» (Pendola 2020b: 57). 

In una recente pubblicazione all’incrocio tra romanzo biografico e studio storico, Lorenzo Bonazzi (2024), giornalista e storico dell’arte nato a Bologna da famiglia di origine siculo-tunisina, ricorda come questa comunità si sia consolidata da una commistione di convivenza circostanziale e solidarietà organica, sorta da una condizione di comune miseria da cui si è generata coesione in un modo che potremmo definire “segmentario”: come a dire il nemico del mio nemico in fondo è mio amico. In altri termini, tale coesione converge nel comune contrasto al dominio coloniale francese. 

«Da tempo la condizione di difficoltà in cui vivevano [i tunisini] li aveva portati ad avvicinarsi agli italiani sia per solidarietà umana, sia nella lotta ai francesi, sebbene da prospettive e motivazioni diverse, instaurando uno stretto legame che ha cementato fortemente la tradizione comunitaria, linguistica e culturale italo-tunisina» (Bonazzi 2024: 147)[1] 

Lo scrittore ricapitola questa “storia maggiore” come pretesto per parlare di una “storia minore” molto più appassionante, “letteraria”, da romanzo, appunto: quella della nonna, una donna nata e cresciuta nella Tunisi siculo-araba di fine Ottocento.

Ebbene, le memorie delle donne sono depositi di storie minori che narrano anche le vite degli uomini. Ce lo dimostra la testimonianza di Rosalia [2], 69 anni, con origini nel trapanese, incontrata a Tunisi il 13 giugno scorso. 

«Io sono nata in Tunisia. Anche mio padre è nato in Tunisia, alla Goulette. Mentre il padre di mio padre è venuto da Trapani. Lui era un pescatore. È venuto molto giovane e si è sposato alla Goulette con una ragazza, anche lei originaria di Trapani. Da questa unione sono nati tanti figli, tra cui mio padre che era l’ultimogenito».. (Rosalia, Tunisi, 13 giugno 2024). 

Nel parlare della sua storia, Rosalia comincia a tessere una narrazione patrilineare del sé, rievocando le proprie origini siciliane attraverso la storia del padre e, prima ancora, del nonno. Nel farlo, Rosalia racconta di come italiani e tunisini vivessero vicini anche se non esattamente e non sempre insieme. 

«I siciliani che sono nati qui, un po’ come me, ma anche quelli che sono nati in Sicilia e che sono vissuti qui, frequentavano e abitavano nei posti dove c’erano i tunisini. Per esempio, nella Medina di Tunisi c’erano tanti siciliani, alla Goulette c’era la Piccola Sicilia. Qui ognuno stava per conto proprio ma rispettandosi reciprocamente. Siciliani e tunisini erano molto vicini per cui dagli uni passavano agli altri. Ecco perché nella lingua ci sono tante parole tunisine che sono penetrate nel siciliano anche se storpiate nell’accento» (Rosalia, Tunisi, 13 giugno 2024). 

Stimolata dal racconto personale e nel ricordo di un testo di Silvia Finzi (2004), le chiedo di parlarmi di come i mestieri di siciliani e tunisini si siano coagulati intorno a saperi e pratiche comuni. Nel farlo, Rosalia ricorda le attività produttive, commerciali, ittiche, le quali coinvolgevano perlopiù gli uomini, italiani e tunisini, uniti in un lavoro collettivo nel quale le donne erano perlopiù assenti o mute testimoni. 

«I siciliani che venivano qui erano prevalentemente originari del Trapanese. Nel Trapanese praticavano quasi tutti la pesca, quindi arrivando a La Goulette lì sono rimasti, perché la Goulette ricordava loro un po’ Trapani, per il porto, il modo di vivere…Quindi si sono messi lì e hanno lavorato con i tunisini che pescavano anche loro. Insomma, alla fine si è creato questo legame [...] Mio nonno, ad esempio, quando è venuto da Trapani praticava una pesca che secondo me qui era sconosciuta. Praticamente lui lo “scendevano” in mare con lo scafandro e, semplificando, andava a mettere delle specie di gabbie per i pesci in cui il pesce entrava ma non poteva più uscire. Quindi ha praticato la pesca, per tanti anni suppongo, finché la salute glielo ha concesso, perché è un mestiere molto duro quello del pescatore … » (Rosalia, Tunisi, 13 giugno 2024). 

