Comitato di Redazione di “Antropologia Medica”
“Fondata da Tullio Seppilli” lo abbiamo aggiunto noi dell’attuale redazione alla tradizionale testata “AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica”. Questa rivista è, infatti, un periodico specialistico – per noi “speciale” –, che l’attuale Direttore Giovanni Pizza ha ereditato da Tullio Seppilli.
Seppilli volle fortemente AM all’indomani dell’origine e dello sviluppo pressoché immediato – per opera sua – della SIAM, Società italiana di antropologia medica, nel 1988 a Perugia, attualmente presieduta da Alessandro Lupo. Lì convocò i suoi colleghi di altre aree del Paese che avevano visto nella specifica declinazione italiana dell’antropologia della medicina un tema centrale cui rivolgere lo sguardo e la riflessione della antropologia. Circa otto anni dopo, nel 1996, Seppilli chiamò poi a raccolta tutti gli allora giovani esponenti di una promettente antropologia medica italiana che costituirono il nerbo redazionale della rivista e poi il comitato scientifico della SIAM. Gli interessava molto ri-fondare un’antropologia italiana che servisse a capire, agire, impegnarsi nella realtà, per un uso sociale dell’antropologia medica nello spazio pubblico. In questo progetto trovava in noi un gruppo militante. Una giovane di allora, Donatella Cozzi, oggi docente a Udine e vicepresidente della Società italiana di antropologia medica (SIAM), ricorda quei giorni fondativi così:
Tullio, conoscendo quello che già avevamo iniziato a pubblicare, le nostre aree tematiche di ricerca, i nostri progetti e il nostro lavoro, ci aveva chiamato, attribuendo valore alle nostre potenzialità ed esordi lavorativi ed accademici, permettendoci di incontrare ricercatori più esperti ed affermati, come Paola Falteri e Paolo Bartoli, tutti riuniti presso l’Istituto di etnologia e antropologia culturale della Università di Perugia. Soprattutto ci ha fatto partecipi del grande progetto della SIAM, strumento di confronto scientifico e promozione organizzativa per quell’ampio campo di indagini, riflessioni teoriche ed elaborazioni operative conosciuto con il termine “antropologia medica” che ha nella rivista AM la principale iniziativa editoriale. Per chi partecipò a quelle riunioni esse furono un momento impareggiabile di discussione e confronto, punteggiato da incontri conviviali e lunghe serate passate a vagliare, spesso animatamente, gli articoli proposti alla rivista per la pubblicazione, illuminate dalla guida esigente di Tullio, dalla sua inesauribile precisione e curiosità e dal suo amore per la sistematicità (Cozzi 2012: 9-10).
Dal 1993 al 23 agosto 2017, data della sua scomparsa, Seppilli fu anche Presidente della Fondazione Angelo Celli per una cultura della salute, lavorando in continuità con il progetto scientifico e civile inaugurato da suo padre Alessandro, il fondatore. La Fondazione ha poi cambiato nome in Fondazione Alessandro e Tullio Seppilli ed è attualmente presieduta da Cristina Papa.
Oggi l’antropologia medica, che è tra le più importanti branche specialistiche dell’antropologia generale, continua a studiare il corpo, dal versante dei processi di incorporazione, e a ricostruire quelli che Seppilli definiva i “processi di salute-malattia”, volendone sottolineare la dinamicità e la organica articolazione, da un punto di vista culturale, sociale e politico. In verità durante questi ultimi anni l’antropologia medica, complice la recente pandemia, si è andata ben modificando. Innovazioni biotecnologiche, pluralità familiare, ambiente, questioni politico-sanitarie, mutamenti profondi dello sguardo scientifico sui corpi e la disabilità, sul rapporto tra benessere e malessere e sulle pratiche di cura, hanno prodotto temi e problemi nuovi, causato modificazioni epistemologiche, segnato nuove prospettive operative di respiro nazionale e mondiale. Si tratta di eventi molto positivi che hanno portato l’antropologia medica, oggi, a seguire da vicino i cambiamenti in atto, posizionandosi accanto a essi, traendo nuove suggestioni analitico-interpretative, anche esaminando gli effetti prodotti dalla crisi mondiale.
