di Linda Armano
Molti sono gli antropologi che condividono l’idea secondo cui lo studio della materia e della tecnologia sono tra i campi meno sviluppati in antropologia. Ritengo condivisibile infatti l’opinione sostenuta da Pier Giorgio Solinas quando scrive che:
«La ricerca antropologica vera e propria, sia essa ispirata all’antropologia “sociale” o “culturale”, non ha tenuto un gran che conto la cultura materiale come impegnativa categoria teorica» (Solinas, 1991: 55).
E ancora Tim Ingold sostiene che:
«Nella storia dell’antropologia troviamo due modi distinti di comprendere la relazione tra tecnologia e società: il determinismo tecnologico e il possibilismo tecnologico. Il primo sostiene che le forme istituzionali delle società sono dettate dalle richieste del funzionamento di un sistema tecnologico di una qualche complessità, per cui il mutamento sociale è a sua volta dettato e istigato, anzi dipende dal mutamento tecnologico. Il secondo, il possibilismo tecnologico, sostiene che la tecnologia non esercita alcuna influenza sulla forma della società, se non per il fatto di porre dei limiti esteriori allo spazio d’azione umano» (Ingold, 2001: 142).
Entrambe le posizioni partono però da due premesse che ritengo essenzialmente errate. La prima è una concezione della tecnologia come sistema oggettivo di relazioni del tutto sganciato dall’ambito sociale, a prescindere dal suo effettivo grado di influenza sulla società. La seconda è che si possa misurare la tecnologia in termini di gradi di complessità. È bene mettere in luce come, al contrario, la sfera di capacità e di azione (di manipolazione concreta del mondo esterno), propria ad ogni popolazione umana – ciò che definiamo appunto “tecnologia” – non sia affatto separata dalla compresente sfera delle relazioni sociali e delle idee culturali. Ciò significa che, per esempio, le abitazioni sono fatte di pietre e di terra, di legno e stoppie non meno che di operazioni e categorie dello spirito (Ligi, 2003: 163-164). Il principale problema di ricerca sta quindi nel comprendere sempre meglio, a partire da casi concreti, come siano legate queste «operazioni e categorie dello spirito con le pietre, la terra, il legno e le stoppie» (Cuisenier, 1991: 12).
Se, in generale, la tecnologia è un settore degli studi antropologici poco sviluppato, un campo di ricerca ancor più inesplorato è quello relativo “all’Antropologia di Miniera”, in cui l’elemento tecnologico assume, tra l’altro, un ruolo estremamente rilevante. La miniera e la metallurgia hanno impiegato, in tutto il mondo, milioni di lavoratori dal Medioevo a oggi. L’industria estrattiva e i materiali di scarto della miniera e dell’attività metallurgica, hanno trasformato porzioni considerevoli della superficie terrestre.
In generale, secondo la definizione di Weisgerber e Pernicka:
«In the most general sense mining can be regarded as extension of the search for natural materials that could be used for the fabrication of tools and weapons or as ornaments (and for monetization)» (Weisgerber, Pernicka, 1995: 159, c.vo mio)
Ricerche di “Antropologia mineraria” (Anthropology of mining), incentivate dopo la pubblicazione dell’articolo di Ricardo Godoy “Mining: anthropologicalperspectives” (1985), sono però ancora piuttosto rare. Come ha sottolineato l’archeologo Bernard Knapp:
«Despite the potential of ethnographic studies of mining to address questions of considerable contemporary interest in anthropology, such as globalization, indigenous rights, and new social movements, the anthropology of mining remains largely under-researched and under-theorized» (Knapp, 1997: 2).
Dato lo sfruttamento dell’industria mineraria su scala mondiale, risulta inverosimile il ritardo epistemologico in questo campo della disciplina antropologica, con la sola eccezione di studi locali o regionali sulle miniere, che presentano comunque una debole strutturazione teorica e metodologica.
