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«Andreotti siamo noi, le nostre famiglie, lo Stato, il clientelismo». L’eterno odore di mafia. Dialogo con Attilio Bolzoni

 

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Attilio Bolzoni

di Antonio Ortoleva

A Palermo e in Sicilia, ai tempi della guerra di mafia, e ancora prima della notte dei lunghi kalashnikov, da una parte c’erano i giornalisti che davano le notizie cercando riscontro ai fatti. Non erano giornalisti antimafia, solo giornalisti in formato integrale, svolgevano il loro lavoro con scrupolo e senso di indipendenza. Accanto a loro, ce n’erano degli altri che intorpidivano o intorbidavano i fatti, che rivelavano verità parziali, che tendevano a camuffare o a negare qualsiasi rapporto tra i poteri criminali e il potere politico e della finanza. I primi, tranne eccezioni, non hanno fatto carriera, alcuni sono diventati celebri per via della bravura e del coraggio. Hanno rischiato la pelle, alcuni sono morti – otto i caduti siciliani nell’esercizio del dovere di informare l’opinione pubblica. Non pochi degli altri, gli amici del giaguaro, hanno raggiunto posizioni apicali nel sistema dell’informazione e delle istituzioni, persino presidenti di parlamento o direttori di testate, ai confini con quella consorteria – borghesia mafiosa, servizi segreti, servitori infedeli dello Stato – ancora in gran parte oscura, che ha avuto un ruolo diretto nei depistaggi e nelle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese, unico territorio in Occidente dove la guerra non è finita nel 1945.

Attilio Bolzoni da 40 anni segue e racconta, attraverso articoli, inchieste e libri, le vicende delle mafie italiane, non solo Cosa nostra, con il piglio dell’indipendenza assoluta e del sapere accumulato.  Cresciuto a L’Ora di Palermo, dal 1982 è a Repubblica come cronista e inviato, compresi teatri di guerra come Afghanistan, Iraq e Balcani. Ha lavorato anche in coppia con colleghi di prim’ordine come Beppe Davanzo, Saverio Lodato, Franco Viviano. L’ultimo libro è l’ormai famoso Il padrino dell’antimafia, dedicato al caso Montante, l’ex presidente siciliano di Confindustria, il quale, indossando la maschera da paladino contro le cosche, aveva creato un sistema segreto di intrecci fuori e dentro le istituzioni – ministri, magistrati, giornalisti, imprenditori e uomini di Cosa nostra – per pilotare appalti, decisioni politiche, nomine pubbliche. Libro pubblicato da Zolfo, nuovissima casa editrice milanese dal taglio civile, che ha ereditato il catalogo Melampo (cento titoli), diretta da Lillo Garlisi, originario del “paese della ragione”, Racalmuto. Un editore che ha inventato una originale formula societaria: metà delle quote è stata acquisita da autori riconosciuti come lo stesso Bolzoni. Zolfo, come l’elemento alchemico che illumina la mente e le coscienze, come i giacimenti abbandonati nella Sicilia centro-meridionale, sinonimi di ricchezza e di sfruttamento del lavoro.

Con Attilio Bolzoni abbiamo discusso della mafia di ieri e di oggi, dal profilo e dal linguaggio dei boss storici sino ai cambiamenti geografici e di interessi. E, come allo specchio, anche dell’antimafia vera, contaminata da quella finta. Non sono mancati alcuni fatti inediti.

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Garlisi e Bolzoni

Attilio Bolzoni, la mafia di oggi è cambiata, ha indossato il vestito nuovo. Come la riconosciamo? Quali sono i segni distintivi e antropologici della mafia odierna?

«Sin da ragazzo ho imparato a Palermo che le scarpe di buona fattura, anche fatte a mano, ma sempre sporche di cantiere, erano un segno di riconoscimento. Oggi dove siamo tutti mischiati, ti sembrerà surreale, ma c’è un’espressione suggestiva che può spiegare altro: l’odore di mafia. Quelli fanno odore di mafia, possono mettere litri di colonia addosso, creme e pomate, ma fanno sempre odore di mafia».