È diventato ormai estremamente chiaro che la salute umana si identifica con quella «possibilità di accesso alle risorse che garantiscono il benessere» di cui si parlava in Italia circa vent’anni fa (Pizza 2005: 93). Al tempo stesso il diritto alla salute, che garantisce l’equilibrio democratico nei rapporti di cittadinanza tra corpi umani e Stati nazionali, è stato eroso ed è andato declinando anche in quelle aree geopolitiche che storicamente lo avevano promosso e che tuttora lo vedono al centro della loro azione di governo. Tale consapevolezza, nonostante il tempo trascorso, resta intatta e la rivista AM agisce in un campo di ricerca, azione e confronto, affinché lo Stato sociale di matrice europea, nonostante i continui attacchi cui è sottoposto, prosperi e viva ancora molto a lungo. Il diritto alla salute e la sua dimensione pubblica vanno di pari passo, come garanzie fondamentali per le democrazie contemporanee. Certamente non affermiamo ciò per un principio che altri direbbero “ideologico”. Quanto perché la salute o è collettiva o non è.
L’articolo 32 della nostra Costituzione recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Forse la parola “indigenti” può dare un po’ fastidio alle nostre orecchie di persone contemporanee? E il diritto? È individuale o collettivo? In realtà, non solo esiste la responsabilità individuale per la collettività, ma c’è anche quella inversa: la responsabilità collettiva per l’individuo. D’altronde che cos’è l’individuo se non un “indivisibile” possessivo? In antropologia medica, come in antropologia generale, non esiste individuo al di fuori delle sue relazioni, siamo tutti “dividui” e perciò non siamo mai soli. Il diritto alla salute gode dunque in Italia dell’attributo «fondamentale». Pertanto, la sicumera di chi predica l’abbattimento del welfare sanitario in favore dei pareggi di bilancio è un vero e proprio scandalo spiegabile solo con le forme della disumanità nel nostro tempo. Se è vero che i tagli sono utili a eliminare gli sprechi, essi non lo sono affatto per incidere sulle liquidità finanziarie destinate all’ordinario funzionamento delle istituzioni democratiche. Eppure, alcuni economisti affermati e con un impatto sulla agenda mediatica, pur non essendo stati capaci di prevedere cause e conseguenze della crisi che da troppi anni ci attanaglia moltiplicandosi e diversificandosi, non temono di predicare contro il welfare e le sue strutture istituzionali, che tuttora resistono nel cuore delle democrazie. La strategia che perseguono intende favorire le attuali linee di alcuni governi che mirano all’esproprio della salute umana, che traducono solo in bilancio economico-finanziario la dimensione del welfare. A opporsi a costoro, però, sono proprio altri economisti, i quali sostengono, ad esempio, che le risorse su cui la ricchezza delle nazioni si fonda, possono essere riallocate: se è vero che il diritto alla salute deve essere compatibile con i bilanci economici, nessuno Stato è così povero da non poterla considerare un’assoluta priorità.
Sul piano mondiale è ormai evidente che l’Organizzazione Mondiale della Sanità tende ad essere subalterna alle potenze economiche della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Giovanni Berlinguer ce lo aveva segnalato in tempo proprio sulle colonne di AM. Nondimeno, inascoltato rimane il suo monito ed egli fu trattato dal mainstream come se le sue intuizioni fossero legate a un vecchio modo di guardare alle cose sanitarie, un modo, dissero, “condannato dalla Storia”. Eppure, proprio l’antropologia medica con la sua specialità di studio delle “narrazioni” molteplici, ha sostenuto che non esiste “la Storia” con la S maiuscola, ma la pluralità delle storie quotidiane, dei resoconti, animati dalla diversità, in sostanza delle differenti “culture”. E l’antropologia culturale di Seppilli ha mostrato che chi identifica “la Storia” con la verità pecca spesso di un etnocentrismo cieco e talora violento, che non riesce a cogliere la pluralità delle scelte politiche. Sono queste opzioni quelle che spesso sottendono le decisioni di governo in tema di corpi umani e processi di salute/malattia.
In questo ambito l’antropologia medica italiana ha molto da dire, a cominciare dalla redazione di “AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica fondata da Tullio Seppilli”. Per tale motivo la nostra società scientifica SIAM non rinuncia al suo strumento editoriale principale per essere presente in modo efficace e attivo nello spazio pubblico del Paese. In poco tempo abbiamo portato la rivista online in full open access scannerizzando i numeri cartacei arretrati. Abbiamo stabilito un doppio referaggio, definito le recensioni, semplificato le norme redazionali pur mantenendo un’impronta forte di tipo “seppilliano”. La nostra è una rivista eminentemente scientifica che si fa carico dell’interdisciplinarità e con i mutamenti a esso connessi. Forse dovremmo agire per essere ancora più incisivi con le istituzioni. Nella rivista AM e nella sua redazione si avverte una certa nostalgia per un’epoca universitaria non ancora burocratizzata. Abbiamo chiesto a ciascun redattore il significato della sua partecipazione ad AM e di seguito le loro risposte.
