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Poteri e magia popolare nella Sicilia del dopoguerra

da "La bocca dell'anima" di Carleo (ph. Floriana Di Carlo)

da “La bocca dell’anima” di  Giuseppe Carleo (ph. Floriana Di Carlo)

di Valeria Salanitro 

«L’occhio manifesta molte cose magiche, poiché incontrandosi un uomo con l’altro, pupilla con pupilla, la luce più possente dell’uno abbaglia e abbatte l’altro, che non può sostenerla» T. Campanella, Del senso delle cose e della magia. 

Un paesaggio innevato, degli scalini scolpiti, il silenzio roboante del paese di “Petrasanta” arroccato tra le Madonie di una Sicilia rurale del 1949, il volto pallido di un corpo segnato dalla guerra e stremato dalle vicissitu­dini di cui è portatore il protagonista Giovanni Velasques, sono i segni prodromici di questa narrazione antropologica, ispirata a una storia vera. Un racconto metastorico ed etnografico, in cui si in­trecciano magia popolare, tradizioni e poteri istituzionali.

“La bocca dell’anima” è un lungometraggio denso e, particolarmente, fascinoso. Le cui scene cadenzate da dicotomie cromatiche, rappresentate da un ordito narrativo che oscilla tra sacro e profano, illustrano le sorti dolenti di questo giovane “straniato” che torna al paese natio, dopo avere incorporato bombe di guerra e carceri punitive. Un ritorno combattuto, fatto di dolore, ma anche di audacia.

Adulato e stig­matizzato nello stesso tempo, i suoi contrasti emotivi vengono enucleati in ogni scena filmica. Così le cromie del bianco dei  monti innevati, del nero degli abiti e dei veli delle donne di paese, delle prefiche, dei mantelli scuri sulle spalle dei contadini straziati, insieme con le tonalità del rosso del focolare che arde nelle vene e nelle case in cui si svolge il rito catartico; il grigio delle cenere e, infine, l’azzurro del mare, ora tormentato, ora inerte, sono i segni patemici in cui si configura l’esondazione emotiva di Giovanni.

L’opera filmica presentata al 70° Taormina film festival 2024 è il prolun­gamento delle ricerche antropologiche condotte da Elsa Guggino [1] e delle indagini sul campo effettua­te sugli ultimi guaritori presenti in Sicilia, cui si è ispirato l’allievo, nonché regista, Giusep­pe Carleo [2]. Prodotto da El Deseo e Favorita Film [3], il viaggio tra le credenze popolari della comunità rurale siciliana am­bientata nel secondo dopoguerra, vanta un cast meritevole di plausi: Maziar Firouzi, il giovane italo-iraniano che interpreta magistralmente “U maru” Giovanni, protagonista che con i suoi dolori alla bocca dello stomaco, i suoi tremori, i suoi stati di trance in cui si dibatte lo spirito che lo pervade, ci conduce lungo il sentiero della magia popolare e della pra­tica della “fattura” della “maaria”. Figura rilevante nella narrazione è, indubbiamente, anche Angela, la splendida Marilù Pipitone, la fidanzata che attende il ritorno del soldato, au­spicando di poter convolare a nozze, custode del focolare domestico, procreatrice di un piccolo neonato purificato dal battesimo, donna che rap­presenterà l’antitesi al topic raccontato nella pellicola.

da "La bocca dell'anima" di Carleo

Angela, da “La bocca dell’anima” di Giuseppe Carleo

Il potere clericale e il carisma che un sacerdote può esercitare sulla comunità rurale di Petrasanta sono affidati alla bravura di Maurizio Bologna (Padre Pino), recentemente scomparso, che incorpora bene la sfida tra magia popo­lare, poteri altri e sfera cattolica. Altra protagonista indiscussa è a’ zia Mariannina, a’ zia, come sono solitamente apostrofate le maghe in Sicilia, l’attrice Serena Barone, la cui ese­cuzione viscerale conquista nell’immediato lo spettatore. Fautrice, mentore, guida taumaturgica durante il rituale di iniziazione, ma anche riferimento costante nel viaggio introspettivo e catartico di Giovanni, a’ zia Mariannina, è l’emblema della figura popolare della “majara”, colei che conduce e guida il cammino dello spirito dominante che invoca il corpo di Giovanni, tale Enrico Marchese, un giovane marinaio di origini straniere, che stava al fronte nell’isola di Pantelleria insieme al protagonista durante la guerra e che rappre­senta la polarizzazione di un amore conflittuale, annichilente e onnipresente.

