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Accoglienza e umanità. La lezione dei Latini

copertinadi Orietta Sorgi

Ancora una volta è il mondo antico con i suoi miti e la sua filosofia a venirci incontro offrendo spunti e motivi di riflessione su problematiche cruciali della nostra attualità. Le vicende che da qualche tempo flagellano i mari del Mediterraneo, martirizzato da naufragi e cadaveri dispersi, ai quali l’Occidente moderno e “civilizzato” ha negato ogni forma di soccorso, accoglienza o, in estremis, di sepoltura, sembrano voler violare del tutto i princìpi fondativi della civiltà stessa e dell’umanità in generale. Quegli stessi diritti di rispetto e reciproca convivenza enunciati giuridicamente e tutelati dalle norme costituzionali del 1948.

Eppure circa 2000 anni fa, proprio dagli antichi romani si levava un monito di benevolenza e accoglienza verso i pellegrini e gli stranieri, accomunati da un’unica appartenenza, l’essere uomini per l’appunto. Lo conferma il primo libro dell’Eneide quando narra del naufragio dei troiani, in fuga dalla loro patria assediata e scampati miracolosamente alla furia delle onde nel canale di Sicilia. Approdati sulle coste di Cartagine, l’odierna Tunisi, così Ilioneo, uno dei compagni di sventura di Enea si rivolge alle guardie che presidiavano le mura della città: «Che stirpe d’uomini è questa? O quale mai tanta barbara patria permette questi usi? Ci nega accoglienza alla riva, viene ad aggredirci e ci scaccia dal margine estremo del lido». Inaspettatamente Venere avvolge Enea e i suoi compagni in una nube e li conduce al cospetto della regina Didone che li accoglie con grande senso di ospitalità, rassicurandoli: «Teucri, sciogliete dal cuore il timore e cacciate gli affanni. Dura vicenda, e un regno recente, mi forzano a simili provvedimenti e a curare a distesa con guardie i confini». Anche Didone del resto ha patito la condizione di esule, costretta ad abbandonare Tiro, la sua patria, per sfuggire al fratello Pigmalione che si era impadronito del regno dopo averle ucciso il marito Sicheo: «non ignara dei mali imparo a soccorrere i miseri», ed è per questo che le frontiere resteranno chiuse agli aggressori, ma sempre aperte ai naufraghi e ai viandanti.

A discapito di quanto sta succedendo adesso, per gli antichi romani concedere asilo agli stranieri, riconoscere loro la parità dei diritti con i propri concittadini, costituiva pur sempre un privilegio. Da questi passi prende le mosse il breve ma intenso volume di Maurizio Bettini, edito da Einaudi nel 2019, il cui titolo richiama un celebre verso di Terenzio: Homo sum, con l’intento di esaminare la concezione stessa dell’umanità secondo gli antichi e individuare quel filo di continuità che arriva al riconoscimento dei diritti umani da parte dei Padri Costituenti. Homo sum, humani nihil a me alienum puto, sono uomo e niente di umano ritengo mi sia estraneo, le parole di Terenzio richiamate da Seneca nelle lettere a Lucilio, divengono in questo volume il leitmotiv, il punto di partenza per definire il comportamento umano: un invito alla “indiscrezione” come forma di interessamento per gli altri.

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Seneca

A parte il poema virgiliano richiamato come incipit dal nostro Autore, anche Cicerone si sofferma diffusamente sull’argomento, enunciando una serie di princìpi e prescrizioni, i communia, che delineano un sistema di reciprocità di diritti e doveri fra gli uomini, a sostegno l’uno dell’altro. Naturalmente, in una società regolata dalla schiavitù, i communia non equivalgono ad una totale apertura incondizionata degli stranieri, ma esprimono pur sempre una certa gradualità e priorità nei confronti dei familiari, vicini, amici e concittadini, estendendosi via via anche a tutti gli uomini in generale.

