speciale cirese
di Maria Rosaria La Morgia e Anna Rita Severini
«Il 2021 è l’anno giusto per ricordare Alberto Mario Cirese. […] È l’anno giusto perché il 19 giugno prossimo saranno 100 anni dalla sua nascita. È l’anno giusto perché il 1 settembre saranno 10 anni dalla sua morte».
Queste parole di Pietro Clemente in un post FB dello scorso 13 marzo, le riflessioni che seguivano e il suo stimolo a essere partecipi di una memoria condivisa sulla figura di un grande maestro della nostra antropologia culturale, ci hanno incoraggiato a recuperare nella mente ciò che di più importante ancor oggi conserviamo dei suoi lasciti in Abruzzo, in termini di relazioni umane, di ispirazione teorica e di prassi museale. Abbiamo immaginato un dialogo perché il nostro incontro, un bel po’ di anni fa, lo dobbiamo a Cirese e a quello che ci ha insegnato in momenti diversi della nostra vita.
M.R.L.M.
Avevo appena iniziato a parlare quando Alberto M. Cirese m’interruppe per farmi questa domanda e aggiunse, dando per scontata la risposta positiva, «di dove?». Era il mio primo esame di Antropologia Culturale, giugno 1974, Università La Sapienza di Roma. Quando, un po’ intimorita, gli risposi che ero di Lanciano, mi guardò sorridendo e disse: «La città famosa per la Banda musicale, per la Rivista Abruzzese e per la casa editrice Carabba». Mi spiegò che a tradire la mia origine era stata la pronuncia delle vocali, di una é al posto di è. Aggiunse che anche le sue origini erano abruzzesi, era nato ad Avezzano, poi andammo avanti a parlare di culture egemoniche e subalterne, di relativismo, di sistemi di parentela, di invarianze culturali. Fino a qualche mese prima ignoravo l’esistenza dell’Antropologia Culturale, mi ero iscritta a Filosofia perché la vedevo come una facoltà con un orizzonte ampio. Alla fine non c’era una professione definita e questo mi faceva sentire libera.
Mi ritrovai a frequentare il corso del prof. Cirese per caso, grazie al mio cognome che inizia per L , lui toccavano quelli dalla A alla L, mentre i cognomi compresi dalla M alla Z dovevano seguire il corso di Ida Magli. Da subito fui affascinata dalle sue lezioni, tutt’altro che semplici ma coinvolgenti per la capacità che aveva di narrare e di parlare di cose complicate con estrema chiarezza. La voce calda e profonda, la capacità di tenere accesa l’attenzione e di interagire con chi aveva di fronte. S’infervorava quando parlava di Lèvi-Strauss, della differenza tra analisi strutturale e strutturalismo, quando ci guidava nella lettura di Propp e della Morfologia della fiaba. Ci faceva entrare nei meccanismi della logica formale e della linguistica. Ci spingeva a leggere, non in modo superficiale, Croce e Marx. Con grande sorpresa, mi ritrovai anche a studiare l’algebra di Boole e a sentir parlare di informatica. Non era facile seguirlo e conservo ancora i quaderni zeppi di appunti perché quello che diceva era impossibile da ritrovare nei libri.
Erano, quelli, gli anni della protesta nelle aule universitarie, della contestazione, ed erano pochi i professori che sfuggivano alle interruzioni, a volte anche dure nei modi. Cirese era fra questi. Non si sottraeva al dibattito, alle domande, ma riusciva a dominare il contraddittorio. Aveva rigore logico e passione politica che veniva fuori soprattutto quando parlava di Meridione e di folklore, di mondo contadino e di cultura materiale. Con lui rilessi Antonio Gramsci e scoprii Rocco Scotellaro.
Fu allora che decisi di chiedergli la tesi e non fu facile trovare l’argomento giusto. Dopo una serie d’incontri decidemmo che avrei fatto una ricerca sul campo tra i contadini della zona dove vivevo. Ricordo ancora le direttive precise: non solo fonti orali ma anche documentazione in archivio, ricostruzione del contesto storico e, soprattutto, consapevolezza dei limiti di uno studio circoscritto a un pezzo di territorio in un determinato momento.