Segue Don Minicu, altra fi­gura interessante, interpretata da Claudio Collova, il capo mafia di Pestrasanta, che gestisce i fondi dei contadini obbligandoli a dare i proventi delle terre e le terre stesse,  minacciando costantemente Giovan­ni, reo di non aver pagato “lo sbaglio” commesso dal padre defunto per non essersi piegato al volere del­la mafia. 

I luoghi dello straniamento: tra paesaggi sonori, corpi dominati e corpi dominanti 

La crisi della presenza di cui Giovanni diviene protagonista ha luogo nella bocca dell’anima (a’ vucca i’ l’arma), il primo iperluogo di questo rituale. Deputato a incorporare e far defluire i mali vissuti, lo stomaco e la sezione alta dell’epigastrio, la bocca, appunto, nella medicina popolare e nella magia meridionale, rappresenta il principio della crisi esisten­ziale e del malessere, che attraversa il corpo pensante della vittima.

Nella cultura popolare e nelle pratiche rituali siciliane più remote, ma anche odierne, quando si porta il peso delle frustrazioni, degli “abbili” (esiti visibili della bile, che dal fegato risalgono lungo l’esofago, metaforicamente impiegati per esternare situazioni emotivamente conflittuali), di cui un individuo è por­tatore, si usa questa espressione che fa da prologo al rituale di iniziazione di cui Giovanni è protago­nista: “mi sentu na cosa ca’, n’ta vucca i l’arma”.

Il corpo biologico incontra il corpo vissuto e malattia e magia incorniciano il puzzle dell’etnografia po­polare. Il dibattito sul paradigma della biomedicina che disumanizza il corpo vissuto, concentrandosi sulla mera dimensione organica è noto agli studiosi di antropologia medica [4] e ri­chiama, inequivoca­bilmente, la ricerca etnologica di Giuseppe Pitrè, sui rituali apotropaici e sulle pratiche di guarigione esercitate dai taumaturghi del popolo siciliano.

Ma i frammenti corporei,  dimora del malessere di cui narra il protagonista sono molteplici. Sono i frammenti degli ammalati, che cercano disperatamente le cure del Marchese (Giovanni), sono i feticci sacrificati nei rituali per scagionare le forze del maligno avverso, sono le donne sterili, divenute gravide, grazie o’ maru e sono, infine, le viscere del corpo della zia Mariannina, che entra in simbiosi con il suo adepto attraverso uno sguardo intenso, connotato di valenze simboliche e spiriti profetici.

da "La bocca dell'anima" di Giuseppe Carleo

da “La bocca dell’anima” di Giuseppe Carleo

I luoghi dello spaesamento sono abitazioni infestate da presenze altre, la grotta del sale dai poteri miracolosi (elemento fondamentale nelle tradizioni popolari, deputato proprio all’esorcismo dei mali, soprattutto nelle case, insieme con l’aglio); e la stanza del sacrificio nello scantinato in cui vive Giovanni, ma è anche la chiesa, poiché è lì che il credo del protagonista collima con la fede. Sono i vicoli stretti e cupi del paese in cui Giovanni percorre strade esistenziali, sentieri impervi; è la piazza di Petrasanta, agorà per antonomasia, in cui gli astanti compiono rituali reverenziali nei confronti di chi conta; sono i paesaggi suggestivi dell’entroterra siciliano, così cupi e ombrosi, a cui è deputata la fun­zione di robusta cornice di questo meraviglioso scorcio etnografico; come la montagna contrapposta al mare, in cui si rifugia Giovanni durante il suo esilio eremitico.

