di Licia Toffaloni
L’asse Islam-Occidente è un tema così intriso di variabili che si materializza in una multicolore matassa apparentemente inestricabile. La sua complessità è tale che, chi si cimenta nella comprensione di uno dei suoi aspetti trasversali, tende inevitabilmente alla semplificazione per dedurne una risposta completa e definire così, nella grande asse, l’alterità religiosa. È un processo comune fra i non addetti ai lavori e la semplicità con cui si concreta risulta pressoché ovvia osservando la lettura offerta dal grande imbuto mediatico. I media, filtro per le informazioni, riuniscono i diversi argomenti riguardanti la grande asse raccogliendo indistintamente tutta la liquidità baumaniana per risolverla in un unico grigio idealtipo, districa la matassa per noi ma la semplifica a tal punto che non può che esser considerata una visione viziosa, un risultato convenzionale che limita la nostra percezione del fenomeno.
Il problema della compressione dei concetti nell’ambito Islam e Occidente si fonda principalmente sull’utilizzo di termini aberranti ed estremamente etichettanti, tramite i quali si definiscono temi complessi e di difficile spiegazione rendendoli più fruibili ma fuorvianti e semplicistici. Non è poi colpa delle parole; dopotutto siamo noi a rimpinzarle di significati e connotazioni, si pensi ad esempio all’ideologia che assorbe il termine ‘occidentale’ in questo contesto, non caratterizza l’uomo dell’ Ovest, se così possiamo dire, ma più che altro l’uomo che non è né dell’est né del sud, come se fossimo in presenza di un costante «West vs the Rest» (Hermans, Kempen, 1998). Si corre il rischio di scivolare in una islamofobia ‘colta’ e Kaled Fouad Allam ce la spiega con semplicità, asserendo che quest’ultima
«non solo ha la funzione di stigmatizzare un’intera civiltà; il suo obiettivo principale è allarmare sul pericolo dell’alterazione dell’identità europea. Si è sviluppato così un nuovo genere letterario, imperniato sul pericolo islam e soprattutto sulla nozione di Eurabia, vale a dire un’Europa che non è più se stessa e sarà sempre più indebolita dal fattore islamico e dalla presenza araba attraverso l’esponenziale crescita demografica delle popolazioni immigrate» (Fouad Allam, 2011: 62).
Com’è noto, a seguito della catastrofe del World Trade Center, l’attenzione alla diaspora musulmana si è dipanata esponenzialmente creando un senso comune tra l’opinione pubblica, sull’Islam come religione e sul musulmano come individuo, imperniato principalmente sul sentimento di minaccia. Il terrorismo odierno, la guerra dell’Isis, lo «scisma cancerogeno» (Panella, 2015) e le conseguenti nuove ondate migratorie, alimentano le paure dello “spettatore” che se fino al 2014 identificava in un hijab, in una lunga barba, in un nord africano, il musulmano, ora il ventaglio dello status symbol si amplia a qualsiasi pelle scura, a qualsiasi tratto somatico che possa portarci tra il Medio Oriente e l’Africa, questioni con cui Lombroso andrebbe a nozze. Non ci si fida più del corriere, del ragazzo che ci prepara il kebab, cambiano le raccomandazioni ai propri figli prima di mandarli a scuola.
L’Islam diventa così la religione dell’immigrato, ed entrambi i ruoli si accorpano formando un’unica identità. Ma, come dicevamo all’inizio, la storia parla di una matassa da districare e per poter guardare l’Islam colorato è consigliato l’ausilio di una analogia, il prisma, un prisma sociale, per poterne osservare le componenti ed individuare la pluralità. La religione musulmana, dopotutto, è andata sviluppandosi sempre più in Paesi non islamici, è in diaspora perpetua, non solo a seguito della colonizzazione ma anche per una rapida e volontaria dislocazione che tra Europa ed USA ha perpetuato il viaggio alla ricerca di una vita più agiata. Non ci si trova davanti ad un fenomeno nuovo, ciò che caratterizza piuttosto il pluralismo religioso moderno è il fatto che la religione diventa una scelta in quanto sempre meno legata alla nascita (Filoramo, 2004). Si pensi che un terzo della comunità islamica vive in Paesi non musulmani e come, di conseguenza, abbia dovuto far appello alle proprie capacità d’adattamento. Si è rivelata una religione compatibile con i principali tipi di Stato e le diverse forme di organizzazione sociale ed economica prodotte dalla storia dell’umanità: dalla città-stato arcaica allo stato-nazione moderno, dal nomadismo tribale al capitalismo industriale.