Sapendo che ero di Lanciano mi consigliò di parlare con Emiliano Giancristofaro, punto di riferimento per le tradizioni popolari abruzzesi e in quegli anni molto attivo nella ricerca sul campo. Avevo finito gli esami in anticipo e per discutere la tesi avevo un bel po’ di mesi davanti a me: era un incentivo ad approfondire, a rivedere, a limare. Mi affidò al suo giovane assistente, Alberto Sobrero, e fu una fortuna perché mi seguì con attenzione, pazienza, intelligenza evitandomi errori che avrebbero potuto suscitare l’irritazione del Professore: disponibile, umano, ma esigente e rigorosissimo e tagliente quando qualcosa non andava. Come correlatore volle Diego Carpitella, mi laureai nel luglio del 1977 e l’anno dopo la tesi diventò un quaderno della Rivista Abruzzese con una nota di Alberto M. Cirese sulla storia orale [1].
A quel punto immaginavo un futuro nell’Università, nel mondo della ricerca, ma a riportarmi con i piedi per terra fu proprio Cirese che andai a trovare subito dopo la laurea. Mi suggerì di frequentare una scuola di specializzazione che avrebbe potuto offrire sbocchi professionali e, tenendo presente l’esperienza che avevo fatto con la tesi, mi indirizzò verso quella per Archivisti e Bibliotecari. Seguii il consiglio e nel frattempo cominciai a guardarmi intorno alla ricerca di un lavoro. Fu così che decisi di partecipare al concorso per programmisti registi che la Rai aveva deciso di fare in vista della nascita della Terza Rete. Dal 1979 entrai a far parte della struttura programmi della Sede Regionale per l’Abruzzo portando con me gli insegnamenti di quello che era stato per me un vero Maestro.
Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 la Terza Rete Rai svolse, attraverso i programmi regionali, un ruolo importante nella documentazione delle feste popolari e delle tradizioni della cultura contadina, un mondo che stava scomparendo velocemente. C’era un dibattito, anche acceso, tra chi sceglieva un punto di vista romantico privilegiando un racconto nostalgico e chi ricorreva ad altre categorie, che definirei ciresiane. Il metodo ciresiano significava uno sguardo complesso che non si fermava alla superficie e all’uso di categorie morali (buono/cattivo, bello/brutto). Attraverso la cultura materiale era possibile ricostruire mondi e modi di pensare. Ed è questa la forza di un pensiero e un insegnamento che non conosce limiti temporali: Cirese forniva attrezzi di lavoro necessari per conoscere/capire.
Fu una stagione importante per l’Abruzzo, non è vero Anna Rita?
A.R.S.
Senza alcun dubbio. Proprio allora inizia anche il mio repertorio di ricordi più vivi legati alla figura del prof. Cirese: occasioni di incontro, insegnamento e cooperazione risalenti agli anni di lavoro presso il Museo delle Genti d’Abruzzo di Pescara (1981 – 2000) [2]. Con qualche prezioso cimelio.
Non ho avuto la fortuna di essere sua allieva, ma ho imparato tanto da lui. E il suo legame profondo con questa parte d’Italia – l’Abruzzo materno e il Molise paterno – mi ha sempre inorgoglito, così come la frequente e convinta inclusione delle due regioni fra le proprie cinque patrie.
L’ho conosciuto durante un convegno nel teramano. Correvano i primi anni Ottanta, io ero agli inizi della carriera e dei miei approfondimenti sugli studi relativi ai musei etnografici. Laureata in Lettere Classiche con una tesi in Glottologia, mi trovavo un po’ alle prime armi in questo campo. Ma la lettura di Oggetti segni musei [3] era freschissima, una rivelazione. Più di tutti mi colpì il saggio Le operazioni museografiche come metalinguaggio. Mi pareva allora che quel che andava fatto per un buon museo etnografico fosse tutto scritto lì, in quel volume minuscolo, eppure denso di indicazioni e suggestioni. Di ragionamenti chiarissimi e deduzioni stringenti. E davvero con quella lezione ci si è dovuti confrontare a lungo. Ancora oggi se ne riconosce il valore fondante in rapporto al successivo interesse degli antropologi per la complessa realtà dei musei.