L’emergere dell’Anthropology of Mining, a seguito della pubblicazione dell’articolo di Godoy, sembra essere diretta conseguenza anche del clamore suscitato dall’eccezionale boom della quotazione dei metalli preziosi, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, a cui seguì l’incentivazione mondiale dello sfruttamento dell’industria estrattiva, soprattutto in zone considerate “di frontiera” dell’Africa, dell’Asia e dell’America con l’impiego di manodopera locale. Questa corsa all’estrazione mineraria mondiale coincise con la chiusura delle miniere alpine, iniziata tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta. In questo periodo infatti, molti minatori che lavoravano nelle miniere delle Alpi, vennero ingaggiati da ditte per la realizzazione di trafori o di dighe anche al di fuori dei confini europei.
In concomitanza all’incentivazione dello sfruttamento estrattivo mondiale in “aree di frontiera”, ossia in zone, spesso marginalizzate, che costituivano i classici terreni di ricerca degli antropologi, vennero promossi progetti umanitari in difesa di quelle comunità indigene che venivano impiegate, dalle multinazionali, nell’attività mineraria. Questi progetti umanitari furono incoraggiati inoltre dallo sviluppo di ulteriori politiche promosse da organizzazioni umanitarie rivolte al riconoscimento dei diritti delle comunità indigene come l’United Nations Working Group on Indigenous Population nel 1982, l’U.N. Draft Declaration on the Rights of Indigenous People e l’incremento di movimenti sociali indigeni e di forze non governative in difesa dei diritti dei nativi. Una seconda spinta a sostegno di progetti umanitari fu data dall’istituzionalizzazione della valutazione d’impatto su larga scala delle operazioni minerarie, permettendo l’inserimento delle comunità locali, in veste di attori principali, nel promuovere e nel difendere le risorse del loro territorio.
L’attuale stato dei lavori
Nonostante gli ampi margini di sviluppo, negli ultimi venticinque anni, gli studi nel settore dell’attività estrattiva sono diventati importanti campi di inve- stigazione e di controversie per gli antropologi. Come oggetto di studio la “miniera”mette in luce specifici problemi che possono trovare un terreno fertile che consente di esplorare nuovi percorsi teorici e metodologici, oltre che etici e politici.
Ricerche di Antropologia Mineraria hanno messo a disposizione preziosi materiali di studio per ulteriori indagini interdisciplinari, le più frequenti e durevoli delle quali si sono rivolte soprattutto alle questioni relative alle proteste sindacali e al riconoscimento dei diritti dei lavoratori nel rapporto con il sistema industriale, imposto solitamente dall’esterno (Denoon, 1996).
Altri importanti lavori si sono occupati dello studio dei sistemi di promozione politico-economica per il richiamo di manodopera immigrata (per lo più ragazzi giovani) da impiegare in varie miniere africane per l’estrazione di oro o di diamanti. Queste ricerche sono fonti importanti che hanno dato avvio ad altri studi sui processi di organizzazione politica dei lavoratori, sul rapporto tra minatori, denaro e sesso e sulle esperienze di guerra legate ai soldi ricavati dall’attività mineraria. Quest’ultimo punto è stato ampiamente approfondito nei lavori di Lorenzo d’Angelo relativi alle miniere di diamanti della Sierra Leone in cui mette in luce che:
«Alla fine degli anni Novanta, le contemporanee guerre civili in Angola, Congo-Zaire, Liberia e Sierra Leone sembravano avere tutte un denominatore minimo comune messo bene in luce da attivisti, giornalisti, analisti e persino da alcuni artisti: i diamanti estratti e venduti per comprare armi e riciclare soldi “sporchi” o per finanziare altre guerre ed attività terroristiche internazionali» (d’Angelo, 2013: 87).
Gran parte degli studiosi (ad es. Richards 1996, Keen 2005), degli attivisti (ad es. GW 1998, ICG 2003) e degli esperti delle agenzie per lo sviluppo (ad es. USAID 2001, DDI 2002) che hanno analizzato le ragioni del conflitto in Sierra Leone, Angola, Congo, Liberia e Zaire sono però concordi nel ritenere che i diamanti non sono stati la causa delle guerre civili, anche se sono certamente serviti ad alimentarle e a prolungarle (Maconachie and Binns 2007).
Oltre a ricerche sul rapporto tra sfruttamento industriale della risorsa mineraria ed organizzazioni sindacali dei lavoratori, negli ultimi anni è cresciuto l’interesse scientifico per il livello estrattivo artigianale, o di piccola scala, dei diamanti e dei metalli preziosi africani. Il motivo è in parte da ricercare nell’effetto del boom estrattivo esploso negli ultimi due-tre decenni (Ballard and Banks 2003) e, in parte, anche in conseguenza del clamore suscitato dai cosiddetti “minerali da conflitto”.