Giovanni Pizza, Direttore di “AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica”
Penso sempre ad “AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica” come a uno strumento imprescindibile per la formazione, nel senso più ampio del termine. Autoformazione, in quanto consente un confronto con idee, esperienze, ricerche di coloro che si impegnano nell’ambito dell’antropologia medica. Nei corsi di antropologia medica che ho avuto/ho il privilegio di svolgere per le professioni sanitarie e le lauree magistrali in antropologia culturale, AM è sempre proposta come momento privilegiato di formazione: per imparare come concetti e teorie vengano discussi e sottoposti al vaglio dei contesti e delle pratiche, per educarsi all’impegno teorico e concreto che si costruisce intorno alla salute e alle pratiche di cura.
Donatella Cozzi, vice-presidente Siam, Università di Udine
Una palestra di formazione
Per me AM è stata una palestra di formazione, di dibattito e di crescita scientifica di grande importanza. Avendo fatto parte fin dall’inizio del gruppo riunito da Tullio Seppilli attorno alla rivista, mi sento soprattutto di sottolineare un aspetto di quella esperienza, così difficile da ricreare oggi in una comunità scientifica che pure è più ampia e dotata di molte più risorse di allora. Mi riferisco a un sistema collettivo non solo di programmazione culturale, ma di discussione e valutazione dei contributi proposti alla pubblicazione. Tullio ci convocava a Perugia a cadenza tri-quadrimestrale, per riunioni di redazione che duravano un intero fine settimana: distribuiva fra i redattori i testi arrivati, li leggevamo durante la notte e il giorno dopo ciascuno relazionava, si aprivano discussioni di grande profondità – concluse talvolta con la bocciatura di contributi anche di prestigiosi autori internazionali. Era un modello di peer-review in cui non c’era l’ipocrita finzione dell’anonimato, ma che funzionava in modo perfetto – e di cui credo abbiamo tutti grande nostalgia, di fronte alla burocratizzazione e formalizzazione legata oggi al sistema Anvur.
Fabio Dei, Università di Pisa
La proposta di Tullio di partecipare al Direttivo della SIAM e alla redazione di AM rappresentò per me, al tempo giovane antropologa in formazione, in primo luogo un onore e un motivo di orgoglio, ma anche e soprattutto la straordinaria opportunità di entrare a far parte di una comunità inclusiva di memoria, di scambio e di pensiero. Partecipare alle attività, inoltre, è stata un’esperienza importante per comprendere la complessa architettura alla base della produzione di una rivista che univa e unisce al rigore scientifico la cura e il piacere per il dettaglio. Anche oggi che lavoro nell’ambito delle istituzioni di sanità pubblica in cui non sempre sono garantiti lo spazio e il tempo per la ricerca e lo studio, la partecipazione ad AM costituisce un sempre necessario richiamo alla riflessione e un importante ancoraggio al dibattito teorico.
Erica Eugeni, studiosa indipendente, Roma
Da tutto il mondo
Per gli interessi che hanno catturato la mia attenzione sin da giovane studiosa, AM ha da sempre rappresentato una delle riviste più importanti nel panorama italiano; una rivista dal respiro internazionale che attraeva grandi studiosi di antropologia medica, e non solo, da tutto il mondo. AM mi ha accompagnata anche nelle fasi successive della carriera, accogliendomi come componente della redazione. Lavorare assieme al gruppo di antropologhe e antropologi di AM è un’esperienza pedagogica senza pari: un luogo che mi permette di confrontarmi sulle tematiche del contemporaneo, di apprendere nuove correnti teoriche e di dialogare con colleghi che possiedono passioni simili alle mie. Grazie alle eredità del maestro Tullio Seppilli, che purtroppo non ho potuto conoscere di persona ma che è una presenza costante nello spirito della rivista, mi sono avvicinata alle applicazioni sociali della disciplina. Esplorare questo orientamento significa mettersi in relazione con i vari contesti e comprenderne le potenzialità di diffusione. Come rivista scientifica in open access, AM mira a diffondere i saperi antropologici oltre le mura accademiche per gettare i semi di resistenza e del sapere critico nella società più ampia. Credo sia questo il ruolo più importante della rivista oggi: promuovere dibattito, creare spazi di negoziazione del sapere e offrire chiavi di lettura sui complessi fenomeni contemporanei.
Corinna Sabrina Guerzoni, Alma Mater Studiorum Università di Bologna
Una rivista catalizzatrice di passione, impegno, solidarietà
Per la generazione cui appartengo, AM costituisce un vero spartiacque biografico: partecipare alla sua gestazione, alla realizzazione dei primi numeri, alle intense riunioni redazionali sotto la sapiente e benevola guida di Tullio Seppilli, alle nottate passate a valutare gli articoli per poi confrontarci collegialmente sulle scelte editoriali ha costituito una tappa cruciale nella maturazione accademica post-dottorale. AM è stata catalizzatrice di passione, impegno, solidarietà e gratificazione: con essa siamo cresciuti, in essa ci riconosciamo.
