di Concetta Garofalo
Esistono diverse prospettive a partire dalle quali potere analizzare l’agire individuale e collettivo. Offrono spunti di riflessione importanti quelle prospettive la cui attenzione si focalizza sugli eventi esperiti nei particolari momenti di vita in cui l’azione sembra arrestarsi e lasciare il posto alla percezione di un’assenza di agentività umana. Ogni individuo, nel corso degli eventi, è chiamato a vivere momenti liminari (nel caso, per esempio, di improvvisi pericoli, di malattie e nella scelta delle cure) durante i quali si ritrova posizionato a diversi livelli decisionali. Muovendo da questi presupposti, intendo qui riflettere su ciò che costituisce oggetto antropologico nei contesti interazionali di vita quotidiana del mondo contemporaneo. Il tema più specifico su cui desidero soffermarmi è la definizione di malattia in quanto esperienza interindividuale. In questo breve contributo, il filo conduttore delle mie riflessioni sarà allora il tentativo di discutere la pertinenza di alcune categorie interpretative da un punto di vista antropologico e sociosemiotico, tenendo inoltre conto, da un punto di vista interdisciplinare, delle relazioni che si stabiliscono fra il livello somatico più corporeo e il sistema sociale-simbolico. Tali relazioni agiscono in maniera performativa su azioni e comportamenti e nei confronti dei processi di informazione, comunicazione e interazione fra i soggetti in campo.
Il primo nodo che si pone riguarda il soggetto affetto da malattia. È un processo epistemologicamente delicato perché l’antropologo si trova nella duplice veste di osservatore ed osservato in quanto egli stesso soggetto che, nella propria vita, ha occupato tale posizione. L’auto-etnografia di Francesca Cappelletto è sicuramente un esempio interessante di questo duplice posizionamento. Ma non è finita qui. L’etnografia della Cappelletto, per quanto vissuta, è – non dimentichiamolo – il prodotto della testualizzazione di un’esperienza. La studiosa in campo ha reso la traduzione, più o meno oggettivamente scientifica, della malattia. In altri termini, il duplice posizionamento di osservatore e osservato va di pari passo con il duplice posizionamento che si applica all’esperienza (prima) e alla testualizzazione (dopo). Queste forme di posizionamento vanno inoltre viste in associazione alle forme di posizionamento derivanti dal mio vissuto personale e dal vissuto personale dei lettori (anche i lettori, si presume, hanno esperito prima o dopo il processo della malattia). Se si ammettono questi diversi posizionamenti, è allora lecito ammettere inoltre che, in antropologia medica, emergono fondamentali questioni di natura epistemologica riguardanti la produzione e la ricezione di esperienze e testi. Il “fatto sociale totale” di cui parlava Mauss, almeno in ambito medico, deve essere pure visto come un fatto le cui pertinenze epistemologiche derivano dai rapporti di dipendenza interni ed esterni al sistema. Nel caso specifico, l’esperienza complessa di malattia, terapia e cura, implica che tutti i soggetti in campo siano osservatori ed osservati, “scrittori” e “lettori”. Tale esperienza costringe a guardare noi stessi, da dentro e da fuori, tenendo conto di questi quattro livelli. Il nostro stesso corpo, lungi dall’essere un mero supporto per le cure mediche o il nostro doppio amico/nemico, è un vero e proprio “operatore attanziale”. Si consideri il modo in cui viene presa in conto l’istanza corporea da Le Breton:
«Le rappresentazioni del corpo ed i saperi che lo riguardano sono tributari di uno stato sociale, di una visione del mondo e, nell’ambito di quest’ultima, di una definizione della persona. Il corpo è una costruzione simbolica, non una realtà in sé. Donde la miriade di rappresentazioni che cercano di assegnargli un senso, e donde il loro carattere eterogeneo, inusuale, contraddittorio, da una società all’altra. […] Non si tratta mai di un dato indiscutibile, ma dell’esito di una costruzione sociale e culturale» (Le Breton, 2007: 10).
