Don Lorenzo Milani a cento anni dalla nascita ci parla ancora, ci interroga persino e ancora ci scuote. Non serve soltanto farne memoria attraverso convegni, libri, articoli di giornali, film e cartelloni, non bisogna solo parlare e scrivere di lui; chi ha conosciuto Don Milani attraverso i suoi scritti o quelli dei suoi allievi, chi ha letto almeno una volta nella vita Lettera a una professoressa non può che rimboccarsi le maniche con gioia e vigore e iniziare a lavorare alla stessa opera del Priore di Barbiana: prendersi cura della formazione dei ragazzi poveri, emarginati, in condizione di disagio sociale, economico e culturale.
Leggendo Lettera a una professoressa, del resto, come sosteneva Pasolini, la vitalità aumenta in modo vertiginoso: bisognerebbe che gli insegnanti ne facessero lettura a settembre, prima di ogni nuovo anno scolastico, come vangelo laico della scuola accanto alla Costituzione e come suo ideale e pratico completamento; con profonda amarezza constatiamo, tuttavia, che molti colleghi di questo libro conoscono solo la fama o qualche frase citata qui e là a fare scempio di uno dei più valorosi maestri del Novecento.
Don Milani non va solo celebrato, ma vissuto. Lettera a una professoressa ci impone operosità, lavoro sempre, ortodossia dell’azione, intransigenza, fatica: e non sono forse questi gli espedienti per sperare in una società migliore? «Finché c’è fatica, c’è speranza» sosteneva Don Milani e nel centenario della sua nascita, il 27 maggio, a Barbiana, con queste stesse parole il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha concluso il suo intervento in occasione della cerimonia commemorativa.
Lorenzo Milani nasce a Firenze in una colta famiglia borghese, nell’adolescenza si appassiona alla pittura e per approfondire l’arte sacra legge il Vangelo: si interroga, si turba sulla sua condizione di privilegiato, non ha pace, ha trovato il Dio dei poveri e a venti anni si converte ed entra in seminario. La madre, Alice Weiss, di origine israelita, reagisce alla scelta vocazionale del figlio con queste parole: «Per noi è doloroso come se tu fossi morto in guerra» [1], i suoi, tuttavia, non ne ostacolano la scelta e il cospicuo numero di lettere tra la madre e il figlio, negli anni del sacerdozio, sono anzi testimonianza di una relazione viva e di un legame profondo. Nel 1947 Lorenzo Milani diventa sacerdote, l’esperienza di aiutante prete a Montespertoli dura poco,
Don Lorenzo, del resto, mal tollera quel luogo in cui la famiglia teneva i poderi; vuole vivere poveramente, non sopporta di dormire e mangiare nell’abitazione signorile dei genitori. Nello stesso anno la Curia lo nomina cappellano della parrocchia di San Donato a Calenzano. In questo paesino, non lontano da Firenze, istituisce una scuola serale per giovani operai: la vera povertà consiste nella mancanza della conoscenza e del dominio della parola, il sapere avvicina a Dio e fa gli uomini liberi. La scuola serve per pensare e per difendersi dall’egemonia della borghesia e dalla tirannia dei padroni delle fabbriche: «a noi non interessa tanto di colmare l’abisso di ignoranza, quanto l’abisso di differenza» [2], La scuola accoglie credenti e non credenti, militanti di partiti di destra e di sinistra.
Don Milani diventa presto un prete e un educatore scomodo e i due ruoli non sono mai scissi: durante le omelie scende dal pulpito, ha affisso alla navata una carta della Palestina che utilizza per spiegare i fatti del Vangelo, il suo linguaggio è semplice e concreto, niente fronzoli e orpelli. La semplicità e la concretezza del suo dire le ha apprese dall’arte, dal maestro di pittura Hans Joachim Staude: «tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come un’unità dove ogni parte dipende da un’altra. A me non bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo e ho preso un’altra strada» [3].