Rosalia conferma l’ipotesi iniziale: se le donne ci hanno lasciato un sapere simbolico e memoriale dell’antica comunità siculo-tunisina tramandandolo lungo diverse generazioni, gli uomini hanno lasciato una traccia materiale di quel passaggio e di quella presenza scandita dal duro lavoro… 

«Perché i siciliani di Tunisia hanno fatto moltissimo, nei vari mestieri, prima nei piccoli mestieri ma poi, soprattutto quelli di seconda e terza generazione che avevano studiato avevano fatto delle cose…ci sono stati pittori, scrittori, architetti. Mentre i primi erano muratori. Tutti questi palazzi che stanno rompendo e distruggendo, peccato…! Comunque, quando guardi gli stucchi con la data di nascita di questi palazzi, ti rendi conto che sono tutti fatti da muratori siciliani. Loro non firmavano però erano dei veri e propri artisti che lo facevano e basta, erano dei semplici muratori e operai» (Rosalia, Tunisi, 13 giugno 2024). 

Crescere con questa storia familiare captata qui e là durante l’infanzia ha contribuito a costruire quella specifica identità di “siciliana di Tunisia” che rende attuale e significativamente denso il riflesso di quelle passate esistenze. È una forma di vita quella di Rosalia e di tante altre donne come lei che si riconosce e si autorappresenta come perennemente diasporica. Una storia che riporta la propria vita di donna a quella di un’altra donna, sua madre, unica dispensatrice di questo corposo passato familiare… 

«Devo dire che più passa il tempo più mi trovo vicina alle mie radici siciliane. Mia madre era nata in Sicilia e parlava tanto tanto, della famiglia, della nascita, delle cose. Una volta si è recata a Marsala dove è nata, con il padre che le ha fatto fare il giro dove abitavano prima, nella casa della nonna…. E io da piccola ho sempre sentito parlare di Marsala, Marsala, Marsala…All’inizio quando ero piccola non dico che mi dava fastidio però era un discorso che avevo sentito centinaia di volte. Poi piano piano si vede che queste storie hanno fatto un cammino nella mia mente e più passa il tempo più le sento mie… [...] Io mi sono sempre sentita siciliana [...], ma più passa il tempo e più mi sento attratta proprio dalle mie radici. E una cosa incredibile» (Rosalia, Tunisi, 13 giugno 2024). 

Tra queste radici profonde, Rosalia sceglie di attingere dal lato materno per costruire il proprio senso di sé. Nel farlo costruisce la propria identità soggettiva nel ricordo della madre e della sua esperienza diasporica spezzata tra un qui tunisino e un altrove marsalese. In questo caso a essere privilegiato è il legame di parentela matrilineare con cui Rosalia entra in un rapporto di continuità da cui scaturisce la propria istanza di soggettivazione. 

«Trapani [la sento] meno, anche se come ho già detto mio padre era originario di Trapani, forse perché non conosco tanta gente, non ci sono andata spesso…Forse se ci andassi più spesso mi sentirei un po’ più attratta [...] Ma… Marsala è Marsala non c’è niente da fare [...] È tanto bella Marsala. Ho voglia di piangere» (Rosalia, Tunisi, 13 giugno 2024). 

Con il passare degli anni, diventa più forte il senso di appartenenza a una terra lontana, la Sicilia, sempre presente nei racconti familiari, con particolare riferimento a Marsala, città natale della madre. Ciononostante, “sentirsi sempre più siciliana”, non significa rescindere i legami con la Tunisia dove Rosalia è nata, dove ha vissuto, è cresciuta e dove, infine, invecchierà… 

«Eppure, io sono nata qui. Qui ho la mia vita. Io vedrei male non vivere più in Tunisia, perché qui ho i miei riferimenti, ho una parte della mia famiglia che è ancora è rimasta [...] È vero che quando sono a Marsala – anche in altri posti ma soprattutto a Marsala, perché lì è nata mia madre – mi sento come se fosse casa mia, mi sento a casa. Ma la Tunisia resta il mio paese di cuore. Ci sono molto legata. Sono molto legata a questi luoghi e a queste persone [...] Se mi chiedono “tu chi sei?” In primis rispondo che sono siciliana e italiana, poi tunisina e francese a pari merito, a volte va più su una a volte più su l’altra» (Rosalia, Tunisi, 13 giugno 2024). 