Naturalmente, questi presupposti teorici valgono pure, se non di più, per quelle ricerche etnografiche in cui i diversi livelli di consapevolezza e le molteplici istanze di soggettivazione dell’io-corporeo sono particolarmente messi in risalto:
«Osservo e penso, tutto solo, srotolato all’esterno, compresso in me stesso e proiettato sulle onde del mare, in apparente contraddizione, ma rilassato, in compagnia degli elementi della natura, privo di intenti e propositi. Ci sono e ci rimango. È tutto un esserci e interagire, ora e adesso. A me stesso presente. Nel flusso. Presente. Piacevolmente pesante. Fuori centro, fuori fase. Compresente. Disteso. Rapito. Mi attesto meglio sul mio luogo di osservazione. Non è un angolo. Nello spazio aperto in cui mi trovo muovo le gambe, affondo i piedi sulla sabbia: le gambe obbediscono; i piedi, come al solito, fanno di testa loro e sollevano un po’ le punte. Prendo posizione. Osservo. Il mondo fuori e il mondo dentro. Le mie percezioni e sensazioni, indistinguibili dal disordine dei miei pensieri. Mi lascio pensare. La mia mente arranca pigra, i miei pensieri incalzano. La mia mente arranca, il mio corpo segue, in sintonia. Si sfidano nei miei pensieri versi e frammenti, poesia e prosa» (Montes, 2014: 1).
Più avanti, nello stesso testo, segue una riflessione antropologica relativa all’attribuzione di agentività distribuita che si richiama all’impianto semiotico:
«In questa prospettiva, una antropologia dei sensi – fondata soltanto sulla loro esplorazione, in isolamento da altre componenti quali il corpo-attore e il pensare per flussi – è insufficiente. Noi percepiamo lo spazio intorno a noi attraverso i sensi. Questo è ovvio, sempre più accettato, almeno a partire da Merleau-Ponty. È meno ovvio, invece, fare passare l’idea che la percezione dello spazio intorno a noi avviene attraverso un corpo le cui parti possono diventare veri e propri attori agenti nelle interazioni con gli altri, con l’individuo stesso e con la sua attività cognitiva più disordinata. Per potere parlare pienamente di agentività distribuita, quindi, bisogna tenere conto dell’attribuzione di attorialità alle diverse parti del corpo; […] a maggior ragione, all’interno di una cultura, ci si deve dedicare ai modi in cui le modalità sensoriali interagiscono e si traducono, l’un l’altra» (Montes, 2014: 7).
In questo caso, non si tratta di una esperienza di malattia. Ciò che comunque conta è che, più che essere un’istanza cristallizzata, l’individuo è visto in una sorta di movimento instabile all’interno del quale si configurano un “prima” e un “poi”, nuovi e diversi, che trascendono la linearità del passato-presente-futuro. Questa prospettiva di tipo processuale e differenziale vale anche per lo “stato” di malattia. Per esempio, nel momento in cui una persona si rivolge a una struttura sanitaria, salute e malattia si ridefiniscono a vicenda, e la stessa struttura sanitaria diventa un sistema interazionale composto di molteplici elementi costitutivi. A questo riguardo, il concetto di semiosfera, elaborato da Lotman, potrebbe tornare utile in quanto si costituisce come sistema di interazioni continue che, in virtù di tali interazioni, riconfigura se stesso nel divenire dell’esperienza intrasoggettiva e interpersonale. All’interno di tale semiosfera, episodicamente fluttuante nel tempo e nello spazio esperienziali, attanti-agenti non sono solo individui ma anche enti collettivi; all’interno delle categorie attanziali “agiscono” persone, istituzioni, enti individuali e collettivi che portano a termine dei compiti in chiave più o meno performativa. Se si configurano soglie esse sono di tipo interazionale e fortemente performativo.
In via del tutto sperimentale potremmo rappresentare il sistema di relazioni con un esagono semiotico (invece del classico quadrato semiotico): il paziente e i suoi familiari, altri pazienti e i loro familiari, il personale medico e paramedico; oppure con un modello di Eulero-Venn con sei insiemi interdipendenti fra loro che rappresentano le sei istanze relazionali in campo: paziente-self, paziente-medico, paziente-personale paramedico, paziente-altri pazienti, paziente-familiari, paziente-familiari di altri pazienti. Entrambe le rappresentazioni contribuiscono ad evidenziare il divenire multidirezionale e multidimensionale sia sull’asse della sincronia sia sull’asse della diacronia delle relazioni fra i diversi livelli di significazione e i diversi livelli narrativi la cui interpretazione è reciprocamente generativa.