Che tipo di odore è? Riesci a descriverlo?

«Che odore sia, non so dire. Una docente italiana a Basilea una volta mi disse, e fu un baleno di chiarezza: è come l’odore di santità».

Mammasantissima, la cupola…

«Sì, ecco. Che cos’è l’odore di santità? Come lo spieghi, come lo traduci? L’odore di mafia contiene un sacco di dettagli, non è proprio un odore, è…»

Un’atmosfera?

«Sì, un’atmosfera, lo sguardo, il lampo degli occhi, la taliata, una parola detta e non detta. Dettagli microscopici, ma chi si occupa di mafia da decenni riesce a tradurli. Non so se ti ho raccontato di quella volta al teatro Massimo di Palermo, nel 2016. Accanto a me Giovanni Sollima e la regista Cecilia Ligorio. E c’erano 72 orchestrali, stavamo facendo le prove, si metteva in scena un mio testo sul Caravaggio rubato con le musiche di Sollima. Io mi blocco, l’orchestra suonava, e dico che sento odore di mafia. Tutti mi prendono per matto. Sollima si avvicina: Attilio, ma che stai dicendo? Io lo sentivo veramente, lo sentivo alle mie spalle, pensavo che ci fosse un parente in sala, chessò io, in effetti avevo incontrato in mattinata uno dei Bonanno della Piana dei Colli, impiegato come usciere. Ho fatto la figura del matto lì per lì. Ma poche ore dopo hanno arrestato il direttore di sala del Massimo per mafia. Non so cos’è l’odore di mafia, ma di certo un’atmosfera, l’hai definita bene. Oggi non posso riconoscerla dal farfallino, dai capelli a doppia riga o dalle scene del Padrino parte prima, il panciotto, l’annacata, gli stivali dei campieri, anche se, per darti un’idea, ricordo che un compagnetto di scuola disegnava i carabinieri con la coppola e la lupara e noi a dirgli scemo-scemo. Gli scemi eravamo noi, perché il papà, un minatore di Favara dove è nata la Stidda, le code di Cosa nostra, gli spiegava che c’erano le “code stritte” e poi le “code chiatte”, che chiamavano così per via delle code dell’antica divisa dei carabinieri… i mafiosi stavano con il potere. Queste figure sono sparite ma l’odore di mafia è rimasto».

La mafia è mutata, ha mutato strategia e geografia, ha mutato anche aspetto. Come si riconosce oggi un mafioso?

«La mafia non cambia mai, se cambia è per rimanere sempre se stessa. Da tre secoli è così. Ti faccio un esempio. Vai ai Ciaculli, a Palermo, l’ultima gola di quella che fu la Conca d’Oro, un paradiso naturalistico prima della devastazione del cemento. Dal 1861 a oggi cosa è successo? È passata l’Unità d’Italia, è passata la rivoluzione industriale, la prima guerra, il fascismo, la seconda guerra mondiale, il dopoguerra, la prima repubblica, etc. E chi è che comanda lì? È sempre uno. Si chiama Greco, un Greco da 150 anni. L’uomo è andato sulla luna ma se vai a Ciaculli c’è sempre uno che comanda, Greco. Il Greco del 1861 è esteriormente diverso dal nipote del Papa di oggi, il figlio di Giuseppe il regista. La trasformazione nella continuità. Questa è la mafia delle borgate».

Poi c’è la mafia di esportazione, che ha conquistato altre geografie verso nord, questa linea della palma inseguita simbolicamente dal coleottero rosso che l’ha mangiucchiata, e si è trasferita nella fascia industriale del nord e all’estero.

