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Violenza di campo: le donne del caporalato

Donne braccianti nell'Agro Pontino

Donne braccianti nell’Agro Pontino

di Valeria Salanitro 

L’ area meridionale del nostro Paese è nota per l’arretratezza economica e sociale in cui versa, soprattutto nell’entroterra delle zone liminari rispetto alle c.d. zone sviluppate, secondo modelli capitalistici e liberisti. I modelli economici sommersi seguono, di pari passo, modelli statuali divenendo paradigmi alternativi per gli invisibili. Questa categoria sociale, sufficientemente stratificata, accoglie: migranti, di­soccupati, invalidi, stigmatizzati, e persino minori. Un puzzle umano il cui comune denominatore è: la sopravvivenza.

Soprav-vivere in un contesto liquido e multiculturale come quello odierno, dominato da logiche conflit­tuali e “pratiche di scambio illegali” è il modus vivendi di uomini e donne di nazionalità diverse che, pur di mantenere i propri familiari residenti altrove, entrano nel sistema del “Silenzio”. Le donne, in partico­lare, vengono assoggettate da pratiche di controllo sociale pervasive e annichilenti, sia in quanto soggetti giuridici che identitari, poiché: “Denunciare è affare da uomini” e comporta la perdita del posto di lavo­ro, così da innescare una spirale dalla quale non è facile uscire, soprattutto, per le donne, madri sole e to­talmente asservite.

Il caporalato si estrinseca in un complesso articolato di pratiche illegali, sessuali, minatorie e dominanti nei confronti di uomini e donne. Queste ultime rappresentano l’esempio emblematico di dominio maschile  di cui narra Bourdieu nelle sue ricerche tra i Cabili dell’Algeria. Ruoli naturalizzati M/F e talmente incorpo­rati, per le cui decostruzioni sociali è utile richiamare la metastoricizzazione del genere [1]. 

«Se il padrone ti chiedeva direttamente o tramite un caporale di andare a letto con lui dovevi andare a basta. Questo valeva sia per le indiane che per le rumene. Bastava che fossi una donna bella, non troppo giovane, e potevi ricevere questa richiesta. Allora avevi solo due possibilità: accettare e continuare a lavorare, oppure rifiutare e scappare. Dovevi lasciare tutto, anche i documenti negli uffici, e andare via, magari tornare a casa. Le donne, soprattutto indiane, non parlano di queste cose, a volte neanche coi mariti perché poi succedono casini. Alcuni uomini credono che la donna sia andata a letto con il padrone, anche se non è vero, e poi ci sono problemi seri in casa. Noi donne veniamo viste a volte come persone da sfruttare sotto le serre e anche a letto. I padroni pensano questo. Si sentono padroni dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici, questo è il problema. Se un giorno avessi una figlia non le farei mai fare la bracciante perché trovarsi in queste situazioni è davvero brutto» [2].
Donne braccianti nell'Agro Pontino

Donne braccianti nell’Agro Pontino

Quel turno di parola mancato, quel fruscio silente di corpi danzanti, supini e piegati al volere del padro­ne rappresentano il paesaggio umano e sonoro che abita invisibile tra i campi agricoli italiani. Terre fertili, coltivazioni intensive e umanità sterili, ma anche canicole e posture de-strutturate; capi e servi, eredità metastoriche di forme di schiavitù arcaiche. Uno scenario apparentemente “tipico” legato alla fatica dell’esser-ci tra i vinti del Mezzogiorno di verghiana memoria, in cui cogliere dimensio­ni latenti dell’es e politiche di esclusione sociale di identità sommerse; in una macrocornice segnata dalle agromafie [3].

I dati

Secondo il VI rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto Agromafie e Caporalato, in Italia i lavorato­ri irregolari in agricoltura sono 230 mila di cui 55 mila donne [4]. In Regioni ad alta vocazione contadina come Lazio, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, i numeri dello sfruttamento raggiungono percentuali del 40% ma i tassi sono importanti anche nel Centro-Nord: oscillano tra il 20 e il 30%. Li conferma l’indagine condotta dalla Guardia di Finanza dopo la morte di Satnam Singh, il bracciante lasciato morire dissanguato dal suo datore di lavoro a Latina: sulle 310 aziende controllate in un giorno, ben 206 sono risultate irregolari, quasi sette su dieci [5]. I dati rilevano che tra gli occupati agricoli non regolari, il peso dei lavoratori migranti quasi raddoppia (in particolare quello dei cittadini comunitari); in oltre il 70% dei casi si tratta di lavoratori dipendenti e, tra questi, si osserva una maggiore rilevanza degli occupati che lavorano in regime di part-time. Ne consegue che, in corrispondenza dei lavoratori con tali caratteristiche, i tassi di irregolarità assumono valori decisamente più elevati rispetto al tasso riscontrato per l’intero settore agricolo [6].