Un’etnografia del corpo si pone, in sostanza, come auto-etnografia che prende in considerazione un oggetto complesso e composito: il sistema propriocettivo-sensoriale, il sistema di aspettative e il sistema simbolico collettivo, il sistema dossico di ricezione della dimensione collettiva, il sistema comportamentale-azionale individuale, il sistema di ricezione sociale e collettiva esterna al soggetto. Questi sono solo i più evidenti. Ma potremmo tenere in considerazione, fra altre, anche le dinamiche di costruzione del sé identitario e di autostima, di successo e frustrazione, di esperienza passata e presente, e le loro implicazioni nelle relazioni fra la dimensione intrasoggettiva e intersoggettiva. Il corpo come oggetto antropologico si configura dunque come oggetto polisemantico. Questa è la ragione per cui non sempre le categorie di un livello interpretativo sono confacenti a un livello interpretativo diverso, più o meno specifico, come ad esempio, relativamente al corpo e malattia, le categorie di rito, soglia e tabù. In definitiva, se applicate isolatamente, queste categorie non rendono giustizia alla comprensione di fenomeni ed eventi fortemente condizionati da processi di salute e malattia e delle loro ripercussioni sulla percezione del sé corporeo e identitario. Da questo specifico punto di vista, il corpo, in quanto oggetto antropologico, diviene crocevia e spazio di problematizzazione dei concetti e dei fondamenti epistemologici inerenti la natura e la cultura.
Bisogna fare a meno del falso presupposto che mente e corpo sono istanze o sempre scindibili o sempre inscindibili. Non è nemmeno necessario definirle complementari una volta per tutte in quanto non si tratta di un completamento che li proietta in una dimensione evolutiva fissa. Inscindibilità e scindibilità sono concetti che hanno in sé dei rimandi contestuali. L’antropologia (le antropologie) li coglie e li definisce secondo paradigmi relazionali, epistemologicamente fondati, ricorrendo spesso a meccanismi retorici e processi metaforici (come ribadisce Le Breton e come mostra Montes in chiave auto-etnografica).Per quanto riguarda la malattia, essa è un’esperienza inscritta nella dimensione degli accadimenti non sempre programmabili. La malattia inscrive il corpo e la persona in una dimensione, al tempo stesso, di decentramento e di condivisione all’interno dei diversi contesti di interazione. L’oggettivazione del corpo si accompagna alla condivisione dell’esperienza e della relativa presa in carico dell’istanza soggettiva da parte di una comunità. Questa esperienza di condivisione non è unidirezionale, non è necessaria e inevitabile, immanente al contesto. Il passaggio da esperienza della malattia/corpo malato soggettiva ad esperienza socializzata avviene se si verifica una predisposizione dei soggetti alla condivisione. Esistono molteplici livelli performativi di condivisione in termini di potenziale di “socialità” in diversificati momenti, luoghi e contesti di interazione con l’Altro.
Il racconto, in quest’ottica, svolge un ruolo essenziale: colma un vuoto creato dalla condizione di vulnerabilità della malattia e, al tempo stesso, è condizione dell’agire umano nel divenire del flusso di un’esperienza decontestualizzante che ricodifica il posizionamento sociale. Al contempo, il dialogo con l’Altro agisce da linfa vitale e diventa un presupposto alla performatività narrativa risultante dall’incontro di prospettive. I racconti sono infatti prospettive. Ogni racconto è un orizzonte che si apre all’esperienza di ognuno; tramite il dialogo si traduce l’esperienza soggettiva in conoscenza. Il racconto di una persona appena conosciuta in una sala di attesa, durante un turno in ospedale oppure il racconto di una persona amica, un collega, un parente sono prospettive che intervengono in maniera performativa sulle scelte e sulla valutazione di azioni e interazioni, anch’esse agentive sull’esito dell’agire stesso. Durante l’etnografia sul campo, emerge, in taluni casi, anche il suo contrario, cioè l’essere soli è proprio l’assenza di racconti. La solitudine si realizza nell’assenza di alternative di conoscenza prima ancora che agite. L’isolamento delinea i confini di potenzialità agentiva delle azioni. Durante l’esperienza di condivisione (dialogo e socializzazione) il corpo-malato alleggerisce il peso percepito facendo incursione nella dimensione etico-morale dell’esperienza della malattia.