«Prima di aprire questo discorso, ne dobbiamo fare un altro. Quella che ho descritto è la mafia rimasta di stampo medievale. Nel 1874 viene resa pubblica l’inchiesta di Sonnino e Franchetti sulle condizioni socio-economiche della Sicilia. Lì si parla dei facinorosi della classe media. Chi erano questi facinorosi se non ciò che chiamiamo oggi borghesia mafiosa? Ecco, trasformazione nella continuità. La Dia, la Direzione investigativa antimafia, ha ripreso un rapporto scoperto tempo fa dal professor Salvatore Lupo, un’inchiesta del questore Sangiorgi del 1898, io ho scritto un articolo recente in proposito. Se leggi quel rapporto scopri che 122 anni fa c’erano otto mandamenti come oggi a Palermo. Scoprirai che erano state censite 39 famiglie esattamente come oggi, che l’uomo più illuminato della Palermo di allora, il signore di Palermo, Ignazio Florio, venne contattato dal signor Whitaker per un furto a casa Woodhouse da parte dei Noto degli Olivella. Stiamo parlando delle famiglie più in vista. Florio aveva come guardiaporta, quindi campiere di città, uno della famiglia Noto. Che gli fa recuperare tutto. I due ladri poi furono ritrovati cadaveri all’Acquasanta».

 Come lo stalliere di Arcore…

«C’è una continuità anche nei delitti eccellenti. Nel 1893 viene ucciso Emanuele Notarbartolo, il marchese deputato ed ex sindaco di Palermo, il deputato Raffaele Palizzolo, ritenuto il mandante occulto, fu prima condannato a 30 anni e poi assolto per insufficienza di prove. Le medesime dinamiche di oggi. Il rapporto mafia politica è antico, ma ancora oggi smentito, rifiutato. Nino Giuffrè inizia la cantata e dice: vedete che per noi la politica è come l’acqua per i pesci». 

Da dove nasce l’esigenza per Cosa Nostra di mantenere usi, costumi, persino l’iconografia delle origini?

«Pensa alla deposizione di Totuccio Contorno al maxiprocesso, con la sua lingua di pezza lui dice: io sono con lo Stato non con l’anti-Stato. Ed è una frase imbeccata dagli apparati di polizia, la mafia ha un’organizzazione statuale, è uno Stato nello Stato, non è anti-Stato, radicata nel territorio perché ha il suo sistema fiscale, sistema infallibile e non zoppo come quello statale, ha la sua polizia, i suoi reparti investigativi, ha il suo governo, la cupola, come lo Stato ha le sue prefetture. È dunque un potere dentro un potere».

il-capo-dei-capiSta qui la differenza rispetto alle altre organizzazioni criminali del mondo occidentale?

«La differenza è che Cosa nostra ha sempre avuto un progetto politico, cioè l’aspirazione a diventare classe dirigente, ecco la storia lunga, ecco perché hanno bisogno della politica, sono la politica, vedi uno come Riina che dice “sono un seconda elementare”, quindi uno stato di istruzione infimo con una raffinatezza di pensiero politico altissimo. Liggio e Provenzano, arrestati in tempi molto diversi, pronunciano la stessa frase negli occhi dei funzionari che li catturano: voi non sapete che cosa fate. La stessa frase».

Un progetto politico che prevede una sorta di scuola di formazione? 

«La mafia siciliana non è un partito e non ha ideologia, non è di destra o di sinistra, né di giù né di su, va dove c’è il potere. Tranne in due casi. La sbornia indipendentista, quando vuole diventare la 51sima stella degli Stati Uniti e usa il bandito Giuliano, ma poi gli agrari, gli apparati la fanno traghettare verso i liberali e poi verso chi comanda». 

La strategia geopolitica di Yalta non prevede il distacco della Sicilia dall’Italia e Cosa nostra si adegua.

«E diventa la Gladio siciliana, in tutta Europa agisce Stay Behind, ma Cosa nostra è la Gladio nostrana, non c’è bisogno di altro qui. Con il film di Pif si è riaperto il dibattito sulla mafia che ha aiutato gli anglo-americani a sbarcare in Sicilia, ma non troverai un documento in proposito, l’operazione Husky è la storia più segreta di sempre, nessun documento sui sindaci mafiosi di Sicilia, tranne sul caso di Lucky Luciano, gli chiedono di ripulire dagli U-boat tedeschi il porto di New York che era in mano alla mafia siciliana. In seguito è scarcerato, lo espellono e torna in Sicilia».

