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A Luigi, che sta percorrendo il sottile ponte di San Giacomo

Lombardi Satriani

Lombardi Satriani

per Luigi

di Paola Elisabetta Simeoni

Una delle mie prime letture antropologiche sono state, nei lontani primi anni ’70 del Novecento, Il folklore come cultura di contestazione (!966) e Folklore e profitto. Tecniche di distruzione di una cultura (1973). Avevo da poco ‘scoperto’ questa disciplina di cui mi ero entusiasmata in seguito all’incontro con Il mondo magico e poi La terra del rimorso di Ernesto de Martino. Il libro di Luigi Maria Lombardi Satriani, un volume di riferimento anche per gli anni successivi, e ancora oggi da tenere da conto, che si collocava in un quadro diverso dell’orizzonte demartiniano e pur sempre nella stessa tensione politica ed etica. Mi colpì il diverso approccio antropologico, ispirato anche a Gramsci, che si immergeva senza tentennamenti nelle trasformazioni storiche attuali, l’analisi dell’uso del folklore come cultura di contestazione, l’antropologia come interpretazione dei cambiamenti in atto nella società colta.

Un’antropologia del ‘noi’ ante-litteram per leggere criticamente i fenomeni storici contemporanei non più immersi negli ‘attardamenti’ magici e simbolici della tradizione contadina ma nell’uso che ne faceva il ceto borghese politicizzato nell’attività rivoluzionaria, definita da Lombardi Satriani di “ordine fantastico”, che traeva cioè soddisfazione in agency (diremmo oggi) meramente rappresentative di una vera pratica rivoluzionaria.

L’altro aspetto delle sue riflessioni metteva di converso in luce la mancanza di vero potere rivoluzionario delle culture subalterne contadine nei confronti del potere costituito dominante. Tutte queste analisi – affermazioni, in un certo senso, dure – mettevano in crisi i miei giovanili ideali borghesi riconducibili però strettamente al legame con il mondo contadino, ma l’analisi era legittima e soprattutto poneva una questione di classe da affrontare nella giusta prospettiva.

I tempi, specialmente per l’antropologia, imponevano di prendere posizione riguardo a tali questioni cogenti, tanto più che la stessa ricerca etnografica sul terreno e le sue implicazioni di politica culturale nel confronto diretto con i contadini necessitavano delle risposte. Lombardi Satriani insomma pretendeva con autorità che si entrasse urgentemente e con decisione nel vivo della ‘temperie’ culturale, storica e politica dell’epoca con analisi e proposte critiche.

Credeva nella necessità di un’antropologia impegnata che doveva testimoniare posizioni politiche, che non si doveva nascondere dietro una impossibile e mendace oggettività ed essere per altro verso sempre attenta a non cadere nelle lusinghe della società dei consumi e nell’abbaglio dell’economicismo imperante. «Un’antropologia che si sottragga alle logiche del mercato, che arroganti homines novi infliggono ai diversi campi del sapere come unico parametro della redditività imposto [...]» (in “Erreffe”, n. 72, 2017:17).  

ponteQuesto suo impegno politico e culturale si era esplicato in molte sue iniziative, in special modo, come Presidente dell’Associazione italiana per le scienze etnoantropologiche (AISEA) (carica che aveva tenuto più volte) e aveva collaborato con l’Associazione Bianchi Bandinelli e con Giuseppe Chiarante fondatore e allora Presidente, spendendosi energicamente in diverse occasioni per la tutela dei beni demoetnoantropologici e per il riconoscimento delle professionalità DEA nell’ambito del Ministero per i beni e le attività culturali. In particolare, aveva partecipato al convegno dell’Associazione Bianchi Bandinelli, “Il patrimonio demoetnoantropologico nella politica dei Beni culturali” tenutosi a Roma il 6 giugno 1996 e i cui lavori sono stati pubblicati nell’Annale 4/1997, La lingua come bene culturale. Il patrimonio demoetnoantropologico (1997). 

Impegno politico che lo aveva portato sugli scranni del Senato della Repubblica per il Partito democratico della sinistra-L’Ulivo dal 1996 al 2001, durante il quale svolse una campagna elettorale «che fu una vera esperienza di vita e arricchimento antropologico, occasione di conferme e di ulteriori osservazioni, crescita scientifica e umana» (in “Erreffe”, n. 72, 2017:15) dove fu membro della Commissione Cultura del Senato e della Bicamerale sull’organizzazione mafiosa e sulle realtà criminali e curatore della “Relazione sulla Camorra nella XIII Legislatura” i cui risultati di ricerca pubblicò in Potere Verità Violenza (2014). 