Non vi è dunque nulla, in linea di principio, che possa impedire all’Islam di diventare compatibile con laicità, umanesimo e modernità all’occidentale. Ciò non significa che i Paesi islamici non abbiano attivato questi processi ma, in un’ottica di paragone, sono da considerare metriche differenti, sia tra i vari Paesi a maggioranza musulmana, sia tra mondo islamico e mondo occidentale. Uno spunto di riflessione a riguardo lo troviamo nei racconti del blogger Raif Badawi dove «La soluzione è il laicismo!» (2015), un modo per scardinare quell’Islam che Oriana Fallaci aveva profetizzato con il paragone alla fiaba dei fratelli Grimm, all’urlo di «Il re è nudo», decodificato in un grigio «Non esiste un Islam moderato».
I colori dell’Islam in Occidente emergono, osservando i vari Paesi di origine che lo compongono e le fazioni presenti nella casa dell’Islam. La parola chiave, spesso abusata per sbarrare a livello ideologico l’incontro tra Islam e Occidente, è shari’a. È l’utilizzo che se ne fa della shari’a che dovrebbe essere il perno della discussione, sfruttata a scopi politici e di potere, si tira e s’accorcia a piacimento, mentre in realtà non è elastica per definizione. È da tener presente che all’interno del diritto islamico vengono accostate alla legge sacra anche delle fonti teologico-giuridiche non canoniche come il Qanun e il Maslaba che, utilizzati dai tribunali laici, si rifanno alla contestualizzazione della norma e al concetto di pubblico interesse. In Tunisia, ad esempio, abbiamo visto l’evolversi del Codice degli Statuti Personali di Musulmani, Ebrei e non musulmani che ha portato all’abolizione della poligamia e alla possibilità di presentare istanza di divorzio, si inizia qui a valutare un diritto positivo. Se ci si sposta alla vicina Algeria la persuasione di un musulmano all’apostasia viene punita dai due a cinque anni di carcere e all’ammenda dai 5 ai 10 mila euro, stessa pena per chi tenta di devalorizzare l’Islam attraverso produzioni scritte o audio-visive (Zarcone, 2014). L’esempio della Siria potrebbe farci da prisma, un Paese dove la laicità, tra Assad e la Russia di Putin, ha serbato in grembo lo Stato Islamico che sta portando gran parte del popolo siriano a fuggire dalla guerra, dallo sgretolamento del proprio Paese.
L’Islam che scappa dalla guerra dell’Isis, e l’Europa che si difende anche da questo colore fuggitivo, con muri di parole, frontiere spinate, e barriere di leggi dell’ultimo minuto. Mentre questi fatti accadono, i media informano, il popolo pensa. In Italia tendiamo ad identificare ancora i musulmani con la prima ondata migratoria, questa prima generazione che era prettamente composta da uomini di origine popolare; li rivediamo come operai nei cantieri, al mercato della frutta e verdura, venditori ambulanti o in qualche minuta attività commerciale, senza accorgerci però, che oggi, a distanza di più di vent’anni, è la florida seconda generazione che, con gli albori della terza, definisce la reale presenza islamica nel nostro territorio. Se, ad esempio, gli ormai nonni arrivavano dal Marocco per lavorare in Europa con l’intento poi di ritornare al paese natio, i loro figli, nati e cresciuti in Europa, si recano al Paese di origine dei genitori solamente per la festa del montone e per le vacanze estive, a loro volta i figli dei figli con buone probabilità non ci andranno mai o la racconteranno come «quella volta che sono stato in Africa». La particolarità della seconda e terza generazione sta proprio nella contestualizzazione della crescita personale e nella scolarizzazione, pur avendo insito un capitale sociale d’origine caratterizzante, i figli, non possono essere soppesati con lo stesso parametro dell’Islam in Occidente della prim’ora.