al-di-la-del-mare-una-storia-italiana-tra-due-sponde-del-mediterraneo_foto-coperttinaCome emerge da simili frammenti narrativi, l’identità sia individuale sia collettiva si incardina intorno alla narrazione di due fulcri memoriali: da una parte la Sicilia, “patria originaria” con cui si rivendica un legame di sangue (Russo 2016: 103); dall’altra parte la Tunisia, Terra di nascita, crescita, vita. In entrambi i casi il rapporto con i luoghi e i legami di appartenenza da essi rappresentati, vengono ri-memorizzati (Russo 2020: 139) secondo un canovaccio narrativo socialmente e storicamente definito. Sono i “cadre sociaux de la mémoire” – racconti e miti familiari uditi, ri-narrati, ri-vissuti fin dall’infanzia – che, come afferma Halbwachs (1925), forgiano la memoria soggettiva nella più vasta cornice della memoria familiare e collettiva.

Ascoltiamo ora una voce diversa, immergiamoci nella storia minore di un’italiana di Tunisi che è anche una storia d’amore con il marito, defunto da parecchi anni. Il passato di Béa – sdoppiato in due luoghi di nascita, due terre, due orizzonti di appartenenza – rivive oggi in un vivace café del Bardo, dove lo scorso 24 giugno si è svolta la mia intervista. La donna, di 87 anni, arriva all’appuntamento accompagnata dalla figlia Dalia e dal genero Hamdi [3]. 

«Sono nata à Monte Erice. Je suis née à Monte Erice. Je suis inscrite là-bas. Et je suis aussi inscrite ici à Tunis. J’ai deux endroits de naissance. Je ne sais pas ce qui s’est passé. Mon père è venuto in Tunisia…dans les années ‘30. Moi je suis née en ‘37. J’ai deux sœurs avant moi e un frère. Mon père il a fait le gérant ici en Tunsie. A l’époque c’était le protectorat français. Les Italiens n’avaient pas le droit de posséder des biens. Il fallait avoir un Français dans l’activité. Comme dans notre boulangerie il a fallu un Français qui a fait le contrat avec ma mère [...] On a monté cette boulangerie à Massicot en ‘48. C’était sur la route de Beja…à Massicot, non pas loin du Bardo. À Massicot c’était que de français, il n’y avait pas d’italiens. Siamo stati lì fino al ‘60. Quand il y a eu l’Independence en ‘56 les Français ils sont tous partis. Ils ont été renvoyés. Et le commerce il devait avoir un gérant Tunisien. Sinon on aurait dû laisser la boulangerie. Heureusement mon père était bien vu par les Tunisiens. À côté de la boulangerie il y avait un kiosque. Ils ont fait le commerce avec mes parents. Donc, dans le weekend on faisait les gâteux et dans la semaine on vendait le pain. On avait trois ouvriers et en été on faisait arriver un pâtissier français. Tous les dimanches, comme il y avait l’église à côté, ça faisait un peu de mouvement samedi et dimanche mais plutôt le dimanche» (Béa, Il Bardo, 24 giugno, 2024). 

Da questo racconto emerge un senso di pluralità soggettiva, significativamente rappresentato dalla doppia cittadinanza che sfuma nel ricordo nebuloso di una “doppia nascita”. L’ibridazione identitaria di Béa emerge poi da un linguaggio miscellaneo che mescola parole italiane pronunciate con accenti del Nord e del Sud, parole francesi imparate tra i banchi di scuola e, talvolta, persino parole arabe che si fondono al dialetto siciliano. La sua storia, raccontata con questa affascinante lingua meticcia, ci parla di come un’identità ibrida e plurifocale si sia formata a partire dalla relazione di convivenza proficua che la sua famiglia intratteneva nel proprio “milieu de naissance”: la Tunisia agricola degli anni Quaranta e Cinquanta. È in questo luogo che Béa è cresciuta e che, a un certo punto si è innamorata. 