La scuola di Calenzano, che promuove e organizza il sindacato, l’attività di prete dal parlare laico, libero e anticonformista fanno storcere il naso al clero e alla Democrazia Cristiana, che si aspettano, invece, da parte di Don Lorenzo un agire di “devota” e obbediente partecipazione alla lotta contro il comunismo. Egli è dalla parte dei poveri, degli ultimi, dei giovani contadini e operai e questa scelta, tuttavia, si configura come una scelta interamente religiosa e umana che nulla ha a che fare con la politica dei partiti. Ce lo chiarisce egli stesso nella lettera al giovane comunista Pipetta di San Donato: «È un caso, sai, che tu mi trovi a lottare con te contro i signori (…) Ora che il ricco t’ha vinto col mio aiuto mi tocca dirti che hai ragione, mi tocca scendere accanto a te e combattere il ricco. (…) Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene, Pipetta, io ti tradirò» [4]. Quanti lo abbiano considerato un prete comunista o sono caduti nell’errore o hanno sostenuto i propri interessi. Non si può incasellare o etichettare politicamente Don Lorenzo Milani: non era un rivoluzionario, era un intransigente, non si riteneva un cattolico del dissenso, ma perseverante, anzi, nei valori del Vangelo e della Costituzione.
Nel 1954 Don Lorenzo Milani viene trasferito a Barbiana, l’intento del clero è quello di emarginarlo, confinarlo in una parrocchia isolata e di pochissime anime per ammutolirlo: non fu così. È sorprendente, infatti, che l’esempio di Barbiana sia un messaggio vivo ancora oggi e sia arrivato molto lontano. Dal confinamento, dalla povertà delle campagne del Mugello, dalla miseria delle poche famiglie che le abitano, da quel niente Don Milani prende forza: «La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche la possibilità di fare del bene si misurano dal numero di parrocchiani» [5], scrive alla madre, non appena giunto a Barbiana.
Parlando di Barbiana, Marco Ramat, ne La lettera sovversiva di Vanessa Roghi, testimonia: «il posto diventa grande in proporzione del lavoro che uno ci butta, senza dispersioni velleitarie che nascondano un’inconscia tendenza al disimpegno. Questa è la lezione più profonda che mi diede Don Milani: la stessa lezione per cui Barbiana, per il lavoro buttatoci da lui, era diventato un posto immenso» [6].
Certo la grandezza della fama del luogo si deve soprattutto a Lettera a una professoressa, questo libro straordinario, pubblicato subito dopo la morte del Priore nel 1967, ha fatto la storia della scuola italiana, ha mosso la riflessione sull’urgenza di riformare il sistema educativo italiano ed è divenuto simbolo e manifesto delle battaglie per la scuola negli anni Settanta. In quegli anni, scrive Vanessa Roghi, ma forse anche adesso «Le maestre d’Italia si dividevano in tre gruppi precisi: chi aveva letto Lettera a una professoressa, chi non l’aveva letta, chi era la professoressa» [7]. Il libro – si legge subito nella prima pagina – non è scritto per gli insegnanti, ma per i genitori: «È un invito ad organizzarsi». I Decreti Delegati nei primi anni Settanta ne furono la risposta: la scuola assunse il carattere di comunità sociale e civica con la partecipazione attiva di tutte le sue rappresentanze: studenti, genitori e insegnanti.
Nell’imbarbarimento e nella superficialità degli interessi della società odierna anche queste conquiste sembrano perdute: la partecipazione è diventata forma scevra di sostanza, si ha difficoltà a eleggere la rappresentanza dei genitori nei consigli di classe e di istituto e le riunioni collegiali sono regredite a liturgie burocratiche.
A Barbiana inizialmente il Priore cerca di avvicinare i giovani alla parrocchia offrendo occasioni di svago, ma poi si rende conto che nessuna opera di evangelizzazione può avvenire senza un’elevazione sociale e civile: occorre fare scuola! Non si può buttare via il tempo, «bestemmiare il tempo, dono prezioso di Dio che passa e non torna» [8]. Don Milani condanna la ricreazione, dunque, «per affetto del suo contrario (la scuola)» [9]. «Non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica. Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perché il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che capitava a visitarci faceva una polemica su questo punto. Un professore disse: “Lei reverendo non ha studiato pedagogia. Polianski dice che lo sport è per il ragazzo una necessità fisiopsico…” Parlava senza guardarci (…) Finalmente andò via e Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse: “La scuola sarà sempre meglio della merda”» [10].