Alessandro Lupo, presidente della Siam, Sapienza Università di Roma
Impegno scientifico e lavoro collettivo
Quando nel 1994 Tullio Seppilli ha convocato e raccolto attorno a sé un gruppo di giovani ricercatori nel campo della antropologia medica per fare una rivista come AM era evidentemente consapevole di avviare un percorso di innovazione su più livelli. Si trattava di formare un soggetto collettivo di lavoro e dare fiducia a persone impegnate a tracciare percorsi di scoperta e di ricerca in diversi ambiti di studio sul corpo, la salute e la malattia. Tutte guardavano con interesse e passione alle linee di indagine etnografica e di elaborazione teorica in corso nel panorama internazionale; consapevoli che le letture, i dialoghi e le sfide con cui ci si misurava nei giorni trascorsi in redazione erano parte di storie specifiche in un orizzonte largo. Un orizzonte costruito attraverso il dialogo con diverse antropologie nel mondo: in rapporto diretto, spesso di amicizia, con interlocutori conosciuti e riconoscibili; usando lingue molteplici ma non omologate a uno standard globalizzato; seguendo lo sviluppo di linee di pensiero e tradizioni intellettuali nella pratica concreta fatta di reciproca interrogazione, di sfida, di interlocuzione.
Al fondo di tutto ciò era la condivisione del compito di fare scienza in un confronto interdisciplinare e di attuare una politica culturale. Pubblicare articoli con taglio teorico e dare una visione della ricerca empirica, offrire strumenti ai lettori per orientarsi nel territorio aperto di una nuova disciplina – le istituzioni, i luoghi di discussione, i programmi di ricerca, il lessico scientifico… (tra le diverse voci dell’Osservatorio di AM) –, operare una descrizione accurata delle attività in corso e delle pubblicazioni delle riviste scientifiche (all’inizio, non ancora disponibili sul web). Si trattava in definitiva di dare forma all’antropologia medica in Italia.
Da questo punto di vista, fare la rivista è stato il modo principale attraverso cui definire e realizzare un impegno scientifico, con una chiara visione etico-politica. Il compito cui siamo ancora oggi legati. Le Riviste si fanno per questi motivi, meno per la valutazione dei “prodotti” che dovrebbero trovarvi collocazione.
Per chi, come è accaduto a me, ha fatto un percorso di studi con Seppilli, partecipando alla redazione di AM, tutto ciò ha voluto dire conoscere l’antropologia medica nel suo farsi, imparando molto dai compagni di viaggio. In tal senso, il tempo impiegato per incontrarsi e parlare a lungo dei problemi e della scelte – una possibilità di dialogo da costruire e alimentare ogni giorno – non è un privilegio che pochi possono permettersi, ma un obbligo se si intende portare avanti un lavoro collettivo.
Oggi tutto questo forse non appare come una necessità, certamente non sembra alla moda. La competizione e l’individualizzazione dei destini accademici ostacola e rompe le solidarietà alla base di processi condivisi di costruzione di più alti livelli di coscienza sociale dei problemi da fronteggiare e dei modi di intervenire, attraverso la ricerca e la pratica antropologica. Eppure, noi siamo qui, ancora impegnati a leggere, pensare, discutere e scrivere. Insieme: per noi stessi e per altri. E non è poco.
Massimiliano Minelli, Università di Perugia
Oltre il riduzionismo
Faccio parte del comitato di redazione da così poco tempo che posso parlare di AM poco più che in qualità di lettrice. Il mio entusiasmo per la rivista risale ai tempi del corso di perfezionamento in Antropologia Medica presso l’Università di Milano-Bicocca, negli anni 2007/2008. Dall’incontro coi relatori di quel corso, molti dei quali hanno a tutt’oggi un ruolo attivo nella rivista, la passione e l’impegno nei confronti dell’antropologia medica sono divenuti parte integrante della mia professionalità, che spendo anzitutto verso i miei giovani studenti come insegnante di filosofia e scienze umane nella scuola superiore. Conservo intatte nella memoria le parole di Tullio Seppilli al corso milanese, secondo cui il riduzionismo biomedico rischiava di andare a detrimento e non a sostegno della “scientificità” della medicina. Da neoarrivata, mi pare di poter dire che AM ponga questo monito a fondamento della sua esistenza, e che ogni numero sia in certo modo un omaggio al maestro, proprio nell’evitare di chiudere la sua opera in un asfittico recinto scolastico.