L’effetto combinato di questi due fenomeni ha, a sua volta, contribuito ad attirare l’attenzione di alcune delle principali agenzie governative inter- nazionali come la World Bank e l’International Labour Organization, con una conseguente reazione a valanga in termini di progetti e analisi di settore (Werthman and Grätz 2012). Non sorprende, dunque, che molti degli studi pubblicati sulle riviste accademiche internazionali si siano focalizzati su questo specifico settore estrattivo, orientati dalle stesse preoccupazioni degli esperti dello sviluppo. Un tema molto comune tra questi studi è, infatti, il rapporto che esiste tra estrazione mineraria, povertà e conflitti (ad es. Fischer 2007, Fischer et al. 2009). Un altro tema a cui è stata dedicata particolare attenzione è il rapporto tra i vari livelli (artigianale e larga scala) (Yelpaala and Ali 2005) o i diversi tipi di estrazione (ad es. diamanti e oro) (Amankwah and Anim-Sackey 2003, Hilson 2010, Nyame, Grant 2012), nonché tra le varie forme di sussistenza economica alternative o complementari all’estrazione stessa (ad es. agricoltura).
Gli studi e le ricerche di Anthropology of Mining sono state estremamente utili e stimolanti anche sotto altri punti di vista. Per esempio, come ha messo in luce d’Angelo in riferimento alla situazione in Sierra Leone, con l’approssimarsi della fine della guerra, tra gli esperti dello sviluppo e i donors internazionali, sorse una questione: come convertire una potenziale risorsa di guerra in una effettiva risorsa per la pace e la prosperità? È a partire da questo semplice interrogativo che alcune importanti agenzie governative per lo sviluppo hanno cercato la collaborazione di esperti dell’industria mineraria, di attivisti per la difesa dei diritti umani, di esponenti della società civile e del Governo della Sierra Leone per trovare soluzioni condivise al problema dei “conflict diamonds”. La ricerca delle soluzioni a questo problema ha prodotto nel tempo conoscenze sempre più dettagliate sui diamanti provenienti dalle miniere alluvionali di questo Paese dell’Africa occidentale. Le principali agenzie governative hanno infatti finanziato, pubblicato o semplicemente promosso, studi e ricerche sul campo utili alla progettazione e all’implementazione delle proprie iniziative. Grazie a queste analisi pensate per produrre risultati operativi, ma non senza punti di contatto con il dibattito accademico nato in parallelo, possiamo farci un’idea della complessità del lavoro dell’Anthropology of Mining e dei suoi tanti aspetti problematici.
Tuttavia, ci sono alcune domande che vale la pena porsi per non dare per scontati i risultati e le proposte operative di queste ricerche: quali obiettivi e quali interessi hanno orientato e giustificato i progetti di sviluppo dedicati ai conflict diamonds? Perché tanto interesse per il livello artigianale dell’estrazione dei diamanti e non, per esempio, per i livelli estrattivi su larga scala? Quali premesse e quali assunzioni hanno guidato e condizionato le agende di intervento degli esperti e dei tecnici dello sviluppo interessati ai minatori della Sierra Leone, come anche di altri Paesi africani? (d’Angelo, 2013: 88).
In generale, le guerre civili negli Stati africani sopra citati, hanno prodotto immagini di raccapriccianti massacri, che fecero il giro del mondo attraverso i principali canali mediatici con scene di uomini e donne mutilati, di bambini che imbracciano mitragliatori, di corpi martoriati o tremanti. Queste immagini contribuirono ad alimentare le campagne degli attivisti per i diritti umani che denunciavano, sin dal 1998, il legame tra la guerra e i diamanti estratti e contrabbandati in Angola. Nel 1999, un insieme di ONG europee e africane diede vita alla Fatal Transaction Campaign. Grazie a questa campagna di sensibilizzazione, espressioni come “conflict diamonds” e “blood diamonds” entrarono nel linguaggio comune. Le responsabilità dei protagonisti diretti del conflitto (i vari gruppi militari combattenti) furono messe in primo piano insieme a quelle dell’industria dei diamanti, accusata di essere complice dei guerrieri e di lucrare sulla pelle delle vittime civili.