Nella scuola di oggi si spreca tanto tempo, molto in compilazioni di carte, disbrigo di pratiche, giornate dedicate a “manifestazioni” ed “eventi”, organizzazione di balli di gruppo, mentre, invece, come sostiene Massimo Recalcati, un’ora di lezione può cambiare la vita.
Il tema della ricreazione è stato ampiamente trattato da Don Milani nelle Esperienze Pastorali, opera pubblicata nel 1957, ma fatta ritirare dal commercio dal Sant’Uffizio un anno dopo, perché giudicata inopportuna. Scomoda perché le esperienze raccontate sono verità avallate da indagini statistiche o ispirate da un saldo senso etico come per le bellissime pagine del capitolo Lettera aperta a un predicatore. Tenuta nella lista dei libri proibiti per 55 anni, nel 2013 papa Francesco ne ha sciolto la condanna. Don Milani, che con affettuosa ironia chiama la Chiesa “la mia ditta” è obbediente all’ordine sacro fino alla fine dei suoi giorni, ma la sua opera di evangelizzazione e il suo amore per i ragazzi non può redimersi dalla verità: «Ragazzi io vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio soltanto per darvi l’istruzione e che vi dirò sempre la verità d’ogni cosa, sia che faccia comodo alla mia ditta, sia che le faccia disonore» [11].
A Barbiana la scuola si svolge in canonica, ogni stanza è un’aula, al piano terra viene allestito un laboratorio dove i ragazzi imparano a costruire quello che serve per la scuola stessa e in estate le lezioni si svolgono all’aperto.
Tutti i ragazzi di Barbiana vanno a scuola in canonica, alcuni arrivano anche da Vicchio, camminano per un’ora e mezza nelle campagne al mattino e alla sera per raggiungerla, hanno dagli undici ai sedici anni, hanno frequentato la pluriclasse delle elementari e studiano dal Priore per affrontare gli esami di Stato. Nel 1963 sono all’incirca una trentina e sono più i maschi che le femmine, ma Sandra Passerotti ne Le ragazze di Barbiana ci racconta, attraverso la testimonianza diretta di alcune donne, una scuola al femminile che non conoscevamo. Don Lorenzo manda a lavorare e a studiare all’estero anche le ragazze: «il fatto di essere riuscito a mandare la Carla in Inghilterra, accidenti se fu una rivoluzione a Barbiana!», testimonia Franca Righini [12].
Tra le presenze femminili nella scuola ricordiamo pure quella della professoressa Adele Corradi, intervistata nel documentario Barbiana ’65 – La lezione di Don Milani (uno dei pochi documenti che raccoglie voci e immagini della scuola del Priore: al regista Angelo D’Alessandro fu concesso allora, in via del tutto eccezionale, di girarne le scene). Adele Corradi è anche autrice di Non so se Don Lorenzo, libro edito nel 2017 dalla casa editrice Feltrinelli. L’originalità di quest’opera sta nella capacità di raccontarci non la storia di Don Milani, come avviene per la maggior parte degli scritti sul Priore, ma la complessità del personaggio attraverso i ricordi di un’amicizia autentica. Cacciati gli intellettuali borghesi da Barbiana che con impertinenza prendevano la parola nelle lezioni o diffamavano Don Lorenzo all’esterno, la professoressa Corradi resta ad aiutare il maestro nella scuola: «Non mi ricordo perché dovessi fare lezione di latino con Michele la mattina prestissimo. Forse durante il giorno Michele lavorava alla Cisl e tornava la sera tardi. Io alle otto e mezzo dovevo essere a scuola e per raggiungerla dovevo fare quattordici chilometri. Penso perciò che la lezione dovesse essere all’incirca fra le sei e mezzo e le sette della mattina» [13].