Angela Molinari, Università di Milano Bicocca, Milano
Dal 1996, anno della sua fondazione, AM svolge un ruolo centrale nell’alimentare il dibattito interno all’antropologia medica italiana e internazionale attorno alle questioni connesse a salute, malattia e medicina. Pubblicando periodicamente e in open access articoli solidi da un punto di vista teorico, empirico e metodologico essa promuove, inoltre, il contributo conoscitivo e operativo dell’antropologia anche al di fuori degli steccati disciplinari; la rivista testimonia in tal modo non solo la vocazione fortemente applicativa dell’antropologia medica italiana, gli “usi sociali” di tale scienza (Minelli, Pizza 2019), ma anche una visione transdisciplinare che sempre più pare alimentare le ricerche che vedono oggi impegnati gli antropologi e le antropologhe italiani/e nel costruire un dialogo con altre scienze (in particolare quelle mediche e psicologiche) mirato alla tutela e alla promozione della salute.
Chiara Moretti, Alma Mater Studiorum Università di Bologna
La “vita” di una rivista
Facciamo parte della redazione di “AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica” da quattro anni. Un tempo estremamente breve, se si pensa alla lunga storia della Rivista, una storia che abbiamo sempre sentito raccontare con grande passione e coinvolgimento da parte di quanti l’hanno vissuta. Con alcuni di loro, oggi, abbiamo la fortuna e l’onore di collaborare. Prendere parte alla redazione ha significato cogliere occasioni di crescita professionale, anche nella sperimentazione di possibili forme organizzative della “vita” di una rivista scientifica, intesa come luogo di circolazione e connessione di idee, opportunità di costruzione di dialogo e scambio. “AM” può essere infatti un prezioso terreno di confronto, un laboratorio di pratiche, nell’ambito del quale possono trovare spazio riflessioni scientifiche ed esperienze etnografiche dense, caratterizzate da una forte vocazione operativa. I contributi che ospita da tempo, e che si rivelano spesso anche fonte di ispirazione per il nostro lavoro, offrono una ricca pluralità di prospettive da cui esplorare contesti entro i quali antropologi e antropologhe producono conoscenza, interagendo direttamente con politiche e interventi pubblici al fine di dare vita ad azioni comunitarie solide nel campo variegato, complesso e multiforme della salute.
Giulia Nistri ed Elisa Rondini, Università di Perugia
Dieci anni
In un decennio (1987 istituzione della Fondazione Angelo Celli, ora Fondazione Alessandro e Tullio Seppilli; 1988 costituzione della SIAM; 1996 nascita di AM) si completa l’assetto del rapporto tra Fondazione, Società, Rivista. In quel periodo io ero impegnata in altre attività (l’insegnamento alla Sapienza, la Missione etnologica in Romania, la terza missione in Valnerina) e mi rammarica non aver collaborato a queste nascite come hanno fatto altri antropologi perugini miei coetanei come Paola Falteri e Paolo Bartoli. Oggi come presidente della Fondazione mi sento responsabile, insieme ad altri anche di più giovani generazioni, della valorizzazione di una impegnativa eredità, di cui è parte la rivista AM, in primo luogo garantendone anche nel futuro la massima accessibilità attraverso il full open access, importante strumento per lo sviluppo dell’antropologia medica.
Cristina Papa, presidente della Fondazione Alessandro e Tullio Seppilli, Perugia
La cura dei dettagli come forma della sostanza di un insegnamento e di un modo di fare antropologia medica. Questo è per me AM, rivista di cui da pochi anni sono parte, questo quanto mi ha insegnato e di cui sono grata! La ricchezza concettuale delle “norme redazionali” che la redazione storica ha ereditato, adattandole alla contemporaneità, da Tullio Seppilli, il font Garamond, la “s” minuscola da accompagnare alla definizione dell’ateneo perugino, l’importanza della Scheda sull’autore/autrice che traduce il ruolo operativo della ricerca: dettagli questi che i membri storici applicano quasi in maniera automatica come modalità operativa e di cui cerco di cogliere la dimensione narrativa nei loro ricordi durante le riunioni organizzative. Una rivista, oggi, come allora, che è per molti uno spazio di scambio, un laboratorio di scrittura-lettura per praticare conoscenza.
Francesca Pistone, studiosa indipendente, Roma
La strategia di Seppilli
Sono entrato nella redazione di AM nel 1994, mentre era in preparazione il primo numero della rivista. Da allora è iniziata una stretta collaborazione con Tullio Seppilli che si è interrotta solo con la sua morte.