Il musulmano italiano pretende quindi una nuova considerazione, dimostrando la necessità di un’integrazione sociale che vada oltre il semplice riconoscimento socio-economico che sussisteva per la generazione dei padri e dei nonni. Anche per questo motivo i giovani musulmani si distanziano dalla figura dell’homo islamicus (Babès, 2000), rivendicando un Islam sociologico, che concretizza il fatto che «la tradizione non è un corpus di norme fissato per sempre» (Guolo, 1996: 24) ma in quanto elaborato sociale essa viene continuamente destrutturata e ricontestualizzata nei diversi ambiti con cui viene a contatto, a maggior ragione quindi si pretende una integrazione di stampo socio-culturale.
Per rendere l’idea della sensazione di appartenenza/non-appartenenza che si può verificare anche tra i diversi colori dell’Islam presenti in Italia, riprendo un lavoro di ricerca empirica che ho effettuato nel 2010 tra i giovani musulmani italiani di seconda generazione; le parole sono di una ragazza che più volte è tornata in Giordania, Paese d’origine della famiglia:
«Non ho molte amiche musulmane in Italia, io sono di origine Giordana, qui sono tutte marocchine e non ci troviamo molto. È come per un veneto e un napoletano […], mi sento anche giordana e sono orgogliosa di esserlo perché ho una mia battaglia da mandare avanti qui […], ma in realtà voglio sentirmi più come citadine du monde. Non mi sento padovana, mi sento italiana, ma come una romana che viene a vivere qui» (R., 18, studentessa scuola secondaria).
Ciò che rende questi giovani propensi a definirsi italiani ma meno a sentirsi tali sta nella visione che la stessa società italiana rimanda del musulmano, un’immagine arcaica in cui non si riconoscono e dalla quale vogliono distanziarsi. È una probabile conseguenza per chi persegue una religione de-territorializzata e di minoranza, dove si concreta la scissione della religione dalla cultura, dalla tradizione e dalla quotidianità, base fondamentale per il sistema religioso. Ci appare nitidamente un altro colore dell’Islam. Siamo di fronte a un fenomeno di trasformazione sociale che riguarda il globo tutto; nel concetto di compressione spazio-tempo la globalizzazione ha immancabilmente mutato il radicamento al territorio di origine come luogo di costruzione identitaria, sviluppando una nuova capacità di adattamento e di ricostruzione del self, in questo caso di un self islamico (Rhazzali, 2010), che dà vita ad un’umma astratta, non delimitata da confini ma comunque in continua connessione, virtuale o meno.
Le lacune dell’identità culturale e religiosa per le minoranze hanno una risposta diversa in base a chi cerca di colmarle. Anche in Paesi con una storia d’immigrazione relativamente giovane come l’Italia abbiamo diversi approcci all’Islam e con multiformi conseguenze a livello sociale. Sono varie le ragioni e le intenzioni con cui un individuo persegue la religione musulmana, è in questo iter di ragionamento che si concreta la religione come vera e propria scelta. Secondo il sociologo iraniano Khosrokhavar, tre sono le possibili forme di adesione all’Islam. In primis l’Islam dell’integrazione, dove non c’è rottura con la società d’accoglienza; in questo primo caso la fede non è vissuta come segno di appartenenza a una comunità ma come la costruzione di un’identità personale in seno all’identità nazionale. In secondo luogo, vi è l’Islam dell’esclusione, dove la fede funge da collante sociale tra i membri che si sentono emarginati dalla società che li accoglie, essendo indispensabile per l’individuo l’esigenza di avere un ruolo all’interno del sistema: è proprio in questa fase intermedia dove fondamentalismi ed islamismi hanno terreno fertile ed è sulla debolezza e il disorientamento del singolo che si ha una capacità di presa maggiore. Proprio in ultima istanza vi è la religiosità islamista, l’approccio all’Islam fortemente ideologico che si pone in totale rottura con la società di maggioranza: è in questa terza modalità che vengono racchiuse tutte le manifestazioni radicali e i vari fondamentalismi. A riguardo è da tener presente come le generazioni di musulmani occidentali respingano spesso la religiosità passiva e tradizionalista dei padri, i quali, a loro parere, non riescono a comprendere che per convivere in una società multiculturale spesso la migliore via d’uscita sta nella mediazione, anche attraverso taciti accordi comportamentali. In questo caso la società è messa in prim’ordine.