I luoghi della crisi sono anche rappresentati dagli occhi, che si scontrano e si incontrano continuamente, dalle estasi sensoriali durante i rituali e da corpi che contano, dominati e dominanti, da paesag­gi sonori, sonorità musicali e fruscii di vento, canti popolari orchestrali, litanie e nenie volte a scongiurare il male e gli incantesimi; sono anche gli animali e i “doni”, quella cultura materiale che rimanda alla dimensione alimentare e domestica, luogo per eccellenza in cui intessere relazioni sociali e conviviali, quelli in cui la pratica dello scambio, come ricorda Marcel Mauss, fondano comunità e appartenenza. Il luogo dello straniamento è, infine, il corpo di Giovanni in toto, che si adorna di amuleti e oggetti apo­tropaici e taumaturgici (sciarpa, collana) che ben rimandano ad ornamenti cerimoniali ecclesiastici.

da "La bocca dell'anima" di Giuseppe Carleo

da “La bocca dell’anima” di Giuseppe Carleo

Le majare: il linguaggio della magia 

La fattucchiera, colei che è deputata alla risoluzione di incantesimi e a divulgare la volontà del destino, scon­giurando occhiute maledizioni di ogni sorta, rappresenta, emblematicamente, la donna che sembra essere la protettrice e guaritrice di demartiniana memoria in quella Lucania magica in cui la taranta fascinava le donne. A lei si rivolgono, soprattutto, le persone più povere che pagano in natura, appunto, con conser­ve, conigli e formaggi; con lo scopo di essere salvati dagli spiriti maligni che affliggono i loro corpi e le loro anime. La sua investitura avviene per opera di altre donne, solitamente, la notte di Natale, consa­crata dall’acqua. In seguito, utilizzando oggetti diversi (olio, sale, piattino, chiavi, erbe comuni, in questo caso il fuoco e la bocca dell’anima, dimora dello spirito da addomesticare), si procede alla rei­terazione del dono di cui parla a’ zia Mariannina: “Giuvanni un ti scantari/ chistu è un dono/ ti sebbi p’aiutare all’avutri”.

Questo rituale cadenzato in cui viene iniziato anche Giovanni è accompagnato da un linguaggio invocativo, metaforico, esortativo e perentorio ma, al contempo, penitente e doloroso, colmo di sfumature e rime baciate incalzanti, ritmate dalla veemenza in cui i Majari compiono il rituale: Santi, San­tissimi, Vermi e preghiere. Un intreccio narrativo di orazioni concitate e patemiche, che liberano dal ma­lefico. Del resto, il verme, è il male per antonomasia: 

«L’insorgere dei vermi come malattie dipende dalla rottura di un loro primigenio equilibrio, dovuta principalmente a uno spa­vento: scantu. A causa di uno spavento, vengo i vermi, a matrazza o matri sbarata, a gianara. U scantu  può essere inteso come malattia. In seguito ad uno scantu possono penetrare nel corpo anche gli esseri anime di passaggio oppure entità ma­leficamente intenzionate da una fattucchiera […] Chistu è u scantu, è fattura» [5]. 

E sono proprio i vermi a fare da padrone nelle litanie e nelle orazioni di cui Giovanni stesso diviene nar­ratore, per scongiurare il suo scantu, mentre la Majara lo inizia alla magia, e durante le pratiche di puri­ficazione e guarigione esercitate sui “pazienti”. 

da "La bocca dell'anima" di Carleo

da “La bocca dell’anima” di Carleo

Brevi note conclusive

Il film La bocca dell’anima è un caleidoscopio di sensazioni, di odori, di linguaggi, di tradizioni, di rituali, di luoghi e di persone che rappresentano al meglio un mondo poi non così lontano, che abbraccia il pubblico e che lo costringe a trattenere il fiato fino alla fine.

Ad una visione critica della pellicola, si scorgono forse alcune esacerbazioni del fenomeno e una cruda meta-rappresentazione della magia popolare, con scene che, seppur aderenti a modelli comportamentali reali, risultano crude e forti per uno spettatore impreparato.

Il pregio di questo racconto è sicuramente dato dalla capacità di catturare ogni singolo frammento del dolore e della disperazione dei corpi vissuti, nonché le estasi sensoriali dei personaggi, ma il conflitto tra i personaggi e tra la dimensione antropologica ed ecclesiastica, sembra troppo enfatico e spettacolarizzato. Pare, che le scene rimarcano troppo l’antagonismo tra le credenze popolari e le istituzioni ecclesiastiche da una parte, e la medicina popolare dall’altra, e nel finale del film questo scontro/incontro viene esacerbato dalle confessioni fittizie e dall’ostia as­sunta dai due protagonisti dediti agli spiriti e non a Dio.