Ti ricordo la storia del fazzoletto di seta gialla con la L nera di Luciano paracadutato nei paraggi della casa del boss Calogero Vizzini. Solo una leggenda?

«Una favola che ci è piaciuta sempre ma non abbiamo uno straccio di prova. Certo, ne hanno scritto Tranfaglia e Pantaleone, ma non è provato. Pensa che Giuseppe Genco Russo, il successore di Vizzini, capo dei capi, dentro la mafia lo chiamavano Gina Lollobrigida perché ogni giorno era sui giornali, si faceva intervistare da Biagi e Montanelli e il vero capo era un tale Fazio di Trapani, di cui nessuno sapeva niente».

paroleAnche il linguaggio della mafia in 150 anni non è cambiato? Tu hai pubblicato un libro sul tema, “Parole d’onore”.

«Sì, immutato. È un linguaggio essenziale, ogni parola è priva di ipocrisia. ‘Annacarsi’ vuol dire muoversi restando fermi. A Corleone si dice ‘susciare’, soffia senza fare vento. I comandamenti di Cosa nostra non hanno un valore morale ma organizzativo. Il decalogo contiene la norma ‘dì sempre la verità’, una necessità organizzativa, la più piccola bugia, in una società segreta, crea difficoltà e rischio di morte o di arresti. Il termine ‘incaprettare’, per esempio, è per noi atroce, ha una spiegazione di praticità. Gli legano le corde tra il collo e le gambe dalla parte dorsale, quando cedono i muscoli delle gambe si strangolano da soli. Chiesi a un mafioso. Ma perché questa crudeltà? Mi rispose che sono facili da trasportare come un valigia, quale ferocia? O l’acido… mica è ferocia, se sparisce il corpo del reato, sparisce il reato. Nel film L’onore dei Prizzi, il protagonista Jack Nicholson, Gianni Partanna, killer di professione, sposa una polacca e scopre che anche la sua bellissima donna è un killer. Il vecchio boss mangiando biscottini lo ammonisce: pensa alla famiglia, uccidi tua moglie, tanto è polacca. La famiglia mafiosa va oltre i legami di sangue. Per parlare di linguaggio ci servono anche questi riferimenti: famiglia, religione, sesso. Come si dice padrino e prete? Nella Sicilia centro-occidentale si dice allo stesso modo: parrino». 

Anche il menù del mafioso ha sua riconoscibilità.

«Un tempo mangiavano nelle masserie, tavolate all’aperto con carne alla brace, carciofi, pane con l’olio, oggi ostriche e champagne e vanno sulla moto d’acqua e li prendono dopo tre minuti. Ti racconto di Dell’Utri nel giorno della sentenza, quando venne condannato per concorso esterno a Palermo. Stava rientrando la corte e tutti, giornalisti e avvocati, si avviano verso l’aula. Qualcuno gli dice: entriamo? No, replica lui, mi vado a mangiare uno sfincione. Così fece».

I nuovi boss, i viddani, vengono dalle campagne e surclassano i signori di città della nobile Palermo, e non è solo una questione militare.

«E dominano per 25 anni».

 Come spieghi il declino dell’èlite cittadina?

«I corleonesi che scendono dalla campagna, nella ricostruzione del più grande uomo di giustizia che era Giovanni Falcone, si infiltrano in città e vincono, 70 corleonesi contro tutta Palermo. Ma non possiamo limitarci alla verità giudiziaria. Quel che penso io è che questi corleonesi sono un prodotto, nati e cresciuti in un laboratorio politico-sbirresco, venivano dal nulla e nel nulla sono tornati, aiutati da apparati dei servizi hanno eliminato l’aristocrazia mafiosa perché bisognava regolare dei conti politici in Italia, non mafiosi, politici. A pensarci bene, anche se può sembrare incredibile, nessuna strage di mafia è una strage di mafia. Cosa nostra non aveva interesse, non aveva mai fatto guerra allo Stato, infatti l’ha persa. La guerra di mafia si inserisce in una strategia della tensione che nasce in un primo tempo al Nord, poi si trasferisce al Sud».

copertina_bolzoni:copertina_caselli_3.qxd.qxdQuindi la pista di Gladio non è fantascienza. Imposimato, giudice istruttore del caso Moro e poi in Sicilia, diceva che Falcone e Borsellino sono stati uccisi perché indagavano su Gladio.