Questa corsa alla ricerca del proprio riconoscimento personale all’interno di una comunità globale viene ascritta in un processo più ampio che è quello della ricerca di riconoscimento dall’esterno. Infatti, non è da sottovalutare che non basta per l’Islam trovare il minimo comune denominatore che agganci i fedeli in un nuovo spazio territoriale, ma vi è sempre e comunque anche l’obiettivo del riconoscimento dalla maggioranza. Il risultato sarà, come ben definisce Sheikh Yassin, un tentativo di islamise modernity, un processo che con le prime migrazioni degli anni ‘60-‘70 si identificava nel cosiddetto islamic revival e con la formazione di movimenti volti alla ricerca di un nuovo delineamento della comunità musulmana in Occidente.
Nel palinsesto contemporaneo siamo di fronte ad una vera e propria re- islamizzazione, ne fanno parte i gruppi dei giovani musulmani e le conversioni dei Cristiani. Con re-islamizzazione è da intendersi un fenomeno che genera e viene generato da due processi dicotomici principali: la de-culturalizzazione e l’acculturazione. La re-islamizzazione è parte del processo di acculturazione sebbene spesso sia la concretizzazione di una lotta ad essa; si svela in palesi manifestazioni di affermazione di identità islamica che prende vita nella rappresentazione esplicita del self-islamico nei Paesi non islamici (Roy, 2002). Nel caso italiano i movimenti che predominano sono i G.M.I – Giovani Musulmani Italiani – costituita da e per i giovani musulmani, e l’U.C.O.I.I. – Unione delle Comunità Islamiche d’Italia – la più grande associazione islamica in Italia. Dalle interviste effettuate si è dimostrato come i giovani musulmani ritengano che il maggior grado di scolarizzazione e la velocità ed ampiezza di informazioni accessibili tramite web, siano stati i mezzi per uscire da quella superficialità del rito come semplice usanza che ingabbiava i genitori, un mezzo per la formazione di un ‘essere musulmano’ laico e occidentale, e di quest’ultimo aggettivo s’intendano tutti i significati deducibili.
«Andando in Marocco ho notato che, quando ritorno in Italia, ho proprio la necessità di comprendere le mie origini. Soprattutto la pubblicità negativa che c’è qui, ha spinto molto di più i musulmani a conoscere le proprie origini e la propria religione. Noto che tante cose che so io le mie coetanee in Marocco non le sanno, hanno dottrine religiose come materia a scuola eppure non sanno molte cose, forse perché non danno la stessa importanza alla religione, non hanno la necessità di farsi riconoscere, e quindi in Marocco forse sarei stata meno religiosa» (H., 21, studentessa universitaria).
Attraverso la conoscenza di due culture i giovani musulmani di seconda e terza generazione sono riusciti a creare un nuovo credo più intimo e personale e allo stesso tempo più tollerante verso l’altro e sotto vari aspetti globalizzato.Potrebbe definirsi un nuovo “essere musulmano” secolarizzato, ma solo se intendiamo l’aggettivo nell’accezione di cambiamento e non come disaffezione del credo. I giovani musulmani occidentali hanno avuto la possibilità di conoscere due culture diverse e nel tempo hanno dato vita ad una terza, mescolandole:
«L’Islam è un perfezionamento dei i testi sacri, sono un continuo perfezionamento, come ogni volta quando rifai una cosa la seconda volta sarà meglio della prima e la terza poi sarà ancora migliore. L’incontro con le altre culture non può che arricchire la mia religione. Sono disposto a mettere in dubbio quello che credo, ci credo ciecamente, ma questo è anche scritto nel Corano. Il primo versetto è proprio un invito alla conoscenza, bisogna conoscere il più possibile. Questo aspetto è stato spesso accantonato nei tempi, ora ci sono molte più possibilità di acculturarsi. […]. Una volta il buon credente doveva solo pregare e digiunare e basta, non partiva nulla dall’interno della persona, ma lo si faceva perché lo facevano tutti. Bisogna invece conoscere e sapere per migliorare sempre l’Islam» (A., 23, lavoratore).