Lombardi Satriani e lo zio Raffaele

Lombardi Satriani e lo zio Raffaele

La tensione appassionata di Luigi prendeva linfa dal richiamo della sua terra di Calabria, con la quale ha «un legame fortissimo, viscerale» e dallo zio Raffaele Lombardi Satriani, demologo dedito per mezzo secolo allo studio delle tradizioni popolari e che si era speso a raccogliere le testimonianze di coloro che non avevano ‘voce’ nella storia e dal quale aveva ereditato l’interesse profondo alla salvaguardia del patrimonio culturale contadino. Un atteggiamento di rispetto benevolo nei confronti della gente lo spingeva sempre a mettersi all’ascolto e osservare e leggere con esattezza e con vera sensibilità antropologica i comportamenti degli ‘altri’. 

Da questa tensione aveva preso forma un altro libro, scritto con Mariano Meligrana, Il ponte di San Giacomo del 1982 (vincitore del Premio Viareggio 1983), ineguagliabile per estensione e approfondimento etnografico delle credenze intorno alla morte nelle tradizioni calabresi, opera che è sempre stata ed è ancora un autentico punto di riferimento per chi voleva/vuole perseguire la professione demo-etno-antropologica, formula che aveva lui stesso sostenuto fermamente e che poi venne abolita dal Ministero per i beni e le attività culturali per l’osservazione negativa di Vittorio Sgarbi che la riteneva impronunciabile (sic), in seguito al quale si era dovuto capitolare sulla dizione più breve di “beni etnoantropologici”.

Moltissimi altri scritti e pubblicazioni hanno seguito le sue estremamente prolifiche attività accademiche, nel segno sempre dell’apertura e del rispetto per le altre discipline. Si è misurato contro le pratiche autoreferenziali: «Il mio privilegiare, per scelta scientifica e di vita, una serie di discipline antropologiche non mi ha mai indotto a un imperialismo disciplinare, come a volte è avvenuto nella nostra storia intellettuale, in cui il proprio campo del sapere (teologia, filosofia, ecc.) è stato assunto volta per volta come disciplina domina rispetto ad altre necessariamente ancillae» (in “Erreffe”, n. 72, 2017: 13), visione che lo ha indotto anche ad aprire ad altri settori la Rivista Voci (fondata con Mariano Meligrana negli anni ’50 del Novecento e rifondata nel 2004). 

relativaUn atteggiamento estremamente positivo il suo (ho sempre sentito molto forte questa sua positività) che lo induceva a sviluppare proprie riflessioni filosofiche e antropologiche che andavano anche oltre la mera adesione razionale. Vi era in lui un obiettivo urgente e assoluto di uno sguardo globale sulla vita e che implicava un coinvolgimento integrato. Uno sguardo che travalicava perfino le discipline e gli ambiti di ricerca e che spaziava oltre i confini e gli steccati disciplinari per costruire un nuovo umanesimo. «Un’antropologia che tenti di esser ‘oggettiva’ – per quanto sia possibile –, ma che sappia quanto di ‘soggettivo’ alberghi tra le sue affermazioni, dalla ‘scelta’ del tema di ricerca, alle modalità seguite, all’orientamento del suo sguardo su ciò che che convenzionalmente definiamo ‘realtà’» (in “Erreffe”, n 72, 2017:18).

«Vogliamo dialogare, – scriveva – pensiamo che una scienza che parli solo a se stessa sia una “scienza incestuosa”, una scienza che pratichi veramente una sorta di chiusura asettica sarebbe troppo domi­nata dall’ansia di difendere privilegi accademici. […] Pensiamo che come antropologi possiamo dare il nostro contributo nello studio delle diverse realtà culturali, senza prescindere, però, dall’acquisizione degli antropologi fisici, dei cultori delle neu­roscienze e di tutti i settori similari che in maniera sempre più vivace vanno indagando da decenni sull’uomo dai diversi punti di vista» (in RelativaMente. Nuovi territori scientifici e prospet­tive antropologiche, Armando ed. 2010: 17). 

002Aveva costruito la sua visione antropologica e umanistica sulla base di sconfinamenti dagli ambiti strettamente consentiti con reintegro immediato nelle regole del vivere sociale, tentativi che gli permettevano di lasciare la mente vagare nell’oltre per poi ritornare nell’ordine dei sistemi di pensiero tracciati. Riguardo a questo suo atteggiamento e posizione scientifica voglio narrare qui un aneddoto significativo di cui sono stata testimone: in seguito alla mostra “Bambole. Tradizioni, costumi, cultura di popoli” che ha avuto luogo a Palazzo Barberini a Roma nel 1984-1985, aveva suggerito di approfondire il tema con un convegno, idea subito raccolta dalla direttrice Valeria Petrucci che affidava nel 1986 a Elisabetta Silvestrini e alla sottoscritta l’organizzazione del convegno tenutosi presso il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, “La cultura della bambola”; Luigi era intervenuto con una comunicazione dal titolo, Bambole, profumi e peccato nell’immaginario canoro della società italiana, tema di cui si era immediatamente dopo pentito, confidandomi che aveva paura di aver trattato un tema troppo scabroso per il buon nome del Museo nazionale! 

