Poche settimane fa, il 13 ottobre 2015, la Camera dei Deputati ha approvato il testo base di riforma dell’impianto normativo che regolamenta la concessione della cittadinanza italiana agli stranieri. Nonostante manchi ancora l’approvazione definitiva da parte del Senato, sono già numerose le reazioni da parte dell’opinione pubblica, soprattutto rispetto al tema della cittadinanza agli stranieri nati sul territorio nazionale da genitori non italiani. Nel testo di riforma infatti, forse per la prima volta, si intravede un’apertura nei confronti del cosiddetto ius soli, la possibilità quindi di divenire cittadini in virtù della nascita in Italia, e non più soltanto grazie ai legami di sangue con antenati italiani. Infatti, la storia legislativa italiana ci mostra come nel nostro Paese la concessione della cittadinanza abbia da sempre privilegiato lo ius sanguinis rispetto alla residenza effettiva sul suolo nazionale. L’attuale riforma di legge, invece, facilita l’ottenimento della cittadinanza per i nati in Italia da genitori stranieri, restringendo i tempi e semplificando i requisiti per l’avvio della procedura. Essa prevede che i figli nati in Italia da genitori stranieri residenti nel nostro Paese da almeno otto anni e in possesso della Carta di Soggiorno da almeno due anni, vedano garantita la cittadinanza italiana automaticamente. Una notevole semplificazione rispetto al testo di legge precedente che invece sanciva la necessità di attendere il compimento del diciottesimo anno di età del ragazzo per poter avviare l’iter.
Anche l’attuale riforma presenta alcune criticità, che da parte delle associazioni di studi giuridici sull’immigrazione vengono segnalate come penalizzanti nei confronti dei potenziali candidati. Ad esempio, il requisito della Carta di Soggiorno pone il vincolo del reddito minimo richiesto, e questo potrebbe escludere quei nuclei famigliari in difficoltà economica, ma magari maggiormente integrati sul territorio di altri. Tuttavia, il senso generale della riforma è sicuramente quello di agevolare l’accesso alla cittadinanza di tutti coloro che, pur essendo a tutti gli effetti parte integrante della società italiana, rimangono relegati nella categoria degli stranieri per il semplice fatto di essere nati da genitori provenienti da un altro Paese.
Le accese reazioni alla riforma in discussione mostrano come il tema della cittadinanza sia da sempre estremamente controverso, e vada a sollecitare sentimenti ed emozioni ancestrali che toccano corde profonde in ciascuno di noi. Infatti, nonostante la cittadinanza sia in buona sostanza una sorta di contratto sociale tra l’individuo e lo Stato, ed implichi essenzialmente il rispetto e l’accordo su una serie di diritti e doveri (Castles and Davidson 2000: 12), essa richiama inevitabilmente il tema dell’appartenenza e dell’identità, un argomento ben lungi dall’essere ideologicamente neutro. L’idea di Stato-Nazione, che ha giocato un ruolo primario nelle vicende storico-politiche di tutto il XIX e XX secolo, pone l’accento proprio sull’unità culturale, linguistica ed etnica del popolo racchiuso dai confini nazionali, enfatizzando fortemente la connessione tra cultura e territorio. Durante l’era dei nazionalismi, lo Stato-Nazione è stato inteso come l’organizzazione politica perfetta, capace di alimentare il senso dell’unità nazionale e di evocare forti sentimenti di adesione patriottica (Schnapper 2002: 2). Questo ha portato nel tempo ad una sovrapposizione del concetto di cittadinanza con quello di nazionalità, confondendo spesso l’affiliazione a certi valori culturali con il sistema di regole politico-sociali che invece mette in relazione il cittadino con il proprio Stato di appartenenza.
Tuttavia in anni più recenti la forza evocativa dello Stato-Nazione, insieme alla sua reale capacità di cogliere e rappresentare le complesse dinamiche socio-politiche in atto al suo interno, è stata messa radicalmente in crisi. La globalizzazione, con i suoi processi di interconnessione e distanziamento, ha sempre più incrinato il forte legame tra cultura e territorio, rendendo l’unità culturale e geografica delle nazioni sempre più debole. Ciononostante l’ambiguità di fondo tra nazionalità e cittadinanza rimane, in quanto la cittadinanza si pone come nozione sovranazionale e quindi libera dai vincoli dell’omogeneità culturale, ma al tempo stesso essa è storicamente esperita sempre come processo in atto all’interno delle singole Nazioni. Se la cittadinanza si pone come principio astratto di garanzia di uguali diritti e sovranità per tutti i cittadini, senza riguardo per le loro intrinseche diversità, nella pratica essa può traslarsi nelle pratiche quotidiane soltanto attraverso l’azione delle istituzioni politiche, che per loro stessa natura tendono a rifarsi all’idea di nazionalità (Schnapper 2002: 9).