Ora la scuola di Barbiana la chiameremmo inclusiva, ma, a differenza della nostra, quella lo era veramente, non se ne arrogava fintamente l’aggettivo. Era inclusiva perché «chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta per lui. Finché non aveva capito, gli altri non andavano avanti» [14]. Era inclusiva perché il suo fine non era economico, il pieno sviluppo, cioè, del cittadino produttivo, egoista e competitivo: «chi è più istruito guadagna più quattrini chi ha più quattrini fa più studiare i suoi figlioli» [15]; il fine della scuola di Barbiana era il pieno sviluppo della persona umana. Non ci sono voti, non ci sono promossi e bocciati nella scuola del Priore. Essere bravi non è un merito, è un compito: chi è bravo fa scuola ai più piccoli. Non bisogna amare la conoscenza, ma cercare il sapere per usarlo al servizio del prossimo. Conoscere, infatti, implica sempre un dovere, quello di insegnare: «ai poveri scuola subito prima d’essere pronta, prima d’esser matura, prima d’esser laureata, prima d’esser fidanzata o sposata». Ai ragazzi il Priore dona il sapere che possiede e la parola per non essere ingannati, per essere liberi. In cambio riceve la cultura dei poveri.
Tutti devono sapere le lingue, viaggiare per impararle. Argomento di lezione a Barbiana sono le parole, sulle parole passano intere le giornate: chi non intende tutte le parole della prima pagina di un giornale non può dirsi cittadino sovrano. La conoscenza delle lingue ha per Don Milani una funzione sociale: servono per comunicare, quindi per saper stare al Mondo. Chi va all’estero per imparare le lingue ogni giorno scrive a Barbiana e racconta ai compagni ciò che gli accade. In appendice alla nuova edizione del libro Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana di Michele Gesualdi la lettera che il giovane Michele invia da Stoccarda, dove fu mandato a lavorare e studiare per imparare il tedesco, ci racconta dell’incontro in treno di alcuni migranti meridionali analfabeti, partiti alla ventura, ma rispediti a casa dal controllore perché privi di passaporto. Ci muove a un sorriso Michele, che subito si fa amaro.
Lettera a una professoressa è un esempio del metodo di scrittura collettiva di cui ogni giorno si fa esperienza a Barbiana: la verità, secondo Don Milani, si può raggiungere solo collettivamente, un pezzo ciascuno. La scrittura collettiva non ha velleità e fini individualistici: la trasmissione del messaggio deve essere chiara per tutti. Si scrive sui foglietti, si uniscono i pezzi, si ciclostila, poi «si chiama un estraneo dopo l’altro. Si bada che non siano stati troppo a scuola. Gli si fa leggere ad alta voce. Si guarda se hanno inteso quello che volevamo dire» [16].
Un “metodo scuola di Barbiana” non esiste. Abbiamo accennato alla scrittura collettiva, alla lettura dei giornali, al tutoraggio dei più istruiti sui più piccoli, all’importanza del significato delle parole, allo studio delle lingue, ai laboratori, all’assenza dei voti… ma se sommaste tutto questo non avreste la scuola del Priore: «Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola (…) Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola (…) Non bisogna essere interclassisti, ma schierati. Bisogna ardere dell’ansia di elevare il povero a un livello superiore» [17].
Oggi molti colleghi, nonostante il superamento dei programmi, rimangono ancorati a una impostazione gentiliana della scuola: tutta la storia, tutta la letteratura, tutta la geografia, tutta la scienza. Le lezioni a Barbiana, invece, partono dal presente, dalle problematiche del presente (nazionale ed internazionale). Il presente è ineludibile! «Quella professoressa s’era fermata alla prima guerra mondiale. Esattamente al punto dove la scuola poteva riallacciarsi con la vita. E in tutto l’anno non aveva mai letto un giornale in classe» [18]. Per la comprensione e valutazione dei fatti i ragazzi di Don Milani si riferiscono alla Costituzione. Per la crescita morale e umana, sostiene il Priore, è più importante che i ragazzi conoscano il contratto dei metalmeccanici, che le guerre puniche. Occuparsi del presente nella scuola di Barbiana significa leggere i giornali, ragionare, per esempio, su quanto pubblicato nel febbraio del 1965 su “La Nazione” in cui i cappellani militari prendono posizione contro l’obiezione di coscienza: «Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella mia duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati (…) Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto [19]. Occorreva dare una risposta ai cappellani: «Allora abbiamo reagito noi. Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare. Ha perciò il diritto di dire cose che altri non dice» [20].