«Allora come ho cominciato a frequentare mio marito ? Quand il est venu à la boulangerie la première fois, on a sympathisé comme ça, sans se parler. Le lendemain il revient. Il était devant la boulangerie et on se regardait sans se parler. Parlavamo con gli occhi… Alors on s’est donné rdv et on s’est rencontré ici à Tunis [...] Et on s’est vu en ville, à côté de la cathédrale. Dès ce moment-là…mio marito veniva tutti i giorni a prendere la baguette. Parfois il était en service. Il ne pouvait pas venir la chercher. On appelait mon mari le petit gendarme. Il était jeune. Il avait 19 ans. Et moi j’avais 18 ans. Tous les matins il venait prendre la baguette et alors j’envoyais ma mère faire autres choses pour rester seule avec lui [...] Allora, quando è successo questo, mia madre, elle m’a envoyé en Italie pour m’éloigner de lui. Quando sono arrivata in Italia sono andata dalla mia zia a Ornavasso e mia mamma ha detto a sua sorella « non la fare venire più in Tunisia perché ha conosciuto un tunisino e io non voglio. [...] Mes deux sœur Josephine et Anna erano al corrente della mia relazione con un uomo tunisino. Le mie sorelle mi hanno sempre encouragée. Quand j’étais en Italie, mes deux sœurs se rencontraient avec mon mari en Tunisie. Elles on dit « on la fait retourner ». Alors là, à ma tante j’ai dit « là-bas en Tunisie j’ai un Tunisien Akeka[4] ». Elle m’a dit « mais il est comme nous ? ». J’ai dit «bien sûr il est comme nous». «Si zia sono come noi, solo che è un popolo povero perché i francesi e gli italiani non c’hanno lasciato niente». Così c’ho detto alla mia zia [...] Et comme ça [...], je suis rentré à Massicot à 6h du matin. Mais après 6 mois ils m’ont revoyé en Italie». (Béa, Il Bardo, 24 giugno 2024). 

41cdkcwovrl-_ac_uf10001000_ql80_Intanto, la storia minore di Béa interseca la storia maggiore della Tunisia postcoloniale. A metà degli anni Sessanta tramonta definitivamente il mito di questa “Tunisia plurale” – o Tunisie mosaique, diceva qualcuno (Alexandropoulos, Cabanel 2000). Con l’Indipendenza e la nascita dello Stato tunisino nel 1956, iniziano le politiche restrittive che incoraggiano gli europei a lasciare le proprie terre e a partire come profughi verso paesi d’origine che spesso nemmeno conoscevano (Finzi 2016: 56; Russo 2020: 137).

Le partenze dalla Tunisia iniziarono già a metà degli anni Cinquanta, senza scalfire tuttavia la percezione di essere parte di una comunità. Da questo momento, la comunità diasporica dei siciliani di Tunisia si fa sempre più “comunità semiotica” (Scarduelli 2013). Nel frattempo, la Tunisia da luogo fisico diventa luogo mistico, nel quale consolidare un senso di coesione e d’identità collettiva attraverso la narrazione memoriale della diaspora: una identità ricucita e rivissuta lontano dal proprio territorio socioculturale, abitando uno spazio simbolico e de-territorializzato, ri-materializzato dal racconto di parenti, amici, familiari…

Infine, il 12 maggio del 1964 la collettività italiana fu definitivamente erosa dalle politiche postcoloniali di nazionalizzazione delle terre europee (Pasotti 1971: 165). Lo stesso anno gli italiani scesero a 10 mila individui (Finzi 2016: 56), e diminuirono di un ulteriore 70% in due anni. Per molti si è trattato di un esodo forzato (Pendola 2007; Morone 2015). Per la famiglia di Béa l’esito di queste politiche ha provocato una frammentazione e dispersione territoriale: i genitori hanno raggiunto gli zii in Italia, le sorelle più grandi erano già sposate con uomini francesi si sono trasferite a Marsiglia, lei alla fine è tornata in Tunisia, dall’uomo che sarebbe diventato suo marito e il padre dei suoi figli.  