«Pensa al delitto Moro, meno di due anni dopo muore a Palermo il suo delfino, Piersanti Mattarella».

Un ritardo culturale nel contrastare queste manifestazioni. L’aspetto religioso è stato sottovalutato.

«Quando uccidono non hanno sensi di colpa, hanno creato un dio cattivo che giustifica le loro azioni, la religiosità è un nodo centrale. Pensa alla jihad, se vai in Pakistan trovi le madrasse, le scuole coraniche, attraggono i ragazzini e danno da mangiare e da studiare, come a Palermo prendono i ragazzi dai quartieri. Noi li chiamiamo mafiosi, loro si dicono soldati. Sulla religione hanno costruito tutto. Con un triplo salto mortale puoi trovare nell’antimafia un alone simile di santità».  

Ora stanno in Europa.

«Pochi i siciliani, n’drangheta soprattutto, oggi le evidenze dicono che è la più potente, ma non sono d’accordo. Fiumi di denaro del traffico di stupefacenti degli anni Settanta sono finiti a Milano e, anche se i procuratori non sono riusciti a dimostrarlo, pure ad Arcore. A Duisburg c’è il Reno, nella fiumara di San Luca stanno sulle due rive, ripropongono la divisione delle famiglie e le condizioni ambientali delle loro famiglie. I siciliani sono meno riconoscibili. La figlia di Giuffré insegna in un’università a Washington. I siciliani all’estero non sono più prendibili. I figli dei fratelli Graviano, quelli nati mentre loro erano al 41 bis, hanno studiato al Gonzaga, la scuola delle élite palermitane».

Evoluzione della specie.

«Se dovessi fare un film sul capo dei capi, metterei la faccia di Riina e il Moro di Venezia, o la faccia di Ciancimino e il Vaticano. Falcone disse: la mafia è entrata in Borsa. Riina entrò in società attraverso i fratelli Buscemi con Raul Gardini, lo conferma una sentenza passata in giudicato. La storia di Berlusconi è emblematica. Non solo Berlusconi, e ne sono convinto, non ha messo le bombe a Roma e a Milano, ma le ha fermate, era il personaggio perfetto e al di sotto di ogni sospetto per pacificare quel mondo, noi dovremmo, tra virgolette, ringraziarlo, le ha fermate le bombe. Lo hanno indagato per 30 anni…».

Perché le avrebbe fermate?

«Era rassicurante, politicamente parlando. Piduista, avrebbe trattato con l’aristocrazia mafiosa ma non l’hanno mai dimostrato, parte dei soldi di Palermo – è il sospetto che affiora da tante indagini che si sono aggrovigliate senza una certezza giudiziaria – là sarebbe andata, a Milanodue. Puttaniere, quindi ricattabile, al di sotto di ogni sospetto, qualcuno cerca di identificare Berlusconi con Andreotti, ma Andreotti siamo noi, Andreotti sono le nostre famiglie, lo Stato, il clientelismo. Berlusca è un impresario e gli hanno caricato tutto e non hanno scoperto niente, il capro espiatorio perfetto, gli danno la mafia, lo indagano a Firenze per le stragi, arriva Graviano, poi Spatuzza, sempre prosciolto. La bomba all’Olimpico lui l’ha fermata, lui e Dell’Utri. Paese stranissimo, il nostro. Ovvio che era amico di quelli, ma le stragi sono altra cosa. I Bontate, i Grado, i Di Carlo andavano a Milano, è accertato che li incontrava, e non certo per bere una birra».  

la-mafia-dopo-le-stragi-114La stagione dei cosiddetti pentiti è definitivamente conclusa?

