di Francesca Maria Corrao
Una scritta sul muro di una casa in fase di restauro recita “Il paese è distrutto ma noi non lo siamo”. Così mi accoglie Beirut, dove ritorno a distanza di dodici anni dalle rivolte arabe, e dopo l’ingresso nel Paese di oltre un milione di profughi per la guerra civile siriana, e il recente terremoto. Molte anime popolano questo Paese, che, come scriveva una delle sue grandi voci poetiche, Etel Adnan, è testimone dell’infinito estinguersi dell’Impero ottomano. Un piccolo Paese a vocazione mediterranea che, dall’inizio del secolo scorso aveva già accolto oltre 200mila profughi armeni in fuga dalla Turchia, poi i palestinesi cacciati da Israele (1948, 1967) e dalla Giordania (1970).
La capitale è un cantiere all’aria aperta: le strade, che dopo l’esplosione al porto (2019) erano diventate insuperabili cumuli di macerie, ora sono ordinate e pulite. Il traffico è silenzioso e rado; non v’è più traccia dell’ininterrotto sovrapporsi di clacson a tutte le ore del giorno e della notte.
Anche il brulichio di auto che, come formiche, salivano e scendevano dai marciapiedi in un flusso continuo, lento e inarrestabile, è un ricordo lontano. L’esoso aumento del costo del petrolio consente solo a pochi il lusso di andare in giro in auto. È un silenzio malsano perché è indice di un’economia sofferente.
Il susseguirsi di crisi politiche ed economiche ha piegato un Paese che sino ad oggi, con ostinazione e coraggio, ha sempre voluto rialzarsi, ad ogni costo. Oggi il Paese, martoriato da conflitti interni e interferenze esterne dal Covid all’esplosione dell’agosto del 2020, sembra esangue. Eppure, continua a mostrare segni di un’ostinata resistenza.
La voglia di vivere si manifesta nei restauri raffinatissimi delle antiche case di Beirut, grazie all’elevato livello di specializzazione di artisti, artigiani e della manodopera locale. La lenta, ma determinata, ripresa delle attività culturali è tangibile quando si inaugurano le mostre, si realizzano opere teatrali o spettacoli musicali.
Al centro delle numerose attività spiccano gli eventi legati al festival del cinema che non si è mai fermato, neanche durante la pandemia, mantenendo viva l’attenzione per la cultura internazionale del Paese. La gente continua a lavorare, a mostrarsi solidale e a restare caparbiamente attaccata alla vita. Antichi alberi lussureggianti campeggiano rigogliosi sul lungomare o nei parchi, pubblici o privati, e la bellezza degli orizzonti conforta lo sguardo che sorvola sulle contraddizioni che attraversano il Paese.
Le faide politiche e religiose sono radicate nel territorio da secoli, ma sono anche legate alle logiche paralizzanti della geopolitica regionale che bloccano la ripresa del Paese. Etel Adnan in modo profetico decenni fa annunciava: “se muore il Libano muore il Medio Oriente”.
Ma il Libano non vuole morire e per evitare che ciò accada, migliaia di libanesi emigrati continuano a nutrire questo antico approdo mediterraneo, e ne onorano gli antenati difendendo i valori di un’antica civiltà. Il manifesto di questi valori è contenuto nel libro Il Profeta, il bestseller di Khalil Jubran, di cui quest’anno si celebra il centenario della scomparsa.
Nella biblioteca dell’Università americana ci sono tutti i suoi libri e le numerose traduzioni e studi; chiedo se sia in preparazione una commemorazione del grande autore libanese, ma non ottengo risposta. Forse si aspetta dall’estero la linfa vitale per avere la forza di ricominciare a promuovere la cultura in una situazione economica tanto difficile.
Un’amica mi spiega che anche nei momenti peggiori della guerra civile il denaro circolava in abbondanza. Oggi anche i benestanti si devono riprendere dalle ferite inferte dal Covid e dalla crisi economica. La sera molte strade sono buie, e in molti palazzi del centro la luce delle scale è spenta per risparmiare ed è pericoloso prendere l’ascensore per via dei continui blackout. I bar sono frequentati da giovani e le vetrine dei negozi espongono oggetti lussuosi sia per l’abbigliamento che per l’arredamento.
Anni fa una foto aveva ritratto alcuni giovani libanesi in una decappottabile che osservavano stupiti delle donne velate; è lo specchio di un Paese in cui coesistono realtà contraddittorie: giovani che vivono secondo standard occidentali, a fronte di altri che sopravvivono dei fondi internazionali. Il denaro elargito dalle organizzazioni caritatevoli aiuta i profughi che vivono in campi con scarse prospettive nel presente e ancor meno per il futuro. Senza un’adeguata educazione scolastica non c’è speranza, né per loro né per il Mediterraneo, ossia anche per noi.
Seguendo le riflessioni di Etel Adnan, vediamo che l’Occidente si ostina a distruggere i resti dell’Impero ottomano senza trarne che scarni benefici; non crea sviluppo ma solo campi profughi dove sopravvivono disperazione e rassegnazione. In un’atmosfera surriscaldata da guerre, terremoto e siccità la gente è fuggita lasciando alle proprie spalle vasti territori incolti.
In Libano non manca la volontà né l’energia, ma manca una visione univoca, e ogni progetto si dissipa tra veti incrociati. I giovani oscillano tra il desiderio di partire e realizzare i loro sogni e la voglia di contribuire al cambiamento, qui e adesso. Da qui l’Europa non appare coesa, e all’orizzonte Bruxelles si presenta con troppe regole e vincoli.
Anche le scelte dei diversi Paesi dell’area appaiono contraddittorie, e i partner giocano da soli, incapaci di organizzare un buon lavoro di squadra. Qui le nuove generazioni, che frequentano ottimi corsi universitari, hanno grandi capacità e sembrano determinate a promuovere politiche nuove per entrambe le sponde del Mediterraneo. La loro volontà si nutre della nostra fiducia, e come recita un proverbio orientale: “più buia è la notte più vicina è l’alba”. Sta a politici, diplomatici, imprenditori e società civile, sostenere un percorso che porti fuori dall’infinita sconfitta, verso una transizione di cooperazione, se vogliamo mantenere vivi gli ideali su cui si fonda l’Europa.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
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Francesca Maria Corrao, ordinario di Lingua e Letteratura Araba, alla Luiss Guido Carli Roma, ha studiato in Italia e al Cairo la cultura del mondo arabo e islamico. Tra le sue pubblicazioni numerosi articoli in sedi internazionali e nazionali e gli approfondimenti su: La rinascita islamica (ed. Laboratorio antropologico, Università di Palermo 1985); Poeti arabi di Sicilia (Mondadori 1987, Mesogea 2001) Le storie di Giufà (Mondadori 1989, Sellerio 2002), Adonis. Ecco il mio nome (Donzelli 2010), Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea (Mondadori università 2011). Assieme a Luciano Violante ha recentemente curato il volume edito per i tipi de Il Mulino L’Islam non è terrorismo.
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