Preoccupati per il potenziale danno d’immagine creato da queste iniziative e dal rischio di un crollo del mercato delle gemme preziose, i principali rappresentanti dell’industria mineraria iniziarono a collaborare con i rappresentanti di governo e della società civile nella realizzazione di un sistema di certificazione sulla provenienza dei diamanti. Il Kimberley Process Certificate Scheme (KPCS) entrò in vigore il 1° gennaio del 2003 (GW 2003, GW 2006) e, da allora, certifica che i diamanti comprati e venduti dagli Stati e dalle istituzioni che vi hanno aderito sono “free conflict”, ossia che non provengono da zone di guerra.
Aspetti universali del lavoro industrializzato in miniera
Nel suo interessante lavoro «Offshore work: oli, modularity, and the how of capitalism in Equadorial Guinea» (2012), Hanna Appel introduce il concetto, estremamente importante, di “modu- larity” che, oltre a trovare applicazione nel suo caso di studio, ossia l’industria petrolifera negli offshore, può essere esteso anche ad altre “aree ecologico-produttive”:
«Modularity (…) may be useful to think with across research site, including other resource and commodity chains, special economic zone, shipping and military installations, transnational finance, or even democratization projects, where democracy has to be made into “something that moves easily from place to place”» (Appel, 2012: 698).
Come sottolinea Appel, l’attenzione etnografica tende a considerare soprattutto “il come” si costituisce localmente una certa forma di capitalismo globale. Nel presentare il suo cambiamento di paradigma, Appel introduce il classico lavoro sul dono presso i Maori (1969) di Marcell Mauss, in cui spiega come lo “hau” sia lo spirito contenuto in ogni oggetto donato che dà luogo a prestazioni di dono continue. Estendendo il concetto di “hau” nell’ambito del capitalismo, che come nel contesto del dono mette in moto un movimento in continuo divenire espansionistico, Appel assume il “profitto” come spirito del capitalismo. Il profitto ci dice però poco dei processi e delle pratiche che il capitalismo crea nella vita di tutti i giorni. Perciò, secondo Appel, se il profitto è lo spirito del capitalismo, “il come” esso si dispiega quotidianamente resta una questione aperta e costantemente indagabile. Secondo Appel quindi:
«In this sense, modularity does not describe a new mode of capitalistic production – from post –Fordist to neoliberal to modular. Rather, attention to the work of modularity in the world helps to reconcile oft-opposed theoretical approaches to “global capitalism”»(Ibidem).
Al posto di attribuire al capitalismo una sistematicità autonoma o negare ogni sorta di sistematica coerenza in favore della contingenza e della eterogeneità, l’approccio modulare guida l’attenzione etnografica nel ricercare l’eterogeneità e la contingenza all’interno dello speculare profitto e all’omogenea forma di potere ricorrente in ogni progetto capitalistico globale. Perciò Appel preferisce partire dal senso opposto rispetto alla maggior parte dei suoi colleghi antropologi:
«Here, my analysis moves in the opposite direction. I follow the work of the oil companies themselves, for whom disengagement from Equatorial Guinea’s specificity was not a mistaken starting point (ready to “be exposed” by the anthropologist) but an always-unfinished project they worked daily to build. This direction of analysis start from the “proliferation of relations” and then traces the framing work that makes marketization possible» (Ibidem).
I riferimenti ad Appel e al suo concetto di “modularity” servono, in queste pagine, per introdurre un discorso sull’industrializzazione dell’attività mineraria come elemento universalmente distribuito e contemporaneamente embedded nella vita sociale, politica ed economica locale. I dibattiti attorno al capitalismo e all’anticapitalismo hanno prodotto, a mio avviso, un’abitudine nelle ricerche, a separare i due contesti piuttosto che concentrarsi sulle conoscenze e sulle pratiche prodotte grazie all’incontro e alla negoziazione tra i due. Infatti Tsing sottolinea:
«Capitalism forms and processes are continually made and unmade; if we offer singular predictions we allow ourselves to be caught by as ideology. Attention to contingency and articulation can help us describe both the cultural specificity and the fragility of capitalist – and globalist – success stories» (Tsing, 2000: 142-143).