Come altri miei colleghi hanno ricordato in altre sedi, il lavoro di preparazione dei primi numeri della rivista fu molto intenso. Ricordo le riunioni che si svolgevano a Perugia e che duravano un intero fine settimana. Una quindicina di, allora, giovani antropologi e colleghi più esperti, passavano quei giorni a discutere e immaginare l’architettura del numero, che all’epoca era di fatto un numero doppio con uscita annuale; la notte poi la si passava a leggere i testi arrivati che sarebbero stati commentati il giorno successivo. Un lavoro intenso e proficuo, credo soprattutto per noi giovani redattori, che ha significato un confronto continuo con quanti lavoravano con una prospettiva antropologica sui processi di salute e malattia, in Italia e in altri Paesi. Non è mai mancata nella rivista, infatti, una forte apertura verso le prospettive internazionali, che si concretava nell’ospitare contributi di antropologi di altre tradizioni nazionali di studio.
AM non è certo l’unica rivista che ha ospitato nei suoi numeri autori di altri Paesi, ma in qualche modo, nella prospettiva di Tullio Seppilli, questo si inseriva in un progetto chiaro, ad un tempo scientifico e politico. Non si trattava, cioè, soltanto di aprirsi al dibattito internazionale, ma anche di disegnare un quadro di alleanze scientifiche. Il confronto con le antropologie francesi, spagnole, latinoamericane e québecoises era un obiettivo dichiarato. Era anche una idea forte di creare una antropologia medica che avesse salde radici in un mondo latamente latino. Questo senza rifiutare, ovviamente, il confronto con le antropologie anglosassoni, e in specie con quelle nordamericane. Nella prospettiva di Tullio Seppilli, più di un direttore in quella fase e fino alla sua scomparsa, questo, come accennavo, rispondeva a un piano politico chiaro. Si trattava infatti, all’interno delle antropologie che amava definire “latine”, di privilegiare quanti nelle elaborazioni teoriche e nelle prassi di ricerca avevano una chiara prospettiva gramsciana, una scelta forte all’interno del panorama delle antropologie marxiste, e – se penso ad antropologi spagnoli e francesi – anche una ascendenza demartiniana. Insomma, una idea di una antropologia ancorata a una teoria, e una prassi forte, che proprio per questo poteva aprirsi a un confronto non da subalterni con altre tradizioni. Tutto questo era evidente nelle discussioni redazionali di preparazione degli altri numeri.
Se penso, soprattutto, agli anni della mia formazione ci sono ulteriori elementi della rivista, e del lavoro di preparazione che compivamo collettivamente, che mi hanno accompagnato. Penso ad esempio alla sezione “Osservatorio” che, nelle nostre intenzioni, doveva offrire un panorama di quanto, in Italia ma non solo, si muoveva nell’ambito della antropologia medica. Che fossero schede su ricerche in corso, spogli di periodici, tesi universitarie, o anche istituzioni che, dentro e fuori l’accademia, in quel campo si muovevano. Insomma, l’idea di offrire, attraverso testi agili, un panorama dei possibili usi della nostra disciplina. In quella stessa sezione trovavano spazio anche le recensioni. Devo confessare che ho sempre amato molto leggere recensioni, ma molto poco scriverle. In realtà questo non è vero per AM. Non si tratta di uno spirito di “corpo redazionale”, quanto invece del modo in cui esse erano strutturate: piccoli saggi di più di sei cartelle corredate da molte note, non sempre e non solo redazionali. Un modo di riflettere densamente su testi che la redazione considerava importanti.
Nel numero 9-10 del 2000 si inaugurò una nuova sezione che andò avanti per alcuni numeri: “Per un dizionario enciclopedico di Antropologia medica”. L’intento era di costruire «[…] un certo numero di ‘voci’ esplicative concernenti la definizione e la messa a punto storico-critica dei principali termini utilizzati come concetti-chiave» (dalla premessa alla sezione di Tullio Seppilli 2000). Cesar Zúniga Valle e io fummo designati per la stesura della prima voce apparsa proprio in quel numero: “Sistema medico”. Noi fummo gli autori, ma si trattò di un lavoro, per molti versi, collettivo che ci impegnò per quasi un anno. Ricordo che il testo venne proposto, discusso vagliato ed emendato, in diverse riunioni redazionali fino ad arrivare alla sua stesura finale. Cito questo episodio perché credo racchiuda due tratti distintivi della rivista. Innanzitutto, l’idea della produzione collettiva, del lavoro comune sui testi; in secondo luogo, l’urgenza di una “messa a punto” teorica, di una riflessione su “concetti chiave” che potesse servire a chiarire opacità e rintracciare genealogie. Un tratto che, a ben vedere, si può trovare anche in altre parti della rivista.