Vorrei a questo punto, un po’ provocatoriamente, affermare che la netta distinzione fra le istanze menzionate si supera intendendo l’esperienza in termini processuali di traduzione contestuale. Come cogliere – se non come traduzione di se stessi in se stessi – le relazioni inter-azionali, implicite e più o meno inconsapevoli, fra mente e corpo, corpo-mente-emozioni, mente-motivazioni-corpo? Mi chiedo altresì se si possono individuare distintamente delle fasi di agentività e di non-agentività. Mi chiedo, per di più, come sia possibile attribuire l’agentività a un singolo soggetto? Un utile strumento di “smascheramento” dei processi di attribuzione dell’agentività è rappresentato, a mio parere, dalle polarità enunciazione/enunciato e embrayage/débrayage. Il racconto in presenza del personale medico è un’enunciazione soggettiva di evidente embrayage che sottende l’individualismo tipicamente occidentale del corpo. Spesso i soggetti raccontano dicendo “Io sto male, io non riesco a camminare, io non sento, etc.”. Ma se analizziamo l’aspetto relativo all’azione in termini di funzionamento, successo e performance in riferimento ad un sistema di aspettative sociale, allora la prospettiva cambia. E questo perché l’embrayage sottende un débrayage, implicito ma molto più complesso. Per spiegare meglio tale prospettiva ricorriamo ad un semplice esempio: “io non riesco a camminare” si traduce semanticamente in “le mie gambe non mi permettono di camminare” e quindi “di spostarmi, di appropriarmi dello spazio, di svolgere alcune funzioni di movimento, di realizzare performance efficaci ed efficienti”. Il soggetto debraiato dell’enunciazione è il corpo e, per voler essere specifici, alcune parti del corpo. Quindi, nel racconto in fase diagnostica avviene un débrayage che sotto forma di embrayage determina un ritorno auto-riflessivo di auto-percezione del sé (“il mio corpo” quindi “io”). Il débrayage, contestualmente, concorre al processo di produzione di identità e condiziona il posizionamento sociale del soggetto.
Il racconto è un percorso di declinazioni di habitus e schemi comportamentali socialmente ancorati a sistemi simbolici di rappresentazione collettiva: assolve alla progressiva acquisizione di un livello di conoscenza metacognitiva delle condotte umane relative a contesti di vita quotidiana, declinati in termini di competenza e performanza. In questa mia ipotesi, quindi, il processo di soggettivizzazione del corpo, che trova riscontro nel concetto di mindful body elaborato da Scheper-Hughes e Lock nell’ambito dell’impianto epistemologico dell’antropologia medica critica, volge ad un ulteriore livello di metacognizione e di consapevolezza dell’Io. Nell’embrayage si prende in conto anche l’aspetto temporale. Tale aspetto, particolarmente concentrato, è formidabile dal punto di vista antropologico. “Io non riesco a camminare” indica allo stesso tempo una condizione passata di funzionamento, un incipit, una condizione presente di malattia, una progettualità narrativa di cura e terapia, un futuro fatto di azioni che devono determinare uno stato di guarigione e di ridefinizione del rapporto inverso di malattia-salute. Questo concentrato di temporalità prevista dall’embrayage comprende anche le soglie, le interrelazioni, i riti di passaggio fra uno stato e l’altro, più o meno soggettivi, più o meno codificati in protocolli di intervento.
In tali circostanze, l’individuo si relaziona con le strutture sanitarie e i medici, il personale sanitario, tecnico e amministrativo. L’interazione, come noto, è sempre un processo di posizionamento, di assunzione di ruoli e di attribuzione di agentività ai vari soggetti in campo. Infatti, in questo contesto avviene anche la traduzione dell’esperienza del sé attraverso i linguaggi disciplinari, e la dimensione intra-soggettiva dell’esperienza del paziente viene messa a fronte di campi semantici fondanti il linguaggio medico-scientifico (la cui sintassi il medico padroneggia). Narrare la malattia significa soprattutto narrare il corpo. Infatti il soggetto decisionale si confronta fondamentalmente con il proprio corpo. A tal proposito, la Cappelletto parla di corpo “oggetto di conoscenza” e di oggettivazione del corpo-osservato:
«Il corpo assume d’improvviso una posizione di ‘staccato’, soggiacente, subjugato […]. Il processo di reificazione del corpo è cruciale, e in alcuni casi è talmente forte da indurre nel malato un sentimento di espropriazione» (Cappelletto, 2009: 205).
Si determinano tre differenti livelli discorsivi e interazionali. Fra il livello di oggettivazione del corpo e il livello relazionale fra Io-paziente e il personale medico e paramedico si configura il livello prettamente strumentale delle cure e delle tecnologie, in questo caso, diagnostiche. Il livello medico/paziente è un livello narrativo che vede entrambi i soggetti in campo concentrati sul racconto del corpo in termini di status attuale, di vissuto trascorso e di ipotesi diagnostiche e curative. Questa dimensione esperienziale è fortemente performativa sul soggetto che riflette, argomenta, narra e si confronta con il proprio corpo percepito come alter-ego dotato di esistenza e agentività nel tempo liminare fra la salute e la malattia. L’esperienza narrativa che l’accompagna è un processo di conoscenza del sé attraverso il proprio corpo; le varie dinamiche di osservazione, informazione e conoscenza procedono in maniera sistemica nei vari livelli discorsivi.