«Ma mère et mon père ont eu deux jours pour vider la maison. Ils ont eu un centenaire pour ramasser le plus nécessaire et tout le reste ils ont abandonné. Mes sœurs s’étaient mariées. Les deux jeunes étaient déjà en Italie. Ma mère et mon père ont été rapatriés tous seuls. En deux jours ils ont laissé le magasin, la boulangerie…Li hanno portati in un posto sperduto dove facevano solo agricultura. C’était au Sud. Vicino a Messina. Tra Palermo e Messina. In campagna completamente. Non c’era niente, niente, niente. E lasciavano gli italiani lì per lavorare la terra. Sono partiti senza dirmi niente. Io ero da mia zia ma loro li hanno portati au centre de concetration. On n’avait pas de contact. Mais ceux qui avaient des parents au Nord si facevano fare una lettera. La mia zia li ha poi portati a Ornavasso. Quando ho saputo che i miei genitori erano in Italia ho pensato «mamma mia e come faccio ? Io voglio stare in Tunisia, non voglio stare in Italia».  Ça ne me plaisait pas rester en Italie. Ce n’était pas mon pays. Alors mon mari m’a dit : «Si tu veux rester en Tunisie on te fait les papiers et tu restes en Tunisie». Mais à ce moment-là mon mari avait 21 ans et moi 19 ans. On n’était pas encore marié et on ne pouvait même pas rester ensemble. C’était interdit complètement. Comme j’avais mon beau père qui travaillait pour les tribunaux il a pu me faire les papiers. Je rentre en Tunisie, je me rends auprès de mon beau père. La famille de mon mari m’a accueillie et on a pu se marier «à la française», à la Mairie du Bardo. Non potevo stare in Italia. Non so perché. Ce n’était pas que pour mon mari. C’est pour la Tunisie. Je ne pouvais pas rester loin, je ne pouvais pas rester dans un autre pays. À la fin mon père et ma mère ils étaient fous de mon petit. C’est une belle histoire. Une lieto fine» (Béa, Il Bardo, 24 giugno 2024). 
dal film "Maccarruni" di

dal film “Maccarruni” di Massimo Ferrara

Sono le più piccole tra le piccole storie minori quelle delle donne siciliane di Tunisia. Storie che ci parlano di due miti di fondazione su cui si tessono e ritessono trame narrative che servono a costruire una identità familiare e soggettiva (Fabietti, Matera 1999; Fabietti 2013).

Da una parte ci sono i legami di parentela, dall’altra il senso di appartenenza alla Terra natale. Per Rosalia a prevalere oggi è l’identificazione con le radici siciliane che riportano al passato marsalese della madre. Per Béa, invece, la storia d’amore con il defunto marito e padre dei suoi figli, rappresenta un retroterra narrativo nel quale collocare la propria scelta di vivere in Tunisia, di sentirsi tunisina, di vivere e invecchiare sentendosi tunisina. In fin dei conti, dice oggi Béa, circondata dall’affetto della figlia e di suo genero, “sono nata da una famiglia italiana e ho fatto nascere una famiglia tunisina”.

In questi molteplici passaggi identitari, spesso combattuti, conflittuali, mutevoli, riconoscersi nella categoria di “siciliane di Tunisia” significa decidere di enfatizzare una linea genealogica o un’appartenenza culturale e territoriale a scapito di altre (Russo 2020: 140).

L’identità si mostra qui nella sua “natura s-naturata”, performativa. E come in una fiction produce un senso di coerenza funzionale che conferisce stabilità e coesione a soggetti e collettività. Essa appare come un percorso in fieri, un prodotto narrativo, incompiuto e sempre aperto, che prova a tenere insieme brandelli di ricordi e frammenti di un racconto al femminile, cuore pulsante di piccole storie minori.