Pino Schirripa, vice-presidente Siam, Università di Messina
C’era un volume di AM nella biblioteca dell’Università di Copenaghen. Durante l’Erasmus come studentessa della Università di Perugia, mi mancavano le aule di Palazzo Manzoni, le lezioni dei professori e delle professoresse. Mi mancavano quei riferimenti a Seppilli che vi erano spesso nei loro discorsi, talvolta memorie personali che venivano consegnate a noi studenti e studentesse. Nella mia immaginazione, così, AM e l’università s’intrecciavano, e diventavano casa. Nella biblioteca di Copenaghen, accarezzavo la copertina blu, così familiare. Prendevo il volume, ne sfogliavo le pagine, scorrevo l’indice cercando nomi noti, e immaginando un giorno di trovarci anche il mio. Poi posavo il volume e tornavo alle mie lezioni, sapendo che un pezzo di casa era lì a pochi passi, fra quegli scaffali.
Nicoletta Sciarrino, Università di Torino
I saperi dell’esodo. Per una ricerca consiliente
Il fondamento della ricerca si connota del suo contenuto e della sua direzionalità. Il primo caratterizzato dall’interdisciplinarità e il secondo dalla molteplicità. Il cuore dell’euristica ha necessità di orientare plurimi spazi di critica, confliggere nell’interstizio dei saperi, trasversalizzare le conoscenze. Una militanza intellettuale e scritturale trova qui le sue risorse cardine.
Nella contingenza attuale, tuttavia, si assiste ad una chiusura iperspecialistica in categorie che sfociano in manifesta incomunicabilità; in ambito accademico, a livello delle riviste scientifiche e dell’editoria legata ad esse, l’emancipazione da questo tipo di chiusura è un’urgenza al fine di garantire la realizzazione di un prospettivismo capace di far dialogare scienze umane tra di loro e non solo, oltrepassando la vecchia dualità tra scienze dello spirito e scienze della natura di Dilthey.
Soltanto esodando rispetto ai confini della propria disciplina la ricerca può assumere una valenza pubblica all’interno degli spazi politici della cultura laddove, pur mantenendo una peculiarità di indirizzo concernente il proprio orizzonte di studi, è fondamentale costruire relazioni significative tra i saperi e tra le discipline. Il chimico deve dialogare con l’antropologo, il filosofo con il botanico (e via dicendo…). In questa ottica assume una valenza concreta e autentica la potenza espressivo-critica della ricerca il cui portato si precisa chiaramente come universale (unus versus alia, stesso etimo di universitas).
Nel territorio ben consolidato di “AM. Rivista della Società Italiana di Antropologia medica”, con la quale collaboro, si è sin dalle origini perseguito questo criterio consiliente ovvero quel cum- che si accompagna a saperi e conoscenze solo in apparenza eteroclite rispetto alla medicina, ma in realtà connesse ad essa e ad altri campi; lo sguardo del ricercatore interdisciplinare, teso alla consilienza, si esplica nel rigore di uno studio altamente competente accanto all’apertura, anch’essa pilastro epistemologico e gnoseologico, verso la molteplicità dei saperi. Una cultura critica e orientata alla libertà non può che cercare di stringere alleanze impensabili, di stringere “nozze con reami diversi”. “Esodare” dal territorio univoco del proprio cammino di ricerca rende quest’ultima tale dal momento che la domanda essenziale “che cos’è questo?” (coincidente con la nascita del pensiero stesso) non può che rivolgersi ad Altro.
Alberto Simonetti, studioso indipendente, Perugia
Antropologia medica (AM): uno spazio creativo e comune per ‘capire’, per ‘agire’, per ‘impegnarsi’
Ho sempre pensato che una rivista scientifica nel campo delle scienze sociali e in particolare dell’antropologia culturale e sociale dovesse anche, nel suo essere uno spazio creativo e comunitario per la restituzione di ricerche, dati, idee, intuizioni, aprire la strada alla più ampia possibilità di dialoghi e dibattitti tempestivi, dentro e fuori l’accademia, su temi e questioni più cogenti, ed ovviamente socialmente e politicamente impegnati. In tal modo le modalità on-line e open-access che negli ultimi anni “AM. Rivista della Società italiana antropologia medica” si è data (Pizza 2019, 2020), insieme ai suoi rimandi su canali social come Facebook, costituiscono senza dubbio un concreto tentativo non solo di adeguarsi al trend contemporaneo che investe tutta l’editoria, ma soprattutto di raggiungere un’estesa diffusione dentro la comunità scientifica degli antropologi, ed anche in quella di altri ambiti scientifici in dialogo, come per esempio la medicina, la sociologia, la psicologia e non solo, e quindi fuori il mondo accademico in senso stretto. Mi riferisco in particolare a pubblici più ampi che includono scienziati di altri ambiti, decisori politici, attivisti, gente comune, magari coinvolti in scambi culturali e politici, ma anche in collaborazioni collettive e appassionate verso il cambiamento.