Le testimonianze aiutano l’immedesimazione e ci permette una comprensione dell’altro profonda, più pragmatica. Sono stati raccolti molti colori, moltissimi fili della matassa. Lo sguardo d’insieme sulla pluralità dell’Islam in Occidente ci deve servire come lente, come prisma, per vedere chiaramente che l’attentato a Charlie Hebdo, la distruzione di Palmira, le decapitazioni, non devono e non possono conformare la nostra idea di Islam. Questa non è la guerra dell’Islam, è indetta in nome di Allah da uno Stato autoproclamatosi per ripristinare nella modernità l’Islam di Muhammad, il califfato; è la conquista di un territorio nuovo, con la ferocia e la violenza del VII secolo d.C. ma con le tecniche d’informazione del XXI. Assoldare militanti attraverso video motivazionali caricati sul web ci fa ritornare ai concetti di perdita del territorio e de-culturalizzazione, ci fa riflettere su quanto risulti facile attecchire in un contesto così labile e posticcio. Ed ora, che chi scappa dal clima di terrore raggiunge i nostri confini, ci troveremo sempre più spesso davanti a questa trappola di pensiero. Difendersi è lecito, ma l’ignoranza non è mai stata un’arma utile.
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2016
Riferimenti bibliografici
Babès L. (2000), L’altro Islam. Un’indagine sui musulmani e la religione, Roma, Edizioni Lavoro (ed. or. 1997)
Badawi R. (2015), 1000 frustate per la libertà, Milano, Chiarelettere
Filoramo G. (2004), Che cos’è la religione, Torino, Einaudi
Fouad Allam K. (2011), L’Islam spiegato ai leghisti, Milano, Piemme
Guolo R. (a cura di ) (1996), Il paradosso della tradizione. Religioni e modernità, Milano, ed. Guerrini e associati
Hermans M.J.M., Kemoen H.J.G. (1998) “Moving cultures. The perilous problems of cultural dichotomies in a globalizing society”, in American Psychologist, 53 (10): 1111-1120
Khosrokhavar F. (1997), L’islam des jeunes, Paris, ed. Flammarion
Panella C. (2015), Il libro nero del califfato, Bologna, Rizzoli
Rhazzali M. K. (2010), L’Islam in carcere. L’esperienza religiosa dei giovani musulmani nelle prigioni italiane, Milano, FrancoAngeli
Roy O. (2003), Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo Islam, Milano, Feltrinelli (ed. or. 2002)
- (2004), Globalized Islam: The Search for a New Ummah, New York, Columbia Univ. Press
Yassine Abdessalam Cheikh (1998), Islamiser la modernité, Rabat, al-Ofok Impression
Zarcone (2014), “Mondo islamico, laicità e secolarizzazione”, in Studi interculturali, 1/2014, Mediterranea – centro di studi interculturali: 47-107
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Licia Toffaloni, laureata in Antropologia Culturale ed Etnologia, ha intrapreso un lavoro di ricerca sperimentale sul movimento Tabligh Jamaat, studio che si è protratto anche presso l’Università della Dalarna in Svezia nel Master in African Studies. Attualmente insegna italiano e storia presso una scuola privata e sta lavorando alla stesura di un capitolo per il libro Islamic (and Islam Inspired) Sects and Movements, Brill ed. in stampa nel 2016, Toronto, Canada.
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