Ripenso a come in quel periodo il fenomeno della cosiddetta «museografia spontanea» avesse già testimonianze interessanti in Abruzzo. Gli anni Sessanta avevano visto la nascita di due iniziative pionieristiche – il Museo del Folklore e delle Tradizioni Popolari aperto nel 1964 a Cerqueto di Fano Adriano (TE) e il Museo del Pastore a Lucoli (AQ) nel 1967 –, mentre muoveva i primi passi l’avventura di due associazioni di volontariato culturale, Archeoclub e A.S.T.R.A., che già nel 1973 avrebbe dato frutti duraturi con la creazione a Pescara del nucleo originario del Museo delle Genti d’Abruzzo.
Poi, fra gli anni Ottanta e Novanta, sulla scorta di valide sperimentazioni in altre parti d’Italia, anche la nostra regione produsse una trentina di strutture espositive. Il panorama mostrava una certa varietà in quanto a tipologia e formazione delle collezioni, scelte di allestimento, modalità di gestione. I limiti erano quelli fisiologici di un fenomeno di base, sorretto da forti motivazioni ideologiche ma privo spesso di progettazione specifica e di risorse sistematiche atte a garantire buona conservazione, catalogazione e regolare fruibilità delle raccolte. Alcuni impianti, tuttavia, rivelavano chiaramente l’assimilazione più o meno fedele della teoria ciresiana del museo-discorso, superando la generalizzata tendenza a presentare gli oggetti in serie tematiche o ricostruzioni d’ambiente. Mi riferisco, per esempio, al Museo della Civiltà Contadina in Val Vibrata (Controguerra-TE) e al Museo di Tossicia (Tossicia-TE), come anche al citato Museo delle Genti d’Abruzzo.
Tenendo, dunque, ben a mente alcuni scritti di Cirese, con le mie colleghe di allora – Elena Gennaro e Adriana Gandolfi – iniziai a collaborare alla realizzazione dei nuovi allestimenti nell’attuale sede del Museo pescarese appena restaurata. Svolgemmo sul territorio un’appassionata ricerca di testimonianze orali e materiali, costruendo un po’ alla volta un archivio rivelatosi decisivo per la coniugazione di oggetti, immagini e testi dentro una stessa trama espositiva. Avemmo anche la possibilità di perlustrare alcuni musei italiani fra i più rilevanti del settore, di dialogare coi loro curatori sulle scelte operate [4]. Fu un periodo fertile di idee e di impegno pratico, ma soprattutto di adesione a un progetto comune, forte dell’apporto di studiosi locali al fianco di accademici e progettisti [5]. Forse il tempo fa mitizzare il ricordo di certe fonti autorevoli cui ci si è affidati, ma senza dubbio in quegli anni, e nel corso di quell’allenamento sui libri e sul campo, Alberto Cirese è stato il nostro vangelo e Paul Scheuermeier la nostra enciclopedia [6].
Seguì la partecipazione al V Colloquio Europeo Identità e specificità della museologia etnoantropologica, tenutosi a Modica del 1989. Anche lì la presenza di Cirese e le sue parole ci hanno consentito di portare a casa, in Abruzzo, un corposo bagaglio di riflessioni. Ho riletto da poco il suo intervento di allora [7] insieme a quello di Pietro Clemente [8] che, illustrando la collezione allestita da Ettore Guatelli a Ozzano Taro (PR), apriva i nostri sguardi sulle potenzialità estetiche ed emozionali di un buon museo antropologico. «Museo dell’espressività» in alternativa a «museo della razionalità», notava il maestro Cirese in dialogo critico col maturo allievo Clemente. E, pur apprezzando quel modo di conoscere come una «esperienza poetica importante», ribadiva le proprie posizioni sul «conoscere logico» quale presupposto per la costruzione di musei che possano giovarsi di indicazioni di metodo unificanti.