D’altro canto, gli antropologi da sempre hanno imparato a lavorare negli interstizi, spesso al confine tra mondi differenti (e gli antropologi medici, per la peculiarità dei loro interessi, forse ancora di più); da tempo sono impegnati nel coinvolgere comunità e gruppi rispetto a questioni e argomenti centrali nei dibattiti contemporanei, offrendo spunti critici per provare a comprendere e decodificare le complessità dei nostri mondi a sostegno di impegno e azione negli stessi.
In proposito quale strumento migliore, se non quello fornito da una rivista on-line e open-access, può concretamente aiutare in un simile processo, facendo circolare velocemente ricerche, dati, idee, intuizioni per la concreta promozione di una “nuova” e più complessa cultura della salute? (Seppilli 1996, 2014)
Infatti l’antropologia medica, con il suo sapere critico, da tempo propone una più complessa visione della corporeità nella sua dimensione profondamente storica e quindi nel rapporto con i mondi sociali che, così configurata, può aiutare non solo a rileggere malattie e processi di cura come ha mostrato la stessa esperienza del Covid-19, ma può influire sul piano della pratica e dell’intervento, diventando pienamente politica.
Una rivista consapevole delle sue prese di posizione e rigorosa nel processo che si è dato di selezione e pubblicazione di contributi originali, frutto di serie e lunghe etnografie, ma al tempo stessa aperta a tutte e tutti nel suo essere open-access, on-line, social, può concretamente contribuire a rendere realmente possibile tutto ciò, intrecciando dialoghi proficui con le università, sempre più orientate anche alla dimensione della “terza missione”, le altre istituzioni culturali, i ricercatori indipendenti, la politica, il Terzo Settore, i territori, le comunità, i singoli, in tempi di forte digitalizzazione e veloce trasformazione dei nostri mondi, come ha anche mostrato l’effervescenza e la ricchezza dei numerosi contributi presentati nel corso del Quarto Convegno Nazionale della Società italiana di antropologia medica (SIAM) tenutosi a Napoli nei giorni 26-28 gennaio 2023 ed intitolato “Fini del Mondo. Fine dei mondi. Re-immaginare le comunità”.
Come membro della Redazione di “AM” proprio ad una comunità ricca e variegata penso nel concludere questo breve intervento, quella sempre più crescente fatta dei suoi autori e lettori, che la compongono e con spirito critico la animano e le danno corpo, in dialogo serrato con il Direttore, la Redazione stessa e il Comitato Scientifico.
Eugenio Zito, Università di Napoli “Federico II”
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Riferimenti bibliografici
Cozzi D. (2012), Le parole dell’antropologia medica. Piccolo dizionario, Morlacchi, Perugia.
Minelli M., Pizza G. (2019), Usi sociali dell‘antropologia medica, “AM. Rivista Della Società Italiana Di Antropologia Medica”, 20(47-48).
Pizza G. (2005), Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci, Roma.
Pizza G. (2019), AM 2019. Editoriale, “AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica”, vol. 20 (47/48): 9-12.
Pizza G. (2020), La nuova AM. Editoriale, “AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica”, vol. 21 (49): 9-11.
Seppilli T. (1996), Antropologia Medica: fondamenti per una strategia, “AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica”, vol. 1 (1/2): 7- 22.
Seppilli T. (2014), Antropologia medica e strategie per la salute, “AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica”, vol. 16(37): 17-32.
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Giovanni Pizza, docente ordinario di Antropologia culturale e dell’Educazione, di Antropologia medica ed altre discipline antropologiche nell’Università di Perugia presso il Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione (FISSUF), ha insegnato in molte Università italiane ed europee. Dirige “AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica fondata da Tullio Seppilli” online e open access. Oltre a numerosi articoli in riviste specializzate e capitoli di libri, è autore di diverse pubblicazioni tra cui Miti e leggende degli Indiani del Nordamerica (Roma, 1988); Figure della corporeità in Europa (cur. Roma, 1998); Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo (Roma, 2005); La vergine e il ragno. Etnografia della possessione europea (Lanciano, 2012); Il tarantismo oggi, Antropologia, politica, cultura (Roma, 2015); L’antropologia di Gramsci. Corpo, natura, mutazione (2020); Embodiment and the State. Health, Biopolitics and the Intimate Life of State Powers (cur. con H. Johannessen, Perugia-Lecce, 2009); Presenze internazionali. Prospettive etnografiche sulla dimensione fisico-politica delle migrazioni in Italia ed Esperienze dell’attesa e retoriche del tempo. L’impegno dell’antropologia in campo sanitario (cur. con A. F. Ravenda, Bologna, 2012, 2016).
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