Un atteggiamento che diviene ancora più esplicito in Seneca, quando, nelle Lettere a Lucilio, afferma: «sono schiavi – ma sono uomini; sono schiavi – ma sono umili amici; sono schiavi – ma anche compagni di schiavitù, se rifletterai sul fatto che gli uni e gli altri sono soggetti nella stessa misura ai capricci della fortuna». In realtà Seneca si rifà al concetto di humanum officium per esprimere il dovere degli uomini verso gli altri uomini e in questo il filosofo non pone limiti alla generosità umana, mai distinguendo fra noi e gli altri. Egli allude ad una societas ben diversa da quella ciceroniana, in cui l’humanitas è rappresentata da un unico e medesimo corpo in cui tutte le parti sono chiamate a collaborare verso un unico scopo, governato da reciproco amore e socievolezza.

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Sofocle

La verità è che – alla luce dei fatti – rispetto al Preambolo della Dichiarazione dei diritti, nell’antichità, il rispetto degli altri – pellegrini, naufraghi o stranieri – era considerato, non tanto un diritto, quanto un dovere, una stretta osservanza alla volontà degli dèi. Vi è un antico mito nell’Attica secondo cui i Bouzygay, sacerdoti delle attività agricole e dell’aratura in particolare, scagliavano maledizioni contro chiunque non osservasse determinate prescrizioni: concedere fuoco e acqua ai richiedenti, mostrare la strada agli erranti, seppellire i corpi dei cadaveri.

A ben riflettere, soprattutto a proposito della sepoltura, la categoria del “dovere” si dispiega nella sua accezione più ampia, essa infatti è una attività demandata esclusivamente ad altri e su cui il defunto non ha più facoltà di scelta: quando si muore non si può più disporre del proprio corpo e delle proprie sorti, in caso di trasgressione del diritto di sepoltura, si rinvia al giudizio degli dei. È ancora Ilioneo, a rivolgersi a Didone, nel timore di venire cacciato da Cartagine: «Se disprezzate il genere umano e le armi mortali temete almeno gli dèi, memori di giustizia e iniquità».

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Antigone, di Frederic Leighton (1830-1896)

Antigone, figlia di Edipo e Giocasta, infrangerà la legge dello Stato per dare seguito alla sepoltura del fratello Polinice, cacciato dalla città e ucciso per aver tradito i patti col fratello Eteocle. Antigone si appella ai legami di sangue e al diritto di seppellire il corpo del proprio congiunto contro il volere dello zio Creonte, re di Tebe. Così come Priamo, re di Troia, implora Achille di restituirgli il corpo del figlio Ettore, caduto nel campo di battaglia. Dare sepoltura è dunque un dovere degli uomini nei confronti degli altri uomini, un dovere sancito dagli dei, pena condanne e punizioni. Alla stessa stregua dell’assistenza agli erranti, che hanno smarrito la via e l’orientamento, o del donare acqua e fuoco ai bisognosi: si tratta comunque di risposte al bisogno di sopravvivenza della vita e della specie umana.

Anche i Vangeli del resto esprimono questo sentimento di reciproco rispetto fra gli uomini, iscrivendosi in un orizzonte religioso.  Così le parole di Matteo: «Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti»

In definitiva – e qui Bettini si avvia alla conclusione – sono i Romani che aprono la strada all’idea di un cosmopolitismo ante litteram: occuparsi degli altri, rivolgersi amorevolmente al prossimo, senza considerarne la provenienza, equivale a superare le barriere dell’ignoranza e del pregiudizio. Come sosteneva Zenone (IV e III a.c.) nella sua Costituzione, gli uomini, tutti gli uomini sono abitanti di una stessa comunità e di una stessa polis. Anche Socrate – secondo Plutarco – avrebbe detto di essere né Ateniese né greco, ma cittadino del mondo. O ancora secondo Diogene, l’epicureo, quando sosteneva che esiste una sola patria per tutti, la terra intera, il mondo come unica casa: nessun uomo può considerarsi straniero nella terra.