La conseguente lettera ai cappellani militari scritta da Barbiana solleverà un fervente dibattito nella società italiana e porterà Don Milani a giudizio per apologia di reato. Gli scritti attorno all’argomento, la lettera incriminata, la lettera ai giudici sono raccolti e pubblicati nel libro L’obbedienza non è più una virtù ad aggiungere valore al lavoro del maestro e dei suoi ragazzi.
Don Lorenzo Milani muore a Firenze il 26 giugno del 1967, è seppellito nel cimitero di Barbiana con gli scarponi e i paramenti sacri e accanto a lui dal 2018 riposa Michele Gesualdi. Povero, ma ricco di spirito, Don Lorenzo lascia un testamento di parole e un saluto ai suoi ragazzi che le comprende tutte: «Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto» [21].
La scuola oggi è molto malata e mi chiedo spesso se sia ancora in grado di obbedire al suo alto compito costituzionale o se non sia anch’essa uno strumento omologante e si debba, così, accogliere la provocazione di Ivan Illich di descolarizzare la società. Subito dopo Don Milani, la strada di riforme intraprese è stata virtuosa: sono state abolite le classi differenziali, ci sono stati gli anni della sperimentazione, sono stati aboliti i programmi tradizionali, l’autonomia scolastica ha aperto una riflessione seria sui territori e sui bisogni degli alunni e delle famiglie che ha permesso di personalizzare l’azione educativa, ma il berlusconismo è un subdolo male: il processo di depauperamento culturale dovuto all’inquadramento delle coscienze attraverso i media, il trionfo della superficialità e delle logiche aziendali hanno reso pressoché vano il lavoro di quanti desideravano costruire una scuola capace di formare cittadini liberi. Oggi mi pare che la scuola abbia senso solo nelle periferie degradate, nel Sud del nostro Paese, più che al Nord, nei paesi più che nelle città, per gli ultimi, per i disabili, per i poveri e gli emarginati, per le tante Barbiane del Mondo, per i migranti che alla scuola Penny Wirton di Roma imparano l’italiano; di loro e dei maestri volontari ci racconta Eraldo Affinati ne L’uomo del futuro. O la scuola influisce sulla società contraddicendo le usanze o non è scuola.
Dopo i tre anni delle medie, frequentate in paese, nel 1995 con altre tre compagne mi iscrissi al quarto ginnasio del Vittorio Emanuele di Palermo, eravamo state licenziate tutte con ottimi voti e avevamo avuto un bravo insegnante di Lettere, per raggiungere la nuova scuola di città dovevamo alzarci la mattina alle cinque e prendere la corriera che partiva alle sei e quindici, rincasavamo al pomeriggio e spesso restavano poche ore per lo studio. Il primo giorno di scuola la professoressa del ginnasio, senza conoscere ancora i nostri nomi e prima di guardarci negli occhi, proferì le testuali parole: «in questa classe siete in troppi, ne boccerò un terzo». Eravamo timide e lasciammo, inermi, che la condanna, fra i troppi, cadesse anche su di noi. Nell’estate seguente, forse per caso o perché i grandi libri sanno sempre come e quando essere opportuni, lessi per la prima volta Lettera a una professoressa. Ora sono un’insegnante: il mio maestro è Don Milani.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Note
[1] Michele Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, San Paolo, Milano, 2023: 41.
[2] Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1957: 220.
[3] Davide Rossi, a cura di, Lorenzo Milani. La selezione è contro la cultura. Appunti per una scuola aperta, Pgreco edizioni, Milano, 2017: 67.