Ciò nondimeno, fu proprio lui a procurarci il manoscritto ancora inedito di Pietro Clemente Graffiti di museografia antropologica italiana, che ci consentì di approfondire convincenti ipotesi nuove di comunicazione museale [9]. Avvenne quando, inaugurato il primo lotto di sale nel 1991, l’Amministrazione Comunale di Pescara gli affidò una consulenza per l’allestimento del secondo e ultimo lotto del nostro museo. Si determinò in quel periodo una situazione propizia, di lavoro e formazione insieme, che ci offrì l’opportunità di incontrarlo con cadenza regolare, di intrattenerci su questioni legate al suo incarico e su altre, quando ce n’è stato il tempo. Insomma, di ascoltarlo.
Una bella foto di quel periodo con lui ed Elena Gennaro per le vie della città è il mio primo cimelio.
L’ampiezza e la densità del suo ambito di studi, unite alla consolidata perizia nel trasmettere saperi, idee e anche qualche provvidenziale provocazione, furono per me impareggiabile strumento di crescita. Ricordo che anche nelle rare conversazioni al di fuori delle riunioni formali, ne seguivo le argomentazioni senza lasciar cadere una sillaba, convinta di poterne trarre comunque cose buone, pure quando si mostrava inaspettatamente sbrigativo o spiazzante rispetto a posizioni che mi parevano assodate, ma si rivelavano a volte frutto di pericolosi stereotipi ideologici.
Ed è stata grande la soddisfazione nel ricevere il suo apprezzamento per quanto si era già in grado di elaborare sulla cultura agro-pastorale da mettere in mostra. Conservo ancora una sua mail, stringata ma inequivocabile, in cui nota la competenza e correttezza dei primi testi che gli inviai in visione. Questo è il secondo cimelio.
Né posso dimenticare in quei giorni l’incontro alla stazione di Pescara tra l’archeologo prof. Mario Antonio Radmilli in arrivo da Pisa e l’antropologo prof. Alberto Mario Cirese in arrivo da Roma, due indiscusse autorità dell’Università italiana entrambe coinvolte nelle vicende di un museo in gestazione. Non si vedevano da decenni e facemmo loro una sorpresa senza saperlo. Si riconobbero, si abbracciarono commossi. Fu un momento toccante, da custodire fra i ricordi migliori.
Ma torniamo alla ricerca sul campo di allora. Maria Rosaria, prima parlavi della tua esperienza in RAI …
M.R.L.M.
Oggetti, segni, musei, il volumetto pubblicato da Einaudi nel 1977, rappresentò un punto di riferimento per molti, anche per chi faceva televisione. Era denso di suggestioni, come hai scritto, Anna Rita. Ricordo che, con Emiliano Giancristofaro, decidemmo di realizzare una serie di documentari dedicati alla cultura materiale del mondo contadino. Come titolo scegliemmo Gli oggetti parlano, un omaggio a quel libro di Cirese, al suo metodo d’indagine.
Non era facile portare in tv la complessità del discorso ciresiano, scegliemmo di utilizzare alcuni «strumenti» della quotidianità come grimaldelli per aprire una porta sul lavoro e sulla vita di quei contadini abruzzesi che stavano scomparendo. La macchina da presa e l’intervista erano le tecniche che ci permettevano di conservare testimonianze vive come quella del vecchio agricoltore che continuava ad arare attraverso la sua «perticara» (aratro) di legno o delle donne dei piccoli paesi dell’entroterra che tenevano ancora il telaio in casa per tessere. Il racconto metteva in evidenza i saperi, la cultura, la condizione economica, le diseguaglianze tra «classi dominanti e classi subalterne».
