di Michele Santoro
Il nonno Vincenzo Santoro, nato nel 1866, era analfabeta ma aperto al mondo che cambiava. Nella Calabria del 1899, comprò prima un aratro “a carrello” che permetteva di arare il terreno in profondità per aumentare la produzione del frumento e poi una macchina per mietere il grano prodotta in Inghilterra, marca McCormick, che veniva trainata da due paia di buoi, quando la mietitura era effettuata tutta a mano con la falce.
Viveva a Galati, lavorava le colline di Altomonte ed arrivava fino al fiume Grondi. Grazie alla sua intraprendenza capì che aveva bisogno di spazi più ampi, pianeggianti e più produttivi e per questo nel 1922 comprò i terreni di Larderia – nella Valle dell’Esaro – dove in collina costruì la casa e dove si trasferì nel 1923 con tutta la famiglia che era composta dalla moglie Maria Caterina e 11 figli.
Qui inizia la storia di zio Domenico Antonio che quando arrivò a Larderia aveva 15 anni. Qui inizia una storia d’amore tormentata ed impossibile. Per questo il nonno lo “spinse” ad andare in America. Partì con la nave da Genova insieme ad altri di Altomonte ed arrivò dopo circa un mese nel Nuovo Mondo.
Dagli Stati Uniti subito dopo andò a Cuba. Da qui raramente scrisse qualche lettera o meglio si fece scrivere le lettere in spagnolo perché lo zio non sapeva né leggere né scrivere. La nonna Maria Caterina lo dette “perso per sempre”.
Le notizie erano frammentarie, sapevamo che si era sposato ed aveva dei figli. Nessuno ha mai dato altre notizie essendo Cuba fuori dal giro della nostra grande emigrazione.
E così nel 1975, cinquant’anni dopo la sua partenza, decisi di andare alla sua ricerca e partii per Cuba. All’Avana lo cercai inutilmente – la sua ultima lettera era stata spedita da questa città – quando finalmente scoprii che si era trasferito a Santa Clara (a 300 km dall’Avana).
Dopo varie peripezie che non racconto ci incontrammo. Fu un incontro memorabile, emozionante, straordinario. Era magro, sofferente e malinconico. Nell’incontro conobbi la moglie Soila e l’unico figlio vivo, Carlos, con la moglie di questo. Lo aggiornai su tutti i fratelli e sorelle, nipoti, su Altomonte ma la sua prima domanda – in spagnolo – fu sulla donna che aveva molto amato, il suo primo amore.
Parlava in spagnolo perché dopo 50 anni, lontano dal proprio luogo di nascita, non avendo più parlato “gavutimuntisu”, aveva totalmente dimenticato la sua lingua madre. Con sofferenza mi raccontò la sua vita.
“Arrivai a Cuba per andare a lavorare nel taglio della canna da zucchero”, cominciò il racconto. Dopo poco si sposò con Soila e all’età di 22 anni ebbe il primo figlio Raffaele e poi Carlos, Domingo e Teresa. Nel frattempo aveva aperto una birreria e gli affari andavano bene fino a quando si ammalò. Fu costretto a una lunga inattività (operato gli fu asportato un polmone, disse) per poi ricominciare a fare il contadino per mantenere, con un tenore di vita ben diverso, la famiglia. Ma il destino gli aveva riservato ben altro di peggio infatti la piccola Teresa morì sotto un bus e i figli Raffaele e Domingo di 27 e 17 anni di tubercolosi.
Nei suoi occhi la sconfitta con la vita. Benché riservato mi abbracciò tantissime volte sulla spiaggia di Varadero mentre scrutava i miei lineamenti per ritrovare i fratelli lasciati. Ho tentato di fargli ripetere alcune parole in altomontese, ho detto: ripeti “gaddru, gaddrina, gaddruccio”(gallo, gallina, galletto) ma si schernì e non pronunciò nessuna parola nel nostro dialetto. Una sorta di taglio con il passato.
Nel lasciarlo gli chiesi cosa avrebbe desiderato di più dall’Italia. Mi rispose che il suo desiderio più grande era ricevere una caffettiera “napoletana” (a Cuba il caffè veniva preparato scaldando l’acqua in un contenitore, poi si aggiungeva il caffè e successivamente veniva filtrato in un panno bianco).
Lo lasciai nel gennaio del 1976 e al ritorno comprai una caffettiera napoletana e cercai un gruppo (allora non si poteva andare a Cuba individualmente) che finalmente passasse da Santa Clara e così affidai ad un vigile di Milano l’agognato regalo per lo zio. Era l’aprile del 1976.
Al rientro il vigile mi telefonò. Mi disse commosso che aveva consegnato la caffettiera all’indirizzo di Santa Clara ma che purtroppo lo zio non potette riceverla: era morto la settimana prima! E per rendere il tutto ancora più triste mi riferì quello che lo zio Domenico disse in ospedale prima di morire al cugino Carlos: “Michele mi aveva promesso la caffettiera napoletana ma non me l’ha mandata!”
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
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Michele Santoro, ha studiato a Salerno dove si è diplomato, partito per Milano alla ricerca di un lavoro, ha trovato occupazione nel settore per l’organizzazione dell’ufficio per aziende multinazionali e successivamente ha fondato una piccola azienda nel settore informatico dove, ancora oggi, lavorano circa dieci persone (quasi tutti padani). Ha sempre avuto la passione per la fotografia, perché la madre contadina in ogni possibile occasione di festa familiare cercava di chiamare qualcuno per fissare il ricordo. Preferisce la fotografia sociale dove la presenza umana racconta una piccola storia. Ha fotografato quello che gli passava davanti, che gli offriva la vita, in vari viaggi nel mondo. Ha pubblicato un solo libro sul suo paese, Luoghi ritrovati, Altomonte negli anni settanta. Si definisce un dilettante perché fotografa per diletto.
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