di Roberta Conigliaro
Anni fa un amico mi parlò della poetessa Antonia Pozzi, dicendomi quanto amasse i suoi versi. Era la prima volta che sentivo parlare di lei e presto scoprii che non ero la sola, che molti non la conoscevano, soprattutto nel sud Italia. Incuriosita andai a leggere alcune sue poesie. Mi colpirono subito ed in qualche modo mi ricordarono Emily Dickinson, poetessa che ho sempre molto amato e che è stata l’artefice del mio avvicinamento al mondo della poesia. Decisi di lavorare ad un progetto espositivo dedicato alla sue poesie. Ma prima di entrare nel merito, vorrei fare qualche accenno alla sua biografia.
Antonia Pozzi nasce a Milano nel 1912 da una famiglia colta, il padre un noto avvocato e la madre di nobili origini. Compie gli studi al liceo classico Manzoni e poi si iscrive all’università Statale di Milano dove si laurea in Lettere e Filosofia. Studia il tedesco, il francese e l’inglese; viaggia in Italia, Inghilterra, Francia, Germania, Austria, Grecia e nella costa mediterranea dell’Africa. Proprio al continente africano dedica una poesia dal titolo Africa: «Terra, / sei di chi affonda / nella sabbia le mani». Frequenta gli ambienti culturalmente più vivaci della Milano degli anni Venti e Trenta del Novecento e tra le sue amicizie si possono citare Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio.
Inizia a scrivere le prime poesie già durante l’adolescenza ma non le pubblicò mai forse per una sorta di pudore. È il padre, in seguito alla sua morte che le fa pubblicare, riscrivendole in parte, applicando quindi una sorta di censura: le poesie originali sono arrivate a noi grazie al prezioso lavoro di ricerca e quindi di recupero effettuato da Onorina Dino. È anche una talentuosa fotografa e un’appassionata scalatrice. Ama andare nella sua casa di Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, in provincia di Lecco, dove si dedica a fare lunghe passeggiate e scalate, una sorta di luogo dell’anima che ritorna in molti suoi versi e in cui al giorno d’oggi si trova la sua casa museo. Un’anima intelligente, appassionata e sensibile, e forse proprio per questo fragile, segnata da alcune delusioni amorose soprattutto quella nei riguardi del professor Cervi, relazione che fu ostacolata in tutti i modi dal padre e che forse lei non dimenticò mai.
Dopo l’università comincia ad insegnare e a progettare l’idea di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla fine dell’Ottocento ma poi tutto si interrompe con il suo suicidio avvenuto alla sola età di 26 anni. Una storia breve la sua, che però ha lasciato molto materiale se paragonato alla sua giovane età: di lei sono rimaste trecento poesie più i diari e le lettere, oltre alle fotografie. Un’opera importante per conoscerla ed avvicinarsi a lei anche se ancora rimane sconosciuta a molti, pur essendo da alcuni considerata come una delle voci femminili più interessanti della poesia del Novecento Italiano.
Ritornando alla genesi del mio progetto, come dicevo all’inizio, in seguito alla lettura delle sue poesie, mi venne l’idea di fare una mostra in cui le sculture fossero ispirate ai suoi versi. Dopo aver letto la sua biografia, i diari e le lettere, scelsi tra le sue poesie quelle che maggiormente potessero essere rappresentate o quantomeno quelle che mi evocavano delle immagini su cui potessi lavorare. Il risultato fu una mostra dal titolo Un’esile scìa di silenzio che fu organizzata a fine 2013 a Milano, presso l’antico Oratorio della Passione di Sant’Ambrogio, uno spazio antico e suggestivo dove ciascuna opera venne affiancata dai versi a cui era ispirata. Il titolo nasce da una sua poesia intitolata Novembre in cui Antonia scrive «E poi – se accadrà che io me ne vada – / resterà qualche cosa di me / nel mio mondo/ resterà un’esile scìa di silenzio/in mezzo alle voci/un tenue fiato di bianco/ in cuore all’azzurro…».
Sono versi che sembrano quasi un testamento eppure Antonia li scrisse quando era ancora diciottenne. Ho scelto questo titolo pensando che le poesie che ci ha lasciato sono in fondo la sua eredità, la sua “lettera al mondo” per citare la Dickinson. E questa eredità volevo celebrarla plasmando delle opere che entrassero in dialogo con i suoi versi. Quello di abbinare alcuni testi alle mie sculture non è per me una cosa nuova. In passato mi era capitato di scegliere dei versi che si potessero accostare ad opere già create, o in altri casi di scrivere io stessa delle poesie. Nel caso della mostra su Antonia Pozzi invece, sono state le sue poesie ad ispirare le opere, un qualcosa di nuovo per me ma stimolante.