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Virgilio

Con un percorso circolare, il nostro Autore, che era partito dal primo canto dell’Eneide, ritorna alla fine del poema virgiliano, guardando ora alle sorti del sodalizio fra i Latini e Troiani, col matrimonio di Enea e Lavinia e a un nuovo racconto, il mito di fondazione di Roma. Abbandonata Alba Longa, i discendenti di Enea, i gemelli Romolo e Remo, avevano deciso di fondare una nuova città, aprendo un luogo di accoglienza, l’asylum. Ma com’è noto, una disputa scoppiò fra i due fratelli e Remo venne ucciso da Romolo, destinato a divenire l’unico discendente della stirpe di Enea e fondatore di Roma. Secondo il racconto di Plutarco, Romolo scavò una fossa circolare in cui tutti gli uomini avrebbero gettato le zolle provenienti dalle proprie terre d’origine e la chiamò Olympos cioè mundus.

Un atto di creazione cosmogonica è quella delle origini di Roma, nata dalla mescolanza e contaminazione di terre venute da ogni luogo. Quel territorio laziale nasceva col proposito stesso di divenire un luogo di accoglienza, un asilo, ma anche di transito. Il mito mette in luce uno dei caratteri fondamentali della cultura romana e cioè l’apertura, l’inclusione, l’accoglienza. E questo spiega anche perché, malgrado la schiavitù fosse una componente fondamentale della società e dell’economia, veniva offerta sempre una possibilità di riscatto e di evoluzione sociale alla condizione del subalterno, garantendo anche il diritto di cittadinanza.

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Aristotele

Diversamente dai Greci che legittimavano la schiavitù come dato di fatto, dovuta ad un’inferiorità naturale, secondo Aristotele.  I Greci in sostanza avevano considerato l’appartenenza alla polis un fatto esclusivo e determinante della propria cultura, ritenuta superiore e basata sull’opposizione fra noi e gli altri. Gli stranieri erano dunque definiti barbari in senso dispregiativo, come esseri inferiori, rozzi e selvaggi, paragonabili alle bestie. Oi Barbaroi, i balbuzienti secondo l’etimologia, imperfetti nel linguaggio, elemento connotativo del processo di ominazione.  Mentre la cultura romana colloca la propria identità anche fuori da sé stessa, al contrario gli Ateniesi, fondano le stesse origini sull’autoctonia, un modello che evoca la chiusura e non l’apertura all’esterno.

Il mito di fondazione di Atene considera i suoi abitanti come i primi protagonisti ad abitare il suolo dell’Attica e quindi gli unici ad averne il diritto di residenza. Per esprimere lo stretto legame che univa gli ateniesi alla loro terra, si narra che essi fossero in origine governati da due re, Cecrope e Erittonio, metà uomini e metà serpenti. Erittonio sarebbe stato generato da Gaia, la Terra, fecondata dallo sperma di Efesto. Da qui il rapporto indissolubile degli abitanti con la terra che li ha generati. Di conseguenza nessuno ad Atene poteva accedere alla cittadinanza, perché questa era un privilegio determinato dalla nascita. L’autoctonia è dunque un modello destinato alla chiusura, la cui identità culturale si ripiega su sé stessa.

Tale legittimazione dell’inferiorità degli altri come fenomeno naturale, che affonda le sue radici nel pensiero greco, ha percorso secoli di storia determinando forme di razzismo e colonialismo nelle società moderne e giustificando anche quello stadio pre-logico del pensiero primitivo così caro agli antropologi della prima stagione ottocentesca.

Ma una società, una comunità che fa della chiusura il proprio vessillo identitario è destinata a morire. Così accadde infatti ad Atene e Sparta malgrado la loro potenza militare. Al contrario, una società frutto di innesti e mescolanze determina la sua grandezza nel tempo. E, mutatis mutandis, non è forse dalla stessa prospettiva multietnica che è sorta l’importanza degli Stati Uniti, dove la Costituzione già dal 1868 approvava lo jus soli per tutti gli stranieri nati nel territorio americano?

Una ragione di forza e non di debolezza è dunque quella del pluralismo su cui dovrebbero oggi interrogarsi tutti coloro che baldanzosi e ambiziosi proclamano il sovranismo e il nazionalismo, ciechi e sordi davanti alle frontiere del mondo.

Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019

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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).

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