Le implicazioni teoriche per una comprensione del sistema minerario multinazionale possono infatti generare interpretazioni impegnative, poco esplorate e questioni di vasta portata sull’omogeneità della gestione multinazionale estrattiva, sulle forme di potere, sulle gerarchie e sulla razionalizzazione dei profitti.
Uno degli aspetti caratteristici dell’industrializzazione mineraria, è ren- dere esplicita la percezione che il profitto da essa derivato avvenga grazie ad una esclusiva categoria professionale, separata dal resto della popolazione locale, coinvolta invece in altre attività produttive. Appel sottolinea, in questi contesti, i frequenti scontri politici, economici e sociali tra le diverse categorie socio-professionali, oltre che produzioni di eterorappresentazioni, spesso spettrali della miniera, ancora poco esplorati dalla ricerca scientifica (per esempio per i corpus leggendari sulla miniera cfr. Armano, 2016).
La separazione tra industrializzazione mineraria ed il resto delle attività produttive non è solo un aspetto attuale che riguarda comunità lontane da noi. Per esempio, nelle Alpi l’industrializzazione mineraria si avviò sin dal Medioevo, individuando nelle Alpi austriache la provenienza di maestranze minerarie e metallurgiche, legate all’estrazione e alla lavorazione dell’oro e dell’argento, che nei secoli successivi emigrò in tutto il territorio alpino. Ma perché, per quanto riguarda il lavoro estrattivo, prese piede soprattutto in Austria, sin dal Medioevo, una professione ufficialmente riconosciuta e legata all’estrazione e alla fusione di metalli preziosi?
In questo contesto entrano in gioco molteplici fattori, ma solo per fare qualche esempio possiamo ricordare il caso dei cadetti centroeuropei, principalmente austriaci, i quali, esclusi dall’eredità e dal matrimonio, trovavano nel lavoro salariato in miniera una valida alternativa all’unica possibilità che veniva loro riservata, cioè quella di diventare dei servi di campagna (Viazzo, 2001: 205). Il fatto che il minatore venisse pagato a salario era inoltre un incentivo a intraprendere questa professione, poiché garantiva una disponibilità economica di liquidi che l’attività agropastorale e contadina non poteva garantire, soprattutto laddove si fosse sottoposti all’autorità di un capofamiglia o di un estraneo come nel caso dei servi. Il lavoro in miniera consentiva dunque l’emancipazione personale da queste forme di sudditanza, anche in virtù del fatto che i minatori avevano il diritto a sposarsi, a differenza dei cadetti non emancipati (cfr. Mitterauer, 1974).
Sempre in riferimento a questo caso particolare, ma l’esempio è estendibile anche all’intero arco alpino, i minatori godevano, sin dal Medioevo, di particolari privilegi rispetto alla popolazione locale. Per esempio, dal più antico statuto minerario finora scoperto, la Carta facti et regionum episcopi ab illis qui utuntur arzenterie del 1185, contenuta nel «Codex Wangianus», in cui si fa esplicito riferimento alla composizione di maestranze presenti sul monte Calisio, in provincia di Trento, provenienti dalla Baviera, dalla Boemia, dalla Sassonia e dal Tirolo, si legge che le miniere erano considerate “distretti di pace”. Ciò significa che esse godevano di immunità giurisdizionale localmente delimitata. Tale provvedimento valeva nelle miniere ma anche negli edifici appartenenti ad esse, nelle discariche, nelle fonderie, nei sentieri del trasporto del minerale e nei tragitti che i lavoratori percorrevano per andare e tornare dal lavoro. In questi luoghi i minatori godevano di libertà, cioè erano protetti dall’arresto da parte dell’autorità giudiziaria, a meno che non si trattasse di delitti gravi.
Questi aspetti sono oggetti di studio soprattutto dei cosiddetti «post development studies» che hanno recentemente concentrato l’attenzione sugli enclave space, ossia sulle zone separate dal corpo territoriale degli Stati e che godono di una regolamentazione separata. Le enclave estrattive sono forse i siti pionieristici che hanno evidenziato questioni che altrove (e per enclave di diversa natura come le riserve naturali o indigene, le micromunicipalità fortificate o i campi di detenzione), sono evidenti solo da epoche molto più recenti.