Ho lasciato che i versi mi indicassero la via, a volte in maniera più didascalica, altre in modo più evocativo. Lo stesso è avvenuto nella scelta dei titoli delle opere: a seconda dei casi ho scelto di lasciare lo stesso titolo della poesia oppure di cambiarlo con un altro che comunque fosse legato alla poesia stessa. Ad esempio, nella poesia Luce bianca, nella quale la Pozzi racconta di un piccolo cimitero di paese, ad un certo punto scrive: «Nel piccolo cimitero / le pietre / volte all’Oriente / come in un riso / bianco / parevano visi di ciechi / che allineati marciassero / incontro al sole». Da quest’immagine ho creato tre piccoli busti in pietra leccese bianca con gli occhi chiusi e ho intitolato l’opera I testimoni, perché ho pensato che le anime dei nostri cari che rimangono presenti tramite i ricordi, in qualche modo sono accanto a noi e quindi sono testimoni delle nostre vite.
Il tema della morte o comunque della linea tra la vita terrena e l’aldilà è molto presente nelle sue poesie e nei suoi scritti. In alcuni passaggi del suo diario racconta di avere percepito accanto a sé la presenza di un angelo. Il 10 settembre 1937 scrive: «questa storia dell’angelo è strana, ma è vera. Io non so come sia fatto, ma già due volte ho avuto la sensazione fisica di averlo vicino. […] Forse tutti quelli che hanno molto sofferto e sono un po’ deboli e malati, a un certo punto cominciano a sentire gli angeli». Queste righe hanno ispirato la mia scultura in pietra saponaria bianca dal titolo L’angelo, in cui è rappresentata una figura femminile seduta appoggiata ad una grande ala.
Ma non è solo il tema della morte ad essere presente nei suoi testi. Molte sono anche le poesie d’amore. Tra queste Ricongiungimento in cui ad un certo punto la Pozzi scrive «Ma per me la terra /è soltanto la zolla che calpesto / e l’altra /che calpesti tu: / il resto / è aria / in cui – zattere sciolte –navighiamo / a incontrarci». Da quest’ispirazione è nata l’opera Il resto è aria in pietra saponaria verde.
Alla fine di questo lavoro, ho realizzato 15 sculture, sia in terracotta sia in pietra, oltre ad una in rete metallica, una sorta di installazione. Certamente ho operato una forte selezione e sicuramente assolutamente soggettiva, guidata dal mio gusto e da ciò che pensavo di poter rendere in maniera plastica. Con la scultura, a differenza della pittura che permette una maggiore possibilità descrittiva, si tende ad una maggiore sintesi, una sorta di immagine o di emozione condensata, tradotta nel linguaggio scultoreo, quindi la scelta è stata guidata dalle forme che in qualche modo si creavano nella mia mente durante la lettura dei versi.
Questo abbinamento tra scultura e parola, come dicevo precedentemente, non è nuovo per me. Ma devo dire che non è stato qualcosa di ragionato, deciso a priori, è stato più un qualcosa di istintivo. Nel tempo mi sono resa conto che, a volte, parto dalla forma e arrivo alla parola, altre volte il processo può essere l’opposto. Anche durante la creazione di una scultura mi è capitato ultimamente che mi venissero in mente dei versi, proprio mentre scolpivo. Nonostante per me la scultura sia fatta di silenzio e crei silenzio nello spazio intorno a sé, a volte però la parola e soprattutto i versi poetici possono accompagnarla, rafforzandone il significato o suggerendo delle assonanze che dialogano con la scultura stessa.
Nel caso in cui ho scritto io stessa delle poesie, come per il progetto sul Mediterraneo e le migrazioni “Due sponde un solo mare”, le poesie a volte erano suggerite da un’opera specifica, altre volte invece raccontavano qualcosa riguardo al tema, ma senza essere per forza legate ad una scultura specifica. Il risultato di questo abbinamento durante l’esposizione crea una sorta di racconto, una sorta di viaggio emozionale, in cui la forma e la parola hanno entrambe una funzione simbolica ed evocativa che permette all’osservatore di entrare meglio nell’intenzione che ha guidato l’artista o quantomeno questa è l’idea.
Così è stato anche per il progetto sulla Pozzi. Nella mostra a Milano le opere e le poesie entravano in relazione tra di loro in un gioco continuo di rimando dalla parola alla forma e dalla forma per ritornare alla parola, tutto questo in uno spazio antico come l’oratorio della passione di Sant’Ambrogio che, non essendo uno spazio neutro ma al contrario denso di significato, contribuiva alla suggestione.
Da quando è terminata l’esposizione, in questi anni mi capita di rileggere le poesie della Pozzi e mi rendo conto che ci sarebbe ancora tanto materiale a cui potersi ispirare e che quel che ho fatto è stato come uno schizzo di un disegno ben più ampio da terminare.
Per concludere vi lascio con i versi che Antonia ha dedicato al continente africano dopo uno dei suoi viaggi.
Africa
sei di chi affonda
nella sabbia le mani,
in un’esigua conca
pianta un ulivo.
Non hai strade: misuri
il tempo del cammino
con la distanza dei pozzi,
cippi sono
le bianche tombe dei tuoi santi
nel deserto.
Non hai baratri: proteso
è il tuo colore biondo
senza confini.
Abbeverate di cammelli chiamano
lembi di cielo
sul tuo volto scoperto.
Cielo
che dilati le stelle,
vento – che imbianchi
d’eucalipti le sere,
o terra
cielo vento –
libertà
di sogni.
(Antonia Pozzi)
Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018
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