L’interesse per la storia locale, il desiderio di conservare e di far conoscere le testimonianze di un passato che stava velocemente scomparendo favorirono la nascita, anche in Abruzzo, di alcuni musei etnografici. Alcuni, come quello di Bomba (Chieti), incrociarono sulla loro strada Alberto M. Cirese. Ricordo che non potendo partecipare al convegno organizzato per il decennale nel 2000 mandò un contributo scritto, commovente per la sua ricchezza umana a cominciare dal ricordo delle origini familiari che affiora in risposta all’introduzione di Giuseppe Caniglia:
«L’ho detto forse anche troppe volte, e tuttavia insisto, perché è dato umano e culturale per me costitutivo: vengo da una famiglia di ‘gente di scuola’, come un tempo si diceva dei maestri elementari: nonna materna, madre e padre, al cui esempio di dedizione nell’insegnare, mente e cuore, si aggiunge la lezione che m’è venuta dalle due raccolte di canti popolari che i maestri e gli alunni della provincia di Rieti del Molise realizzarono sollecitati dal loro ‘Ispettore’ Eugenio Cirese. Mi commuove dunque, e mi conferma negli antichi convincimenti, la ulteriore prova della capacità culturale della scuola che viene dal museo di Bomba, nato appunto dalla scuola; ed anzi nato da una immediata esperienza scolastica difficilmente realizzabile fuori dalle aule quale è appunto la constatazione che gli oggetti della vita quotidiana di padri e nonni erano ormai ignoti a nipoti e figli» [10].
Ma il rapporto di Cirese con l’Abruzzo non si limitò solo a Bomba. Anna Rita è testimone di altri contributi.
A.R.S.
Negli anni di consulenza e di contatti frequenti col professore, stavo lavorando al censimento dei musei demo-etno-antropologici abruzzesi [11], cui seguì il contributo per l’Abruzzo a una ricognizione nazionale promossa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali [12]. Il relativo volume contiene un saggio dello stesso Cirese [13]. Mi feci coraggio e gli sottoposi il testo finale del mio censimento, chiedendo di avere una sua prefazione. La ottenni – e questo è il terzo cimelio – associata a qualche buon consiglio sull’impostazione generale. Ecco, se c’è un aspetto che ricordo davvero con gratitudine è la sua generosità, l’inclinazione spontanea, quasi distaccata, a rendere disponibili esperienza e conoscenza, tipica dei veri grandi.
Ma veniamo a un altro contatto, stavolta virtuale e didattico. Nel periodo 1996-1999, la prof.ssa Maria Luisa Meoni mi volle come cultrice della materia presso la Cattedra di Antropologia Culturale all’Università di Chieti-Pescara. Fui chiamata a tenere alcune lezioni proprio su scritti storici del professore. Per la prima volta avevo davanti studenti cui dovevo spiegare teorie fino ad allora studiate in relazione al mio lavoro, ma senza il sostegno della pratica accademica. Dico oggi con molta umiltà che forse agli esami ero più intimorita io di loro, ma fu un’occasione gratificante di analisi e condivisione su temi basilari del dibattito antropologico. Per me un altro solido insegnamento, oltre che una sfida.
Nel mio piccolo archivio ciresiano rintraccio infine qualche altra testimonianza legata all’Abruzzo. Uno è il bel dépliant di Tra il borgo e il mondo. In occasione degli ottant’anni di Alberto M. Cirese, convegno nazionale tenutosi fra Avezzano e L’Aquila il 15/6/2001 a cura del Prof. Francesco Avolio dell’Università dell’Aquila. L’altro è il volume Riti propiziatori in Abruzzo di Giuseppe Iammarrone, fotografo abruzzese di rara sensibilità estetica e capacità documentativa, definito fra l’altro da Diego Carpitella «un classico della fotografia antropologica». A modo di premessa fu lo scritto di Cirese, che ne curò i testi con Lia Giancristofaro [14].
Pur consapevole di inevitabili quanto involontarie omissioni, non credo di poter aggiungere altro, se non che di lui ho ancora ben presenti il rigore intellettuale, il lucido pragmatismo, lo sguardo vivace e penetrante, l’inconfondibile profondità della voce. Questo resta in me, oltre l’ineguagliabile eredità di studi. L’Abruzzo, i musei, noi tutti gli dobbiamo molto. E mi piace concludere il mio contributo a questo nostro dialogo, citando le prime parole della motivazione con cui la Società Italiana per la Museografia e i Beni Demo-Etno-Antropologici (S.I.M.B.D.E.A.) gli ha assegnato nel 2004 il Premio Museo Frontiera: «Ad Alberto Mario Cirese, per una storia piena di idee di museo…».
A te la parola, Maria Rosaria.
M.R.L.M.