Bracciante nelle serre (ph. Javier Fergo per Terra!)

Bracciante nelle serre (ph. Javier Fergo per Terra!)

Ai sensi dall’art.603-bis c.p., così come riformulato dalla L. n. 199/2016, è vittima di sfruttamento lavor­ativo la persona il cui stato di vulnerabilità è tale da comprometterne fortemente la libertà di scelta, inducendola ad accettare condizioni lavorative inique a seguito di assoggettamento del proprio stato di bisogno da parte degli intermediari e degli utilizzatori. Il termine “caporalato” fa riferimento al sistema illecito d’intermediazione e sfruttamento del lavoro da parte di intermediari abusivi (caporali) che arruo­lano la manodopera. Tratto cruciale del caporalato è il monopolio del sistema di trasporto, che costringe i lavoratori e le lavoratrici a dover pagare una somma di denaro per il loro spostamento da e verso i luo­ghi di lavoro.

Tale sistema di intermediazione risulta più diffuso quanto è maggiore la distanza tra le aziende e le per­sone in cerca di lavoro e quando l’organizzazione del lavoro in squadre risulta particolarmente complica­ta [7]. Il fenomeno del caporalato è talmente strutturato e capillare, che prevede dei passaggi specifici, come osserva il Sociologo Eurispes Marco Omizzolo [8]:

«I trafficanti stranieri, in associazione con imprenditori criminali, reclutano un futuro bracciante nel Paese d’origine, gli fanno pagare cifre astronomiche per portarlo in Italia e lo inseriscono nel sistema quote del ministero dell’Interno [...] Una volta arri­vato, il bracciante lavora alle condizioni più convenienti per il datore di lavoro. È un sistema di tratta organizzato e paradossal­mente coperto, perché i trafficanti usano a loro vantaggio le contraddizio­ni della legge. Lo sfruttamento, così, è managerializzato in maniera sistema­tica ed evoluta. Non è solo l’espressione brutale legata a un gruppo di criminali, perché oltre ai trafficanti sono responsabili i datori di lavoro, i loro avvocati e commercialisti, e c’è anche la responsabilità politica di tutti i governi degli ultimi anni» [9].

Tale sistema di reclutamento attiva “leve” dai Paesi dell’Est, in particolare, Romania e Polonia, ma anche da tutto il continente africano e asiatico. Secondo l’Indagine sullo sfruttamento delle braccianti condotta da Marco Omizzolo, Margherita Romanelli e Bianca Mizzi, nell’ambito del progetto “Our Food Our Future per la Ong We World Onlus, da sempre in lotta contro la violazione dei diritti delle donne, le condizioni, in cui vivono le braccianti tra le aree dell’Agropontino e della Piana del Sele in provincia di Salerno, ma an­che nelle aree della Toscana, sono le seguenti:

«Nelle campagne dell’Agropontino, le lavoratrici indiane, rumene, nigeriane raccontano giornate lavorative di 16 ore, 7 giorni su 7, per 4,5-5 euro all’ora. Si lavora in ginocchio, con pause ridottissime, con pressione costante da parte dei caporali o dei da­tori di lavoro, in certi periodi a temperature altissime, insostenibili, respirando i pesticidi senza alcun dispositivo di protezione. Le donne, poi, rispetto agli uomini sono ancora più vulnerabili, ricattabili, sottoposte a varie forme di violenza e persecuzione. An­cora peggiore è la condizione delle braccianti indiane che hanno figli, perché subiscono ulteriori forme di ricatto e violenza pro­prio in quanto madri. […] Braccianti agricole immigrate sono cresciute del 200% in dieci anni, dal 2028, dove la discriminazione razziale si salda a quella di genere, e alle violenze perpetrate verso gli uomini si ag­giungono quelle sessuali: dagli insulti, ai palpeggiamenti, agli stupri. Uomini e donne trattati come strumenti, oggettivizzati in un sistema di vera subordinazione patronale, discriminazione, violenza. Nelle diverse forme di sfruttamento il controllo, il silen­zio, l’umiliazione, l’intimidazione, il ricatto rappresentano strumenti generalizzati di pressione e repressione tese a rafforzare l’isolamento ed evitare forme di ribellione» [10].
bracciante migrante

bracciante migrante (Osservatorio dei diritti umani)