Questo significa che se vogliamo parlare di cittadinanza, dobbiamo in qualche modo parlare anche di appartenenza culturale e di identità, sia nei suoi aspetti processuali e dinamici, sia nelle sue rappresentazioni rigide e ben definite. Questa doppia anima dell’identità richiama la nota e interessante argomentazione proposta dall’antropologo tedesco Gerd Baumann che descrive l’identità come una competenza discorsiva duale, caratterizzata sia da un discorso dominante sia da quello che lui chiama un discorso demotico. Il primo emerge in tutte quelle posizioni reificanti di inclusione/esclusione culturale, laddove l’appartenenza viene rigidamente costruita attraverso il richiamo ad un sistema culturale chiaramente definito ed internamente coerente. In questo caso, l’identità diviene una categoria opposizionale, le cui caratteristiche tracciano chiare linee di demarcazione tra membri e non membri. Il secondo discorso, invece, viene inteso come dinamica processuale, che trova concreta espressione in tutte quelle pratiche che modellano, inglobano, assorbono, intersecano e mettono in crisi quelle ferme linee di demarcazione tracciate dal discorso dominante. Qui la reificazione lascia spazio alla volatilità e alla fluidità, dando spazio alle capacità inventive dei singoli individui e delle collettività. Questi due discorsi non sono mutualmente esclusivi, né si pongono in aperta contraddizione l’uno con l’altro, ma restano al contrario in profonda interrelazione reciproca. Le persone si muovono in questa duplicità discorsiva in una costante negoziazione quotidiana. L’apparente paradosso è che sono le stesse pratiche quotidiane, proprio nella loro estrema mobilità e creatività, a rivelare che l’identità a volte rimane statica, immutabile, fissando l’appartenenza culturale come qualcosa di realmente circoscritto e fisso.
L’interscambio tra istanze reificatrici ed estrema mobilità, ovverosia tra discorso dominante e discorso demotico, non si limita alle pratiche quotidiane dei singoli individui, ma al contrario estende la propria azione all’arena pubblica, entrando in gioco anche nel confronto politico sui fenomeni migratori. Quest’ultimo ambito di discussione non può che essere caratterizzato dalla prevalenza del discorso dominante, proprio in virtù delle caratteristiche intrinseche di quest’ultimo, che lo rendono uno strumento perfettamente idoneo alle dinamiche in atto in questo scenario. Infatti, esso è concettualmente semplice, si presta ad un’elevata flessibilità e mostra un’enorme plasticità ideologica (Baumann 1996: 188). Queste caratteristiche lo rendono uno strumento ideale per sollecitare la coscienza della gente su argomenti delicati, e per guadagnare consenso su di essi. Esso viene largamente utilizzato nell’attuale dibattito sull’immigrazione, e nella rappresentazione dei migranti al livello della società civile. Qui i migranti sono essenzialmente rappresentati come prodotti della loro cultura, la quale li rende in un certo senso suoi prigionieri. La cultura è pertanto intesa in modo rigido, ed appare più come un pesante fardello sulle spalle dei migranti, che non come un processo creativo nelle loro mani.
Tuttavia, lo stesso processo di reificazione dell’appartenenza culturale si estende anche ai cosiddetti autoctoni, gli italiani. Nel momento in cui l’Italia ha iniziato a confrontarsi con i sempre più pressanti flussi migratori, si è all’improvviso resa conto di avere una propria identità nazionale, minacciata dall’arrivo di massa di persone “altre”. La percezione è, quindi, quella secondo cui gli stranieri, per il semplice fatto di essere presenti sul suolo nazionale, possano contaminare l’essenza stessa dell’identità italiana, la quale rischierebbe così di perdere la propria autenticità. È appena il caso di precisare che questo discorso si basa su un’immagine del mondo costituito da distinte unità culturali, in opposizione l’una con l’altra e organizzate gerarchicamente, laddove cultura ed etnicità divengono una forza inarrestabile che condiziona profondamente la vita delle persone. Pertanto, i migranti vengono percepiti come una massa omogenea caratterizzata da un’identità culturale ben definita, che non può far altro che costituire una minaccia per la cultura della società ospitante, altrettanto culturalmente omogenea e circoscritta (Stolcke 1993). In questo discorso il legame tra cultura e spazio risulta di vitale importanza per identificare territorialmente l’appartenenza ad un dato gruppo culturale. Ne segue che le politiche nazionali in tema di immigrazione siano fortemente influenzate da tale discorso, laddove permettere l’ingresso ed il radicamento di “altri” culturalmente diversi da “noi” sul territorio nazionale significa inevitabilmente vedere la propria identità perdere la purezza originaria. Un discorso politico di questo genere ha una forte presa sui sentimenti nazionali delle popolazioni autoctone, e rappresenta un modo estremamente efficace sia di nascondere i reali problemi socio-economici acutizzati dall’arrivo dei migranti che di oscurare le debolezze del sistema messe ulteriormente in crisi dalla presenza di questi ultimi.