È stato un uomo di forte personalità e volontà che si alimentava di modi gentili ma anche autorevoli grazie a un’affascinante capacità oratoria che coinvolgeva l’auditorio degli esperti ma anche dei non specialisti. 

A seconda delle vicende della vita, degli impegni, degli ambiti lavorativi o degli interessi del momento, Luigi è sempre stato molto presente nella mia vita professionale e di molti altri, e anche se non ho mai voluto legarmi ad alcuno in ambito accademico ho sempre apprezzato la sua vicinanza garbata, a volte ironica, come alcuni hanno rilevato. Esercitava una speciale e positiva influenza intellettuale e, sebbene in soggezione nei confronti del grande professore, che, occorre dirlo, incuteva spesso timore reverenziale, sentivo di poter non perdere la mia indipendenza di pensiero.  È che lui aveva un pensiero libero contrariamente a molti studiosi inflessibilmente fissati a rigide e assolute posizioni di sapere, atteggiamento che costituiva di fatto un invito a seguirlo sulle strade impervie ma entusiasmanti dell’esplorazione scientifica. Benché dominante nelle sue prese di posizione intellettuali, non di meno stimolava con gentile fermezza collaboratori e studenti a procedere ognuno secondo il proprio percorso di ricerca lasciando a ognuno la libertà di seguire la propria via originale di pensiero fino anche all’individuazione personale. 

copertina_extraUn maestro di antropologia, un amico negli ultimi anni, quando veniva a cena a casa mia, appuntamenti dove, nel corso del tempo, oltre all’incontro gastronomico e di gusto (a me piace cucinare e a lui piaceva degustare sempre nuovi piatti), il severo rapporto accademico si era trasformato in un affettuoso incontro con lui e con sua moglie Patrizia. Sempre ha apprezzato la mia ospitalità e perfino le mie opere di scultura che seguiva con sollecito affetto, incoraggiandomi costantemente nel proseguire il mio percorso artistico.

Per diversi anni ha insistito che pubblicassi un volume sulle ricerche da me condotte sin dagli anni ’80 del Novecento riguardanti la Santissima Trinità di Vallepietra e che invece rimandavo di giorno in giorno. Desidero qui ringraziarlo perché dopo molti anni infine ha avuto la meglio sulle mie resistenze ed è grazie alla sua ferma e continua perseveranza che ho pubblicato il mio ultimo libro, non sulla Santissima Trinità ma Il corpo sacro. Itinerari nella durevolezza del mito, una summa dei miei anni di ricerche, e per la stesura del quale mi ha aiutato con i suoi preziosi consigli e onorandomi con una sua introduzione. Negli ultimissimi tempi mi ha perfino convinto a dedicarmi a vendere le mie sculture, minacciando di considerarmi una borghese, insistenza in seguito alla quale è scaturita una mia mostra personale!

Mi ritorna costantemente sotto gli occhi un suo atteggiamento tipico che lo ritrae con il libro aperto in mano alla pagina che stava leggendo anche quando intento a chiacchierare con altre persone, lettura che poi instancabilmente riprendeva.

Grazie, Luigi!         

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022

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Paola Elisabetta Simeoni, si è laureata nel 1972 all’Università Sapienza di Roma, con una tesi in etnologia. È stata direttrice coordinatrice al Ministero per i Beni e le Attività Culturali (oggi MIC) presso il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari e l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione. Si è occupata di catalogazione, museografia, formazione, didattica. Dal 1979, svolge attività di ricerca sul terreno in diverse regioni d’Italia e in altri Paesi europei e documentazioni multimediali. Ha progettato e allestito il MNATP e diversi musei DEA locali. Attualmente è docente presso la Scuola di specializzazione in beni DEA all’Università Sapienza di Roma e presidente dell’Etnolaboratorio per il patrimonio cullturale immateriale – EOLO. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni articoli e saggi, e volumi tra i quali la cura con E. Silvestrini del n. 16 della rivista “La Ricerca folklorica”, La cultura della bambola; la cura del volume con F. Fedeli Bernardini, Ricerca e territorio. Lavoro, storia, religiosità nella valle dell’Aniene, 1990; la cura con R. Tucci del volume Museo nazionale delle Arti e Tradizioni popolari. La collezione degli strumenti musicali, 1991; il catalogo della mostra Fede e tradizione alla Santissima Trinità di Vallepietra. 1882-2006; la cura del volume Essere donna essere uomo nella valle dell’Aniene, 2006; Il corpo sacro. Itinerari nella durevolezza del mito, 2022.

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