Sidaway (2007) afferma che, all’interno delle enclave, si producono conflitti “straordinari” che sono diretta conseguenza della formazione di soggettività diverse, vecchie e nuove, e dove le soggettività nuove sono, a loro volta, conseguenza dell’industrializzazione di un determinato settore produttivo. Sottolinea Sidaway come le nuove soggettività richiedano spesso anche la definizione di nuovi statuti di appartenenza e nuove regole per l’esercizio dei diritti.
Conclusioni
Esistono numerose descrizioni e testimonianze di scontri e tensioni tra lavoratori e dirigenti di multinazionali minerarie (cfr. film documentario Harlan County, USA, 1976), relative soprattutto alle condizioni di lavoro e al mancato riconoscimento o indennizzo di malattie professionali o incidenti. Un’originale interpretazione sulle corporazioni è stata data da Dirlik:
«Corporations as agents of globalization internalise the contradictions that are implicit in the incorporation of different cultural situation with their own productive procedures» (Dirlik, 2001: 26)
Per tentare di contenere la proliferazionedi contraddizioni determinate dalla produzione mineraria multinazionale, che ha causato in tutto il mondo, e soprattutto negli ultimi due decenni, l’incrementarsi di scontri tra lavoratori e aziende multinazionali oppure tra diverse corporazioni economico-culturali, è stata istituzionalizzata l’World Mining Directory, che oltre ad essere un primo tentativo di incontro tra corporazioni e stakeholders, è soprattutto una direzione di controllo globale delle compagnie minerarie. Un rapido esame del World Mining Directory mostra importanti varianti strutturali nell’organizzazione delle corporazioni, le quali dipendono soprattutto, oltre che da un’organizzazione multinazionale, dal management della corporazione e dall’élite politica nazionale. Come sottolineano Ballard e Banks:
«Globalization marks a useful point of departure for discussion of the role of the State in mining (that is) a pivotal institution. This holds particularly true in the case of mining because governments tend to play an exceptionally large role in the resources sector of almost all developing countries for a number of reason» (Ballard, Banks, 2003: 294).
In prima istanza gli Stati nazionali, in cui nel loro territorio vi è un’importante attività estrattiva, regolamentano l’entrata, nel proprio Paese, delle multinazionali minerarie, nonostante la World Bank e l’International Monetary Fund abbiamo incoraggiato, dal 1980, normative a favore di investigazioni scientifiche straniere con lo scopo di implementare l’attività estrattiva. Il controllo dei regimi fiscali da parte degli Stati nazionali nel settore minerario provoca, in determinati Paesi, una riduzione degli standard di sicurezza nel lavoro e la mancanza di piani di tutela ambientale. Questo aspetto sembra essere inversamente proporzionale al controllo e alla presenza delle multinazionali estrattive all’interno del territorio nazionale. In questi gap si inseriscono dunque le ONG al fine di promuovere progetti di salvaguardia ambientale e a favore dei diritti umani.
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
Riferimenti bibliografici
H. Appel, Offshore work: oil, modularity and the how of capitalism in Equatorial Guinea, in American Ethnologist, 2012.
L. Armano, Le leggende di miniera: una proposta di analisi, in G. Sanga, P. P. Viazzo, a cura di, La cultura dei minatori delle Alpi, in La Ricerca Folklorica, 71, 2016.
C. Ballard, G. Banks, Resource Wars: The Anthropoloy of Mining, in Annual Review of Anthropoloy, 2003
L. d’Angelo, Diamanti e sviluppo Un’analisi critica degli stereotipi sui minatori della Sierra Leone, in Anuac, Vol.II, 2013.
A. Dirlik, Places and Politics in an Age of Globalization, 2011.
R. Godoy, Mining: anthropologicalperspectives, in Annual Review of Anthropoloy, 1985.
B. Knapp, C. Pigott, Social approaches to an industrial past. The Archaeology and Anthropoloy of mining, 1997.
Tsing, The Global Situation, 2000.
G. Weisgerber e E. Pernicka,Ore Mining in Prehistoric Europe: An Overview, 1995
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali.
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