Le donne invisibili: morire di stenti 

Il fenomeno delle mafie agroalimentari che dominano i territori più “fertili” di questo Paese, non è solo un prodotto di sistemi criminogeni organizzati e strutturati, ma sempre più veicolo di pratiche tanatoprassi­che e di morti preannunciate. Il modello di reclutamento riservato alle donne prevede un “rituale” specifi­co e riserba loro un coacervo di violenze, di sottomissioni, di marginalizzazioni, che, come abbiamo visto, spesso ne ha decretato la morte. La fatica sui campi, la violenza fisica, la derisione, l’umiliazione, lo sfruttamento più becero e violento del sesso femminile, passa attraverso le trame narrative del genere.

Le donne straniere, poi, non possono parlare in lingua, perché urtano la sensibilità dei caporali. Vengono rimproverate e offese con epiteti e commenti a sfondo razziale, xenofobi ed etnocentrici. Segno che la vio­lenza verbale anticipa le coercizioni fisiche cui sono sottoposte.

Le donne invisibili sui campi, che hanno perduto la vita per un paio di spiccioli, sono molte e anche giova­nissime. É il caso, emblematico, di Paola Clemente. Ci troviamo nelle campagne pugliesi. Paola, 49 anni, tagliava gli acini più piccoli dei grappoli d’uva, per portare a compimento il c.d. processo dell’acinellatura. La sua paga ammontava a 27 euro. Il 13 luglio del 2015, Paola Clemente sale su un autobus gran turismo alle 3 della notte muovendo dal comune di San Giorgio Jonico, in provincia di Taranto. Insieme ad altri 200 lavorato­ri sono diretti in contrada Zagaria, ad Andria, a circa 130 km di distanza. Già durante il tragitto, Paola ac­cusa diversi sintomi: una abnorme sudorazione, debolezza e pallore. Ma nessuno dei colleghi di lavoro av­verte l’autista del bus al fine di far deviare la propria corsa verso il più vicino pronto soccorso. Forse perché sanno, come lo sa anche Paola, che il lavoro non si può fermare e bisogna giungere in tempo ad Andria. Non si ferma, nonostante il sudore, continua al lavorare una volta giunta nei campi. Dopo un  paio d’ore, si accascia per terra. Alle 8,30, i medici non possono far altro che constatarne il decesso per cause naturali [11].

Il caso di Paola Clemente divenne fondamentale poiché la sua morte  ha acceso i riflettori sullo sfruttamento dei lavoratori nei campi e un anno dopo, il 18 ottobre del 2016, ha portato all’approvazione della legge per il contrasto al caporalato e al lavoro nero in agricoltura.

Le morti del caporalato sono tantissime e molte ignote o dimenticate come quella della giovane donna di 18 anni, Anna Maria  Torno. É il 1996 e la bracciante perde la vita in un incidente stradale a Ginosa, Taranto. Il caporale stava trasportando lei e altre donne in un pulmino sovraccarico.