[4] Michele Gesualdi, a cura di, Don Lorenzo Milani. Lettere, Edizioni San Paolo, Milano, 2023: 32
[5] Michele Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, op. cit.: 182
[6] Vanessa Roghi, La lettera sovversiva, Editori Laterza, Bari-Roma 2017: 52
[7] Ibidem
[8] Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, op. cit.: 54
[9] Ibidem: 135
[10] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1988: 12-13.
[11] Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, op. cit.: 269.
[12] Professoressa di lettere a Calenzano, conosce Don Milani e ne divulga gli insegnamenti, la sua testimonianza è raccolta in Sandra Passerotti, Le ragazze di Barbiana. La scuola al femminile di Don Milani, Libreria Editrice Fiorentina, Città di Castello (PG), 2023: 63.
[13] Adele Corradi, Non so se Don Lorenzo, Feltrinelli, Milano, 2017: 95.
[14] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, op. cit.: 12
[15] Da Lettera ad una sposa il giorno del matrimonio, in Michele Gesualdi, a cura di, Don Lorenzo Milani. Lettere, op. cit.: 95
[16] Testimonianza di Olga Bozzolini in Sandra Passerotti, op. cit.: 107.
[17] Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, op. cit: 239
[18] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, op. cit.: 27
[19] Michele Gesualdi, a cura di, Don Lorenzo Milani. Lettere, op. cit.: 282
[20] Ibidem.
[21] Ibidem: 357.
Riferimenti bibliografici
Eraldo Affinati, L’uomo del futuro, Mondadori, Milano 2016
Antonio Cairoti, Un marxista a Barbiana, intervista a Riccardo Cesari, in “la Lettura” del 14 maggio 2023.
Adele Corradi, Non so se Don Lorenzo, Feltrinelli, Milano, 2017
Michele Gesualdi, a cura di, Don Lorenzo Milani. Lettere, Edizioni San Paolo, Milano, 2023
Michele Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, San Paolo, Milano, 2023
Ivan Illich, Descolarizzare la società, Mimesis, Milano 2019
Mario Landi, Tutto al suo conto, San Paolo Edizioni, Milano 2023
Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1957
Don Lorenzo Milani, Perché mi hai chiamato?, San Paolo Edizioni, Milano 2013
Sandra Passerotti, Le ragazze di Barbiana. La scuola al femminile di Don Milani, Libreria Editrice Fiorentina, Città di Castello (PG), 2023
Massimo Recalcati, L’ora di lezione, Einaudi, Torino 2014Andrea Schiavon, Don Milani, parole per timidi e disobbedienti, Add, Torino 2017
Vanessa Roghi, La lettera sovversiva, Editori Laterza, 2017
Vanessa Roghi, Perché dobbiamo imparare ancora da Don Milani, “La Repubblica”, 27 maggio 2023
Davide Rossi, a cura di, Lorenzo Milani. La selezione è contro la cultura. Appunti per una scuola aperta, Pgreco Edizioni, Milano, 2017
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1988.
Sitografia
https://www.quirinale.it/elementi/89768
https://www.famigliacristiana.it/articolo/edoardo-martinelli-su-don-milani-altro-che-scuola-facile-a-barbiana-abbiamo-imparato-a-scrivere-e-a-ragionare.aspx
https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_402.html
Filmografia
Davide Cavalleri, Un uomo libero. L’ultima lezione di don Lorenzo Milani
Alessandro G. A. D’Alessandro, Barbiana ’65. La lezione di Don Lorenzo Milani
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Salvina Chetta, vive a Mezzojuso (PA). Si è laureata in Lettere moderne ed è insegnante di Sostegno nella scuola primaria. Ha fatto parte della Compagnia del Teatro del Baglio di Villafrati (PA). È appassionata di fotografia e ha pubblicato alcuni saggi sull’emigrazione siciliana in Tunisia. Per la rivista “Nuova Busambra” ha curato la rubrica “Nìvura simenza” sulle scritture popolari.
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