In Italia l’esempio più evidente di applicazione del discorso dominante a fini ideologici appena descritto è rappresentato dalla Lega Nord, che esalta non solo l’integrità dell’identità italiana ma addirittura quella di una non meglio precisata Padania. L’immagine del nostro Paese è quindi quella di un territorio sotto assedio, sfigurato nei propri tratti fondamentali a causa dell’arrivo massivo degli stranieri. Basti pensare alla forte campagna mediatica operata dalla Lega Nord in periodo elettorale, quando viene fatta leva proprio sulle paure ancestrali degli italiani rispetto alla perdita della propria storia e della propria identità, a causa dell’arrivo degli stranieri.
Per quanto sia intuitivo pensare che il discorso dominante occupi un ruolo fondamentale all’interno del dibattito tra partiti politici a fini propagandistici, tuttavia esso viene ampiamente utilizzato anche dalle comunità di migranti stesse, le quali in un certo senso lo identificano come linguaggio privilegiato attraverso il quale rapportarsi con le istituzioni e la società civile del Paese d’accoglienza (Baumann 1996: 192-193). Rinforzare l’appartenenza etnica e culturale sembra essere infatti un’azione strategica fondamentale per i gruppi minoritari, al fine di legittimare la richiesta a diritti di base altrimenti negati loro. Rivendicare l’affiliazione ad una data cultura, ed il conseguente diritto a difendere la propria identità e la propria specificità culturale, si fonda proprio sulla stessa idea di cultura come entità statica e chiaramente definita, a cui si richiamano gli stessi movimenti politici contrari all’immigrazione. Cambia l’obiettivo finale, ma l’azione del discorso dominante resta la stessa. L’utilizzo da parte di gruppi minoritari dell’appartenenza culturale a fini politici viene definito dallo storico Joseph Rothschild “etnopolitica”. Il termine indica il processo di «mobilizzazione dell’etnicità a partire da un dato culturale o psicologico verso il potere politico con lo scopo di alterare o reinforzare […] dei sistemi di ineguaglianza strutturata tra categorie etniche» (Rothschild 1981: 2). L’elemento fondamentale dell’etnopolitica sta nella possibilità che determinate minoranze sfruttino l’etnicità, e la cultura, come mezzo per ottenere specifici vantaggi o risorse altrimenti a loro non garantite.
La questione posta dai movimenti etnopolitici introduce il fondamentale tema dei diritti quali parte integrante della relazione tra cittadini e Stato, in quanto l’analisi di tale relazione dice molto rispetto all’effettiva posizione degli stranieri all’interno della società italiana. La residenza sul suolo nazionale garantisce la fruizione dei diritti fondamentali individuali alla base di ogni forma di coesistenza all’interno della società civile (almeno nei Paesi occidentali), quali ad esempio il diritto alla salute e all’istruzione. Il rapporto tra lo Stato e ogni individuo che vive nel territorio soggetto alla sua sovranità si delinea infatti attraverso il rispetto e la garanzia di tale serie di diritti e doveri, a prescindere da qualsivoglia forma di appartenenza collettiva. L’idea di cittadinanza si fonda proprio sull’efficacia di tale rapporto.