Acinatrice

Donna impegnata nella acinellatura

Il Caporalato, purtroppo, non concerne solo le aree del tarantino, ma colpisce altresì l’area ionica. Anche i campi di fragole del territorio, soprannominato la “California d’Italia”, vedono protagoniste donne sfrutta­te per la coltivazione di colture prelibate nelle città di Matera, Taranto e Cosenza. Secondo il rapporto Ac­tioned Cambia terra. Dall’invisibilità al protagonismo delle donne in agricoltura [12], nelle aree che comprendo­no la Puglia, la Basilicata e la Calabria, ci sono ben 119 donne lavoratrici sui campi, di nazionalità molte­plici: bulgare, romene e africane. Le braccianti in nero percepiscono un compenso pari a 2,50 euro al gior­no, con elementi di contorno forse poco considerati: molestie, rischi, minacce e stupri veri e propri. Le pratiche mafiose esercitate dai caporali sono così capillari, che i casi rilevati in questi rapporti sono il­luminanti. Ebbene, le violenze sessuali che subiscono le donne hanno luogo sui mezzi che le conducono ai campi, nelle serre, dietro le colture, nei magazzini, negli alloggi. Ma l’essenza della devianza esercitata pro­segue alternando minacce relative all’offerta del posto, in cambio di prestazioni sessuali. Un ricatto vero e proprio, che assoggetta le donne dei campi. Il caso sollevato da actioned è interessante, dal punto di vista sociologico, antropologico e finanche politico e filosofico, poiché lo sfruttamento apre scenari reconditi e, forse, mafio­samente corretti. Il rituale è ben strutturato e cadenzato da fasi precise e determinanti. La donna fortu­nata che andrà a lavorare sui campi è “La prescelta”. In una mattina d’estate, la donna viene fatta accomo­dare sul sedile anteriore del veicolo, di fianco al guidatore/caporale. Sul cruscotto, una colazione invitante “cornetti e caffè”, questi i simboli del reclutamento. Se la donna accetta la colazione offerta dal caporale e quindi, ciò che ne consegue, la proposta sessuale latente, ottiene l’ingaggio. Il piano simbolico del cibo, ancora una volta, determina appartenenze e relazioni sociali. Oltre a denotare l’idea stessa del nutrimento, dell’occupazione e dell’incorporazione, i piani simbolici della violenza di campo attestano la dimensione corporea del fenomeno.

Donne braccianti

Donne braccianti

L’efficacia simbolica dei corpi sfruttati

I corpi delle donne tra i campi divengono strumento e prolungamento di quel sistema criminogeno che  si regge sulla subordinazione e sulla povertà di aree “sterili”. In quei fazzoletti di terre malsane e dedite alla criminalità organizzata è una risposta umana inevitabile al siste­ma di tutela e alle politiche economiche e agricole assenti,

Questi corpi supini, accaldati, esanimi, genuflessi al sistema deviato dell’agroalimentare, mercificati e stig­matizzati in quanto ignoranti, stranieri, ai margini della società, divengono volano di incorporazioni di pratiche di subalternità. La gente dei campi, che ben rimanda ai certi personaggi della letteratura ottocentesca, subisce e urla con un silenzio as­sordante la propria identità.

L’efficacia simbolica dei corpi femminili passa attraverso le proposte sessuali simulate dai cornetti, i  respiri sospesi, le mani sulle fronti, i dolori alla schiena, la vergogna e i segni delle percosse, le lacerazioni dell’anima, le ripercussioni fami­liari, le violenze domestiche dei mariti, il sudiciume dei caporali istituzionalizzati in microcosmi cri­minali; ma soprat­tutto il ricatto morale ed economico, che determina la subordinazione incondizionata del genere femmi­nile. Sono anche e, soprattutto, madri alle quali è negata la maternità, la tutela giuridica, ma anche effettiva, poiché spesso, per via dei turni di lavoro le madri sono costrette a lasciare i bimbi da soli.

Che fare? Le Onlus che si battono per i diritti delle donne propongono piani di interventi e pro­getti, che sanciscano l’affrancamento delle donne da questo stato di minorità. Questi corpi urlano giustizia. Perché denunciare, significa perdere il lavoro. Come osserva correttamente Francesco Gianfrotta:

«la repressione penale del Caporalato, in termini di legge, presenta delle lacune, che certamente impedisce la piena realizzazione delle sue finalità. [...] Mancano, infatti, disposizioni che incentivino le denunce delle vittime dei reati previsti. Queste ultime sono indotte a non ricorrere all’autorità per cessare le condotte illegali compiute ai loro danni dalla prospettiva della perdita del lavoro, che verosimilmente, seguirebbe alla denuncia dei responsabili (datore di lavoro ed eventuali caporali)»[13].

Di fatto, come evidenza Gianfrotta, la denuncia segue la perdita del posto di lavoro delle braccianti e dei lavoratori agricoli in nero e, pertanto, non c’è nessuna normativa che preveda il reinserimento del lavorato­re presso altra azienda agricola o cooperativa. Come evidenziato, la repressione penale non basterà per eliminare il fenomeno criminoso, bisogna intervenire su altri piani; ad esempio la proposta articolata dell’Osservatorio agromafie in merito all’assunzione dei braccianti che denunciano, appunto, oppure la Rete del lavoro agricolo di qualità, della quale possono far parte le imprese che non ricorrendo al lavoro illegale possano accedere a benefici previdenziali.