«Dei cosiddetti pentiti due soli si sono pentiti interiormente. Uno l’ho intervistato, e non per merito mio, il Joe Valachi di borgata, Leonardo Vitale di Falsomiele, il pentito che aveva fatto tremare Cosa nostra, appena uscito dal manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, dove era stato rinchiuso perché parlava di mafia, ma allora la mafia non esisteva. Vado a Gratteri, basse Madonie, mi manda il direttore del giornale L’Ora, Nicola Cattedra. Nessuno mi dice nulla tranne il bombolaro, definito lo scemo del paese. Leuccio era rannicchiato su una specie di credenza e prima di parlarmi mi ha raccontato le sue malattie sessuali. ‘Mio zio Titta, Giovanbattista Vitale, mi ha fatto diventare un assassino. Mi portò in campagna e mi fece uccidere un cavalluccio bianco’. Poi lo condusse alla Noce per sparare a un cristiano. Nel 1974 entrò alla Mobile e fece per la prima volta il nome di Riina, del principe di San Vincenzo, di Ciancimino. L’altro era Calderone, da pentito per riferire con Falcone si chiuse in un monastero vicino a Marsiglia. Dietro ogni grande pentimento c’è sempre una donna, la scelta di questi uomini, anche i peggiori, è tra l’amore e la vita o Cosa nostra e la morte. La moglie di Calderone, è lei che contatta Manganelli. Marino Mannoia era sposato con una Vernengo, si innamora della Rita Simoncini che va sempre da Manganelli e spiana la strada al suo uomo, basta con quel mondo». 

E oggi? 

«Sospesi per lungo tempo i riti di iniziazione, perché se uno si pente fotte tutti, come fenomeno di massa è sicuramente finito. L’organizzazione ha stretto le maglie. Ma se vuoi la mia opinione, è inutile pentirsi oggi, la tecnologia ha fregato i pentiti. Quando oggi arriva un pentito, anzi un pentitino, sanno già tutto con droni e microspie, sanno già tutto. Troyan ha permesso di penetrare nell’intimità del crimine. Finita la guerra, poi, c’è meno pericolo per tutti. Siamo alla fine del fenomeno incarnato da Masino Buscetta. Quando lui si pente dice a Contorno che si inginocchia davanti a lui: Totuccio, puoi parlare. Buscetta non era un capo? Leggenda. Il carisma di Buscetta ci porta solo in una direzione, era un personaggio chiave nel traffico di stupefacenti. Con Badalamenti era il perno dei rapporti con gli Usa. E oltre a raccontare, fornisce la chiave per decifrare quel mondo».

L’anno più insanguinato è il 1991, 750 omicidi delle mafie italiane. Oggi vicini allo zero. È finito il mestiere del killer, i poligoni, il traffico delle armi?

«Si uccide quando è necessario. La punciuta sul dito, il dito che spara, così si diventa ancora uomo d’onore e vieni osservato per anni, l’addestramento c’è, la professione non è tramontata, il boss è anche killer, in una sola persona trovi tutto. L’ultimo omicidio di mafia a Palermo risale al 22 maggio 2017, vittima uno che aspirava a diventare il capo della famiglia di Porta Nuova. Era in bici alla vigilia del 25° anniversario di Capaci e dalle carte si capisce che aveva rubato una partita di droga. Fu stupidità, la mafia non ha un proprio calendario, in quei giorni mi dissero in borgata che anche dentro Cosa nostra ci sono le mele marce. La mafia uccide quando è necessario, se qualcuno ti fa perdere denaro, l’omicidio ci sta. Soldi al primo posto, poi autorevolezza e controllo del territorio. Il pizzo resiste, attraverso il pizzo Cosa nostra manifesta la sua autorità. Libero Grassi non solo non pagava ma li rendeva ridicoli e stava diventando una bandiera, quindi era un obiettivo politico-militare».

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Attilio Bolzoni

Cosa è cambiato con il Covid-19? Anche l’industria del pizzo è in crisi.