All’oggettivazione del corpo fa da contrappunto un processo di soggettivizzazione delle pratiche: il soggetto-malato agisce su se stesso e sul proprio corpo, orientato dall’orchestrazione del medico e dei protocolli di terapia, delegando l’azione di cura ai farmaci i quali, si può affermare, assumono l’agentività di “inviati speciali” in un corpo percepito come campo di azione esterno al sé. Il soggetto interagisce con il proprio corpo dal quale ci si aspetta la guarigione oppure, al contrario, l’imprevisto. Esiste, anche, il livello meta- discorsivo della progettazione. Il medico e il paziente ridisegnano la vita quotidiana. Il vivere viene segmentato da una progettata e finalizzata scansione dei tempi. I farmaci, la dieta, gli interventi chirurgici, gli accertamenti diagnostici, le prenotazioni dei consulti e delle azioni mediche periodizzano le pratiche di vita quotidiana in tre, sette, quattordici, venti … giorni. Il voler vivere è agire i tempi di attesa e di azione. Dunque, possiamo spiegare tutto il percorso della malattia in termini di programmazione narrativa e di correlazione di embrayage e di débrayage? Privazione e allontanamento da uno stato iniziale di salute e funzionamento sociale avviano un percorso agentivo di enunciazione di uno stato del corpo (sintomi e malattia); attraverso il percorso di diagnosi, terapia e cura e guarigione si perviene allo stato di congiunzione inteso come ritrovato stato di performance iniziale. Le pratiche mediche configurano se stesse nelle azioni di attanti complessi in termini di aspettualità e potenziale attualizzazione. Lo stato di salute ritrovata è esito creativo della dialettica fra assenza e presenza rispetto a programmi comportamentali definiti in termini di performance. In altri termini, il programma narrativo si configura nella soggettivizzazione del corpo e si dipana nel processo di decentramento. Il correlarsi di embrayage e débrayage, come già mostrato, fa il resto.
Da quanto detto finora, emerge che l’oggetto di una antropologia del corpo non è tanto una condizione statica o un evento dato quanto, piuttosto, un processo. La comprensione dell’oggetto antropologico “corpo” (così come quello di “malattia”) avviene nei passaggi narrativi, nelle interrelazioni, nei processi. Cosa osserva l’antropologo? Il corpo come oggetto antropologico non è un fermo-immagine, ma un vero e proprio movimento multiprospettico da osservare da vicino e da lontano, dall’interno e dall’esterno, che ha una retroazione sulla definizione delle categorie usate. Il processo di conoscenza a fondamento antropologico si conferma, dunque, nello spazio intersoggettivo del dialogo che si instaura fra osservatori e osservati, attori individuali e collettivi, enunciatori ed enunciatari, essi stessi soggetti di azione, interazione ed enunciazione.
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
Riferimenti bibliografici
Cappelletto F., “Vivere l’etnografia. Osservazioni sul rapporto medico-paziente”, in F. Cappelletto, Vivere l’etnografia, SEID, Firenze, 2009
Le Breton D., Antropologia del corpo e modernità, Giuffrè, Milano, 2007 (ed. or. 2000)
Montes S., “E se fosse un gioco? Un antropologo in spiaggia e i sensi dell’altrove”, in Dialoghi Mediterranei, n.10, novembre 2014
Scheper-Hughes N., “Il sapere incorporato: pensare con il corpo attraverso un’antropologia medica critica” in Borofsky R., L’antropologia culturale oggi, Meltemi, Roma, 2000 (ed. or. 1994)
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Concetta Garofalo, laureata sia in Lettere sia in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli Studi di Palermo, studia i molteplici aspetti teorici e pragmatici della agency e i processi, a breve e lungo termine, di interazione fra soggetti, instaurati nel mondo contemporaneo in relazione ai sistemi culturali di appartenenza, in spazi e tempi configurati soprattutto dai contesti urbani e dai contesti di apprendimento. La sua prospettiva di ricerca interdisciplinare attinge agli ambiti di studio più specifici dell’etnopragmatica e della sociosemiotica.
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