Col passare degli anni i rapporti con Cirese si sono fatti sempre più sporadici, ma stranamente non si è mai interrotto il dialogo culturale con lui. Con il suo metodo di osservare la realtà, con il suo pensiero. Un punto di riferimento intellettuale in ogni stagione della vita. Ci ritrovammo, nel senso di sentirci telefonicamente, grazie a Emiliano Giancristofaro che, nel 2005, mi chiese di scrivere un pezzo su Eugenio Cirese per la Rivista Abruzzese. Parlammo a lungo di suo padre che sarebbe stato ricordato in Molise, ma soprattutto ci tenne a sottolineare il rapporto con Umberto Postiglione, il giovane anarchico, giornalista poeta sindacalista, che dopo nove anni trascorsi in America era tornato in Abruzzo per insegnare nelle scuole elementari. Un maestro, un intellettuale geniale e straordinario. Eugenio Cirese l’aveva conosciuto ad Avezzano, la città dove visse dal 1920 al 1932. Alberto Cirese ci teneva molto a ricordare quell’amicizia. Così ne aveva scritto su Oggi Domani Ieri [15], la raccolta di poesie, musiche e scritti dedicata al padre:
«Nel marzo del 1924, neppure trentunenne, Umberto Postiglione morì: era andato e tornato a piedi, per una riunione scolastica, in mezzo alla neve di quelle amate montagne d’Abruzzo che con tanto dolore vedeva farsi ‘nude, brulle, aride, riarse’ e che tanto alte si levano nel suo sussidiario Terra d’Abruzzo, uscito postumo nel 1925. Nel settembre del 1924 si tenne a Chieti il Secondo Convegno dei Maestri d’Abruzzo, e nel numero unico che lo accompagnò comparve Recuorde, la poesia che Eugenio Cirese dedicò al giovane maestro che sentiva vicino ‘sia per le affinità del sentire sia perché figlio spirituale dello zio Alfonso Postiglione, ispettore scolastico’».
Frugando nei cassetti della memoria, ormai affidata anche al computer, nella posta archiviata, ho trovato una serie di messaggi augurali che mandava per Natale a me e ad altri. L’ultimo che conservo è del 21 dicembre 2010:
«2001 – 2010 Dieci anni di auguri per Natale, i primi due con i pani di Sardegna e tutti gli altri con i presepie editi e inediti di Eugenio Cirese. Ci sarà vita per inviarne altri? Non so. Ma so che Natale e presepio sono radici salde della nostra vita in Italia, in Europa e mille altri luoghi del mondo sterminato. Cerco di continuare a scambiare auguri e speranze in questo caro giorno per il quale allego ancora un presepie di Eugenio Cirese. amc»
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] Maria Rosaria La Morgia, Contributo alla Storia Orale delle Contadinanze Frentane, con una nota di Alberto M. Cirese, in Quaderni di Rivista Abruzzese, 13, maggio 1979.
[2] Per maggiori notizie sul museo, principale riferimento della museografia demo-etno-antropologica in Abruzzo, vedi Conosci il museo. Catalogo del Museo delle Genti d’Abruzzo, Pescara,1997; Genti d’Abruzzo. Dal museo al territorio, guida-catalogo, Pescara, CARSA Edizioni, 2008; sito web:www.gentidabruzzo.com.
[3] Alberto Mario Cirese, Oggetti segni musei. Sui musei contadini, Torino, Einaudi, 1977.
[4] In particolare il Museo della Civiltà Contadina di S. Marino di Bentivoglio (BO), il Museo degli Usi e Costumi della Gente di Romagna a Sant’Arcangelo di Romagna (RN), il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina a S. Michele all’Adige (TN). E, naturalmente, il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari a Roma.
[5] L’allestimento museografico fu affidato all’arch. Franco Minissi, con la consulenza del dott. Giovanni Tavano e del prof. Ottavio Cavalcanti per i contenuti antropologici e del prof. Mario Antonio Radmilli per quelli archeologici, con la partecipazione della Soprintendenza Archeologica per l’Abruzzo.