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024 
[*] Questo lavoro rientra nell’ambito del PRIN PNRR “Transnational Aging between Italy and Africa. Anthropological Perspectives (TAIA) [CUP F53D230110400001]. Coordinato dal Prof. Marco Gardini (Principal Investigator, Università di Pavia), il progetto di ricerca coinvolge l’Università di Pavia, Milano-Bicocca e Bologna. Per maggiori dettagli si rimanda al sito del progetto <https://taia.unipv.it/>. 
Note
[1] Si veda anche Albert Memmi, Portrait du colonisé, Paris, Gallimard, 1985:42-43
[2] Come vuole la prassi metodologica della ricerca etnografica, Rosalia è un nome di fantasia che serve a garantire l’anonimato della mia interlocutrice, rispettandone la privacy.
[3] Anche questi sono nomi di fantasia.
[4] Espressione del dialetto tunisino che in questa occasione può essere resa con l’italiano “perbene” o con il francese “un type bien”. 
Riferimenti bibliografici 
B. Anderson, 1983, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, London-New York, Verso.
J. Alexandropoulos, P. Cabanel (éds.) 2000, La Tunisie mosaïque. Diasporas, cosmopolitisme, archéologies de l’identité, Toulouse, Presses Universitaires Mirail.
A. Campisi, F. Pisanelli, 2024, Paroles et images d’une histoire « minore ». Lémigration sicilienne en Tunisie (XIXe et XXe siècles). Parole e immagini di una storia “minore”. L’emigrazione siciliana in Tunisia (XIX e XX secolo), Istituto italiano di cultura, Tunisi, Arabesques.
L. El Houssi, 2005, Viaggio nell’emigrazione femminile nella sponda sud del Mediterraneo. Due donne borghesi e comuniste a Tunisi: Nadia Gallico (Spano) e Litza Cittanova (Valenzi), in S. Luconi, M. Vaticchio (a cura di), Lontane da casa: donne italiane e diaspora globale dall’inizio del Novecento a oggi, Torino, Centro AltreItalie sulle migrazioni italiane.
U. Fabietti 2013, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Roma, Carocci.
U. Fabietti, V. Matera, 1999, Memoria e identità. Simboli e strategie del ricordo, Roma, Meltemi.
S. Finzi, 2004, Mestieri e professioni degli italiani di Tunisia, Tunisi, Finzi.
S. Finzi, 2016, Oltre i mestieri. Memorie, identità politica e rappresentazioni sociali dei lavoratori italiani in Tunisia, in L. Faranda (a cura di), Non più a sud di Lampedusa. Italiani in Tunisia tra passato e presente, Roma, Armando : 43-68.
M. Halbwachs,1925, Les cadres sociaux de la mémoire, Paris, Librairie Félix Alcan.
D. Melfa 2008, Migrando a sud. Coloni italiani in Tunisia (1881-1939), Roma, Aracne.
A. Memmi, 1985, Portrait du colonisé, précédé de portrait du colonisateur: et d’une préface de Jean-Paul Sartre, Paris, Gallimard.
G. Montalbano, 2023, Les italiens de Tunisie. La construction d’une communauté entre migration, colonisation et colonialisme (1896-1918), Roma, École française de Rome.
A. Morone, 2015, Fratture post-coloniali. L’indipendenza della Tunisia e il declino della comunità di origine italiana, in Contemporanea, 1: 33-66.
M. Pendola, 2020, La lunga notte, Cagliari, Arkadia (Coll. Eclypse).
M. Pendola, 2020, La riva Lontana, Cagliari, Arkadia (Coll. Eclypse).
N. Pasotti, 1971, Italiani e Italia in Tunisia dalle origini al 1970, Tunisi, Finzi.
M. Pendola 2007, Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Foligno: Editoriale Umbra.
C. Russo, 2016, Sangue italiano, mente francese, cuore tunisino. Nazionalità tra percezioni e appartenenze, in L. Faranda (a cura di) 2016, Non più a sud di Lampedusa. Italiani in Tunisia tra passato e presente, Roma, Armando: 85-111.
C. Russo, 2020, I Siciliani nella Tunisie Mosaïque del XX secolo. Note etnografiche e fonti orali per una convivenza complessa, in EtnoAntropologia, 8(1), 2020: 135-154.
P. Scarduelli, 2013, L’Europa disunita. Etnografia di un continente, Bologna, Archetipo Libri.
S. Speziale, 2016, Gli italiani di Tunisia tra età moderna e contemporanea: diacronia di una migrazione multiforme, in L. Faranda (a cura di), Non più a Sud di Lampedusa. Italiani in Tunisia tra passato e presente, Roma, Armando Editore.

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Gloria Frisone è antropologa culturale e antropologa medica. Attualmente è assegnista di ricerca dell’Università degli Studi di Pavia nel quadro del PRIN PNRR, “Transnational Aging between Italy and Africa: Anthropological Perspectives” (TAIA). Dopo aver conseguito il Dottorato di ricerca in Anthropologie Sociale et Ethnologie dell’École des Hautes Études en Sciences Sociale, ha svolto attività etnografica in Seine-Saint-Denis (Île-de-France), grazie a una borsa post-dottorale della Fondation croix rouge française. È stata docente a contratto di Antropologia Medica e Antropologia Culturale presso l’Università di Milano-Bicocca, l’Università Milano e l’Università di Udine. Autrice di articoli scientifici nazionali e internazionali sui temi dell’invecchiamento globale e diasporico, ha da poco pubblicato la sua prima monografia intitolata Face à Alzheimer. L’expérience de la perte, CNRS Édition, 2024.

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