Poiché la dimensione nel fenomeno non è circostanziata al mero meridione, ma è giunta sino alle Langhe, tra i campi del Barolo, gli interventi sono più che mai necessari, nel caso di specie, ci si riferisce all’applicazione concreta del Tavolo del Caporalato (2018-Ministero del lavoro) [14]. Affrancarsi da questo stato di schiavitù, di servitù volontaria direbbe de la Boietiè, è quanto mai necessario. Chi è il Padrone? Chi è il Tiranno? Perché queste donne non possono disobbedire? Sembra di essere catapul­tati nel Regno di Tebe, in cui la legittimità delle tirannidi è determinata dal popolo stesso. Sovvertire l’ordine precostituito e scardinare sistemi criminali legittimati dall’economia sommersa, dall’assenza di dis­senso ed operare con pratiche dedite alla legalità e al supporto concreto dei braccianti, uomini e donne, senza distinzione di sesso, genere e appartenenza, questa la chiave risolutiva.

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note 
[1] P. Bourdieu, Il domino maschile, Feltrinelli, Milano, 2014. 
[2]Testimonianza di A.K., bracciante indiana, contenuta nella ricerca condotta da Marco Omizzolo, Margherita Romanelli, Bianca Mizzi, Lo sfruttamento lavorativo delle donne migranti nella filiera alimentare: il caso dell’Agro Pontino, We World Onlus, 2021. Nonostante le pratiche violente cui sono sottoposte, le denunce delle lavoratrici immigrate, in provincia di La­tina, sono inferiori di oltre il 60% rispetto a quelle dei loro connazionali uomini. La causa è da ricercare in un sistema pa­triarcale che scoraggia le stesse a sporgere denuncia. Mariti e familiari delle donne le inducono a non manifestare pubblica­mente e formalmente il proprio stato di sofferenza. Denunciare è considerato un ‘affare da uomini’. Il fatto che anche all’interno del proprio nucleo familiare le donne subiscano forme di pressione e colpevolizzazione, le porta inevitabilmente a normalizzare una logica padronale e machista che le vede subordinate all’uomo, padrone dei loro corpi e delle loro vite (Ibi­dem).
[3] Il termine agromafie indica le attività illegali della criminalità organizzata nel settore dell’agricoltura, che si realizza me­diante investimento e riciclaggio di denaro, truffe per ottenere fondi pubblici, contraffazione di generi alimentari e controllo sulla vendita dei prodotti nei mercati ortofrutticoli. Si riferisce alle mafie che cercano sempre più di controllare nella sua inte­rezza il settore agro-alimentare, in tutta la sua filiera, dai campi agli scaffali. E ciò avviene attraverso l’accaparramento dei ter­reni agricoli, l’intermediazione dei prodotti, il trasporto e lo stoccaggio fino all’acquisto e all’investimento nei centri commer­ciali. Tutti i passaggi utili alla creazione del valore vengono quindi intercettati e colonizzati. Le organizzazioni criminali im­pongono, con maggior vigore in determinate zone territoriali, i prezzi d’acquisto agli agricoltori, controllano la manovalanza degli immigrati con il caporalato, decidono i costi logistici e di transazione economica, utilizzano proprie ditte di trasporto (sulle quali spesso vengono anche occultate droga e armi), possiedono società di facchinaggio per il carico e lo scarico delle merci. Inoltre, negli ultimi anni, si può dire che esse arrivano fino alla tavola degli italiani, grazie all’ingresso diretto nella Grande distribuzione organizzata (Gdo) con supermercati e insegne proprie. Naturalmente questa presenza si ripercuote sul mercato, distruggendo la concorrenza e instaurando situazioni di monopolio od oligopolio. 
Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/agromafia_(altro)/ e il seguente link https://eurispes.eu/agromafie-capitolo-5-le-attivita-criminali/. 
[4] Nel rapporto si evince altresì, che le donne si trovano a vivere un triplice sfruttamento: lavorativo, per le condizioni in cui lavorano; retributivo, perché anche tra “sfruttati” la paga delle donne è inferiore a quella dell’uomo; e, infine, anche sessuale e fisico. https://www.fondazionerizzotto.it/wp-content/uploads/2023/01/Sintesi-VI-Rapporto_301122.pdf. 