[6] Paul Scheuermeier, Il lavoro dei contadini, Milano, Longanesi, 1980, opera monumentale su tecniche e strumenti del lavoro agro-pastorale in Italia e Svizzera Italiana negli anni ’20-’30 del Novecento. A partire dal 1997 sono state pubblicate monografie regionali (Trentino, Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Abruzzo) con i relativi materiali di ricerca depositati presso gli Archivi dell’Università di Berna. Per l’Abruzzo vedi Avolio Francesco, Severini Anna Rita (a cura di), Gli Abruzzi dei contadini, L’Aquila, Textus Edizioni, 2014.
[7] Alberto Mario Cirese, Musei contadini e modernità, in Museo e cultura, a cura di J. Cuisenier e J. Vibaek, Atti del V Colloquio Europeo Identità e specificità della museologia etnoantropologica, Modica (11-24/9/1989), Palermo, Sellerio, 2002: 29-34.
[8] Pietro Clemente, Estetica e comunicazione di massa nella museografia antropologica,in Museo e cultura, a cura di J. Cuisenier e J. Vibaek, Atti del V Colloquio Europeo Identità e specificità della museologia etnoantropologica, Modica (11-24/9/1989), Palermo, Sellerio, 2002: 53-68.
[9] Pietro Clemente, Graffiti di museografia antropologica italiana, Siena, Protagon Editori Toscani, 1996.
[10] Claudio Caniglia (a cura di), Il museo tra passato e futuro, Atti del convegno 10-11/8/2000, Introduzione di Alberto Mario Cirese, Bomba (CH). AMUSET, 2005.
[11] Anna Rita Severini, Musei etnografici d’Abruzzo. Censimento e schedatura, Quaderni del Museo delle Genti d’Abruzzo, n. 29, Pescara, 2000.
[12] Anna Rita Severini, Abruzzo. Beni culturali e musei demoetnoantropologici, in Il patrimonio museale antropologico, Roma, Gangemi Editore, (I ediz. 2002, II ediz. 2004), 2008: 248-270.
[13] Alberto Mario Cirese, I musei demologici: considerazioni di ieri e di oggi, in Il patrimonio museale antropologico, Roma, Gangemi Editore, (I ediz. 2002, II ediz. 2004), 2008: 23-30.
[14] Giuseppe Iammarrone, Riti propiziatori in Abruzzo, L’Aquila, Textus, 2007.
[15] Eugenio Cirese, Oggi Domani Ieri, tutte le poesie in molisano, le musiche e altri scritti a cura di A. M. Cirese – volume II – Marinelli editore, 1997: 362 -363.
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Maria Rosaria La Morgia, giornalista professionista, laureata in Filosofia (Roma – La Sapienza), ha lavorato in Rai fino al 2017, prima come programmista – regista dopo essere stata tra i vincitori del concorso del 1978, poi come giornalista nella redazione Tgr di Pescara e per un breve periodo anche in quella del TG2 a Roma. Tra le pubblicazioni: Contributo alla storia orale delle contadinanze frentane (Rivista Abruzzese 1978); C’era una volta l’Abruzzo (Medium 1985); La Buona Salute, medici medicina e sanità nell’intervista con Silvio Garattini (Tracce 1997); Terra di Libertà, coautrice con Mario Setta (Tracce 2015); Sul cammino della modernità, a cura di Franca de Leonardis e Fabrizio Masciangioli (Rubbettino 2017). Attualmente è cultrice della materia presso la cattedra di Antropologia culturale dell’Università D’Annunzio, collabora con le riviste Leggendaria e Rivista Abruzzese, è presidente dell’Associazione Culturale “Il Sentiero della Libertà – Freedom Trail”.
Anna Rita Severini, è stata fino al 2017 Responsabile del Servizio Attività Culturali e Turistiche del Comune di Pescara. Dal 1981 al 2000 ha lavorato presso il Museo delle Genti d’Abruzzo, svolgendovi attività di ricerca, studio delle raccolte oggettuali e co-progettazione dei contenuti espositivi. Ha scritto su temi di antropologia museale e cultura materiale tradizionale abruzzese. È socio fondatore di S.I.M.B.D.E.A. (Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici). Sta per pubblicare il suo primo romanzo, ambientato a Istanbul e nel Museo dell’Innocenza, lì realizzato dallo scrittore Orhan Pamuk (premio Nobel 2006).
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