I rituali di Giovanni, poi, rivelano una dimensione sessuale e sadica delle arti magiche praticate. Si rileva, infatti, uno scarto tra la dimensione antropologica e la spettacolarizzazione delle pratiche rituali. Infine, si percepisce, per contro, una marginalizzazione del senso sottile di tutta la vicenda, che pare sia l’unica chiave di lettura del film, ovvero l’omosessualità. Il livello profondo di significazione  è colto, infatti, nella scena finale, in cui i due amanti trovano pace tra le acque. Forse, l’identità sessuale e la repressione dello stigma di Giovanni potevano essere disarticolati ulteriormente in un contesto che, bisogna riconoscerlo, non ammetteva né streghe né santoni, figurarsi gli omosessuali. Ad ogni modo, La bocca dell’anima è un lungometraggio coinvolgente, ammaliante e denso di verità represse.  

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024 
Note 
[1] Elsa Guggino è  stata docente di Storia delle tradizioni popolari nell’Università di Palermo, ha svolto ricerche sui canti e sulle credenze magiche popolari. Ha fondato il Folkstudio di Palermo. Tra i testi da cui trae spunto la pellicola annoveriamo: La magia in Sicilia (1978), Il corpo è fatto di sillabe (1993), I canti e la magia (2004), Fate, sibille e altre strane donne (2006).  
[2] Giuseppe Carleo, è attore, regista e produttore. Nel 2011 si diploma in recitazione al Centro Sperimentale di Cine­matografia di Roma. Nel 2012 viene ammesso al corso di regia del documentario nella sede siciliana del Centro Sperimentale. Tra i suoi lavori più importanti il cortometraggio OFFICIUM (2014), un’esplorazione su alcuni desideri e bisogni profondi dell’universo femminile; il documentario PICCHÌ CHI È ? (2013) che ripercorre i luoghi e le tappe fondamentali del movimento lgbtq palermitano dagli anni ’70 ai giorni nostri; il documentario UN GIARDINO CHE RIDEVA (2010), viaggio sentimentale di una donna nella Palermo della Belle Epoque. Il suo ultimo cortometraggio sulla magia popolare, dal titolo PARRU PI TIA, ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti in diversi festival di tutto il mondo. La bocca dell’anima è il suo primo lungometraggio di finzione. 
[3] I produttori sono: Giuseppe Carleo e Tancredi Vinci, le musiche incalzanti sono di Paolo Brignoli, la sceneggiatura è di Giuseppe Carleo e Carlo Cannella e il lungometraggio è distribuito da Artex Film Italia. 
[4] Pizza, G., Saperi, pratiche e politiche del corpo, Roma, Carocci, 2005. 
[5] Guggino, E., “Uomini e vermi. Credenze e pratiche magico-mediche in Sicilia”, in La Ricerca folklorica, n. 8, 1983:71-82.

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Valeria Salanitro, ha conseguito una laurea magistrale in Scienze della Comunicazione Pubblica, d’Impresa e Pubblicità (curriculum Comunicazione Sociale e Istituzionale), presso l’Università degli Studi di Palermo; nonché un diploma in Politica In­ternazionale (ISPI) e uno in Studi Europei (I. Me.SI.). Ricercatrice indipendente, redattrice e autrice di molteplici contributi inerenti la Politica estera, le Scienze Umane e i Gender Studies. Ha collaborato con diversi Istituti e testa­te giornalistiche. Il suo ambito di ricerca verte sui Visual and Culture Studies e sulla Sociologia dei fenomeni Politici; si oc­cupa di immagini declinate in senso plurale, nonché dell’uso politico delle medesime nel contesto internazionale. Tra le sue pubblicazioni scientifiche annoveriamo: La rappresentazione mediatica dello Stato Islamico, edito da Aracne 2022 e Immagini di genere. Donne, potere e violenza politica in Afghanistan, Aracne 2023.

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