[5]https://www.donnamoderna.com/news/societa/braccianti-sfruttamenti-abusi-precarieta?fbclid=IwY2xjawE%20QORNleHRuA2FlbQIxMQABHQGpyYaep8u7FBRip0W-VyofX3A_XBE2lUy3t0GuqlnhO8EWk_. 
[6] https://www.fondazionerizzotto.it/wp-content/uploads/2023/01/Sintesi-VI-Rapporto_301122.pdf. 
[7] https://integrazionemigranti.gov.it/it-it/Ricerca-norme/Dettaglio-norma/id/28/Caporalato-Quadro-normativo. 
[8] Marco Omizzolo è sociologo, giornalista e responsabile scientifico di In Migrazione, ricercatore Eurispes e Amnesty Intern­ational Italia. Lavora da molti anni sul tema delle mafie italiane e straniere in Italia, sulle migrazioni, sulla tratta internazional­e a scopo di sfruttamento lavorativo e sul caporalato. Tra le sue pubblicazioni scientifiche legate al tema annove­riamo: Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana, Feltrinelli, Milano, 2019; Per motivi di giustizia, Feltri­nelli, Milano, 2022; Essere migranti in Italia. Per una So­ciologia dell’accoglienza, Meltemi, Milano, 2019; Libere per tutte. Il coraggio di lottare per sé e per gli altri, Feltrinelli, Milano, 2022. 
[9] Intervista a Marco Omizzolo, reperibile al  seguente link:
https://www.donnamoderna.com/news/societa/braccianti-sfruttamenti-abusi-precarieta?fbclid=IwY2xjawE%20QORNleHRuA2FlbQIxMQABHQGpyYaep8u7FBRip0W-VyofX3A_XBE2lUy3t0GuqlnhO8EWk_
Così argomenta in merito alla questione sui crimini agroalimentari in Italia di Agromafie: «I lavoratori, in questo caso, dunque, vengono reclutati direttamente nei paesi d’origine, soprattutto in Romania, Bulgaria e Polonia, per i quali, in quanto paesi dell’Unione europea, vigono meno restrizioni nel superamento dei confini italiani (in alcuni casi, tali cooperati­ve provengono, in realtà, anche dal Sudafrica o dall’ Asia), applicando alla relativa forza lavoro il contratto previsto nel loro contesto d’ origine e per eseguendo il lavoro manuale nelle campagne italiane, con­sentendo una significativa riduzione dei costi ordinari di manodopera per le aziende agri­cole che ne fanno uso con conse­guente scorretto aumento dei profitti. Per contrastare questo fenomeno l’Italia, in attuazione della direttiva 2014/67/UE del Parlamento europeo, si è  dotata di una specifica legislazione di con­trasto contenuta nel D.lgs. 136/2016 che regolamenta il distacco dei lavoratori nell’ ambito delle prestazioni di servizi/appalti transnazionali».
Cfr. https://www.osservatorioagromafie.it/wp-content/uploads/sites/40/2019/02/Agromafie-6-rapporto.pdf. 
[10] https://back.weworld.it/uploads/2021/10/Ricerca-AgroPontino.pdf. 
[11] https://ilmanifesto.it/paola-clemente-morta-di-sfruttamento-in-un-campo-e-senza-giustizia. 
[12] https://www.actionaid.it/informati/pubblicazioni/cambia-terra. 
[13] F. Gianfrotta, «Caporalato e sfruttamento lavorativo: non solo la (sacrosanta) repressione», in Lavoro@confronto- Numero 64- Luglio/Agosto 2024. 
[14] Ibidem.

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Valeria Salanitro, ha conseguito una laurea magistrale in Scienze della Comunicazione Pubblica, d’Impresa e Pubblicità (curriculum Comunicazione Sociale e Istituzionale), presso l’Università degli Studi di Palermo; nonché un diploma in Politica In­ternazionale (ISPI) e uno in Studi Europei (I. Me.SI.). Ricercatrice indipendente, redattrice e autrice di molteplici contributi inerenti la Politica estera, le Scienze Umane e i Gender Studies. Ha collaborato con diversi Istituti e testa­te giornalistiche. Il suo ambito di ricerca verte sui Visual and Culture Studies e sulla Sociologia dei fenomeni Politici; si oc­cupa di immagini declinate in senso plurale, nonché dell’uso politico delle medesime nel contesto internazionale. Tra le sue pubblicazioni scientifiche annoveriamo: La rappresentazione mediatica dello Stato Islamico, edito da Aracne 2022 e Immagini di genere. Donne, potere e violenza politica in Afghanistan, Aracne 2023.

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