«Per causa lutto, la mesata non te la fanno pagare, se non hai soldi interviene il rateo, con la quarantena non sono usciti a incassare, il boss non esce senza mascherina o fa la grigliata, avranno trovato accordi, non possono tirarti il collo. Gaspare Mutolo una volta disse: quando sento che un imprenditore non paga non è possibile, siamo amici, è un dare e un avere, la gente è molto educata a pagare. Ogni emergenza è un’opportunità anche se le nostre polizie su questo campo sono collaudate, li prendono se rilevano attività che rischiano di chiudere. Ma lo Stato non contrasta l’alta mafia, Messina Denaro non viene preso perché ha il sapere delle stragi e forse ha le carte del covo di Riina, come Riina probabilmente aveva quelle del bandito Giuliano».

Nella nuova tecnocrazia mafiosa prendono posto anche gli eredi, figli e nipoti?

«Se sei figlio di un boss noto, ti tengono d’occhio, sei sotto scopa, se ti chiami Greco o Riina è un po’ difficile che non ti tengano d’occhio. Allora emergono prestanome importanti in questa fase. Non sono stati invece sotto scopa i Montante, il capo dell’antimafia italiana frequentava tutti. Il problema oggi è che manca la cultura per aggredire l’altro pezzo di mafia meno visibile e più inserito nei gangli dello Stato e in Europa». 

L’Europa è impreparata e tende a configurare il problema mafia come esclusivamente italiano.

«La City di Londra ha riciclato capitali impressionanti, gli unici due Paesi al mondo con un sistema legislativo antimafia e apparati di polizia specializzati sono Italia e Usa, in Europa che io sappia proprio zero, da anni si spinge per la Procura europea antimafia, uniformare la legislazione, niente. C’è anche un atto ipocrita, perderebbero fiumi di denaro. La pistola fumante sugli spaghetti in copertina del settimanale Der Spiegel è una prova. Il reato di associazione mafiosa non è contemplato. La brava giornalista tedesca Petra Reski, più volte condannata a risarcire, non scrive più libri di mafia, i boss sono uomini rispettabili lì, sono imprenditori».

Un’ultima questione, il movimento antimafia è in crisi d’identità e di obiettivi, troppo denaro. Si sono inseriti alcuni “professionisti”. Sciascia aveva dunque ragione?

«L’antimafia è in fase di involuzione, sempre più consociativa, interessata ai finanziamenti, non più a porsi antagonista, anzi va in sintonia con la politica. Come può, per esempio, Legambiente di Agrigento fare protocolli con gli impresari dei rifiuti? C’è persino un aspetto losco, a parte il caso Montante, le contaminazioni, le infiltrazioni, arresti e processi alla Saguto, Helg, Candela, il commissario per l’emergenza Covid. Tutto ciò crea disorientamento e crisi di affezione. Un movimento popolare da sempre, dai contadini che occupavano le terre al cartello sul luogo di Dalla Chiesa, oggi ha imbarcato tutti, troppi soldi che girano, qualcuno ne ha approfittato. Claudio Fava dice: “sogno un’antimafia dai piedi scalzi”. Sciascia nel 1987 aveva ragione, ma Orlando e Borsellino non erano gli esempi giusti, hanno usato il suo articolo contro il movimento, in pieno maxiprocesso fu un dolore per chi stava dentro e ancora ci facciamo i conti, seppur lo scrittore non usò la parola ‘professionisti’, è redazionale. Ora ci stanno i santoni, un brand fatto dai singoli, da star, non è più di massa, il prete, lo scrittore, il giornalista. Tu attacchi me che sono un buono e fai un favore alla mafia. Quindi serve un limite con paletti etici, obiettivi comuni e meno soldi in circolazione. Pensa che hanno dato contributi anche a una sciata antimafia». 

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020

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Antonio Ortoleva, ex giornalista del Giornale di Sicilia, già direttore e co-fondatore del periodico antimafia “Il Quartiere nuovo” di Palermo e docente di giornalismo a contratto presso l’università di Palermo. Autore di reportage di viaggi, nonché del volume C’era una volta l’India e c’è ancora, Navarra Editore.

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