Tuttavia, la presenza degli immigrati sposta la discussione verso un’altra serie di diritti, concettualmente in opposizione ai diritti individuali, ma al tempo stesso in netta sovrapposizione agli stessi. Essi sono i cosiddetti diritti collettivi, garantiti sulla base dell’appartenenza ad uno specifico gruppo o collettività, e che segnano un’aderenza sostanziale a valori condivisi dal gruppo di appartenenza. Essi possono fondarsi sull’affiliazione etnica/culturale, ma anche sulla fede religiosa, sull’orientamento sessuale e così via. L’antropologa norvegese Unni Wikan propone una classificazione secondo cui i diritti individuali, garantiti a tutti gli individui senza distinzione di genere, classe, religione o etnicità, risultano nettamente distinti dai diritti collettivi, derivanti invece dall’appartenenza ad una data comunità (Wikan 2002). Questo implica che vi siano diritti non equamente distribuiti tra gli individui, ma al contrario assegnati sulla base di una specifica affiliazione a determinati gruppi. Nel caso in cui all’interno di una data società siano presenti gruppi di minoranza che vengono a trovarsi in una posizione di marginalità sociale proprio in virtù dell’appartenenza a quel dato gruppo, gli aspetti distintivi di tale gruppo diventano la leva su cui operare un cambiamento politico della propria condizione. Laddove determinati diritti di base vengono negati ad un dato gruppo in virtù della propria affiliazione culturale, ecco che quest’ultimo elemento diventa il fulcro attraverso cui innescare e sostenere azioni rivendicatorie. L’utilizzo dell’etnicità come strategia per mobilizzare l’azione sociale al fine di rivendicare diritti negati è un processo ampiamente diffuso in tutti i Paesi a forte pressione migratoria. Sempre più spesso sono proprio i migranti stessi a chiedere il diritto a vivere secondo la propria cultura, il diritto a mantenere la propria differenza culturale, ed il diritto a resistere contro le spinte assimilatorie esercitate dalla società di accoglienza.
Queste dinamiche all’opera nella relazione tra società d’accoglienza, movimenti politici, e comunità di migranti mostrano bene come il discorso dominante ben si applichi a contesti apparentemente in opposizione. Nonostante le finalità siano completamente diverse, la reificazione della cultura e dell’identità si dimostra uno strumento idoneo in svariati contesti. Sul versante delle organizzazioni e dei comportamenti dei migranti, le rappresentazioni rigide dell’identità divengono un mezzo importante per mobilizzare l’azione collettiva, per lottare contro quei centri di potere, che paradossalmente si richiamano alla stessa rigida idea di cultura al fine invece di limitare il fenomeno migratorio.
Le dinamiche appena descritte ci mostrano quindi come la ridefinizione dei criteri per la concessione della cittadinanza non tocchi soltanto aspetti di carattere giuridico che rimandano ad un dato ordinamento politico ed istituzionale. Essa offre, al contrario, l’opportunità per ridiscutere e ridisegnare il sentimento di appartenenza a ciò che reputiamo essere la nostra identità, vivendo fino in fondo tutte le contraddizioni aperte dal significato che questo strano concetto, la “cultura”, ha per ciascuno di noi. Che lo si intenda in senso collettivo o individuale, come un processo vitale di negoziazione con la realtà intorno a noi oppure come un fardello immutabile nel tempo che ci trasportiamo sulle spalle per tutta la vita, la cultura diventa un nodo cruciale quando ci troviamo a confronto con l’”altro”. E il dibattito sulla cittadinanza, soprattutto in relazione ai processi attraverso i quali definiamo la nostra identità individuale e collettiva, rimane l’arena privilegiata in cui sperimentare tutta la vitalità e le contraddizioni di tale nodo.
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
Riferimenti bibliografici
Baumann, G., 1996 (2006), Contesting Culture. Discourses of Identity in Multi-ethnic London. Cambridge: Cambridge University Press.
Castles, S. and Davidson, A., 2000, Citizenship and Migration. Globalization and the Politics of Belonging. Basingstoke: Macmillan.
Gellner, E., 1983, Nations and Nationalism, Oxford: Blackwell.
Rothschild, J., 1981, Ethnopolitics. A Conceptual Framework. New York: Columbia University Press.
Schnapper, D., 2002, ‘Citizenship and National Identity in Europe’, in Nations and Nationalism, vol. 8 (1) (2002): 1-15.
Stolcke, V., 1995, ‘Talking Culture. New Boundaries, New Rhetorics of Exclusion in Europe’, in Current Anthropology, Vol.36 (1) (1995): 1-24.
Wikan, U., 2002, Generous Betrayal. Politics of Culture in the New Europe, Chicago: The University of Chicago Press.
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Chiara Dallavalle, già Assistant lecturer presso National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia culturale, è coordinatrice di servizi di accoglienza per rifugiati nella Provincia di Varese. Si interessa degli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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