di Carmen Bilotta
La morte è per antonomasia la metafora del confine, del “limite” raggiungibile solo nel momento in cui non siamo più e ci troviamo perciò impossibilitati a raccontarlo. Come ebbe modo di evidenziare Martin Heidegger nel secolo scorso, la morte è l’unica esperienza della vita che coinvolge ineluttabilmente tutti ma che tutti possono conoscere solo attraverso l’esperienza degli altri. Gli altri, infatti, potranno dire e raccontare di noi che non siamo più e rendere conto del modo in cui hanno percepito la nostra realtà e contestualmente di come hanno percepito se stessi attraverso noi.
Ogni civiltà ha lasciato tracce e testimonianze relative alla pratica di seppellire i defunti e ai rituali che l’accompagnano. Nelle società occidentali contemporanee la sepoltura e il rituale funebre si sono via via semplificati e impoveriti rispetto al passato e, allo stesso tempo, hanno perso quei significati simbolici che avevano rivestito nel passato.
L’elaborazione del lutto, in particolare, rappresenta certamente uno tra i momenti più importanti e per questo maggiormente codificati del vivere sociale. Tuttavia, sebbene siamo tutti consapevoli del significato che a livello personale assume la perdita di una persona cara, spesso ai più sfugge come le esequie siano un fatto eminentemente sociale prima ancora che individuale. La morte, infatti, implica anche una rottura nello status sociale, una sorta di passaggio da un piano ontologico all’altro, da una condizione all’altra. Con la morte, atto personale e sociale insieme, ci troviamo improvvisamente di fronte a quello che in antropologia è definito rito di passaggio, il quale decreta l’assegnazione della nostra ultima denominazione: il fu.
L’antropologia ha cercato di definire i momenti legati all’origine e alla formazione delle credenze e degli atteggiamenti relativi alla morte. Secondo Edward Burnett Tylor, uno dei primi studiosi dei momenti culturali e comportamentali legati alla morte, la cultura relativa ad essa non sarebbe stata semplicemente acquisita ma, invece, appresa attraverso un lungo apprendistato. Le popolazioni “primitive” avevano attribuito poteri soprannaturali alle forze trascendenti che pervadevano l’animo dell’uomo, da esso separabili solo in determinati momenti dell’esistenza come appunto la morte. Gli studi di Arnold Van Gennep illustrano una distinzione tra i diversi ruoli sociali che venivano riscoperti davanti alla morte. Posizioni analizzate attraverso una ripartizione in tre diversi stadi. Ci riferiamo, nello specifico, alla teoria dei riti di passaggio secondo cui i riti di separazione e aggregazione attraversano tutta la vita umana, dalla nascita alla morte e comportano il passaggio attraverso una serie di condizioni liminari che segnano il confine da uno stato esistenziale ad un altro, cioè da una condizione di separazione ad una di aggregazione. Diversi status, dunque, dove anche il morire è contrassegnato da una sequenza di riconoscimenti di stato. La condizione di morente, infatti, rappresenta un periodo liminare che il soggetto deve attraversare prima di entrare in una diversa comunità, quale è quella dei defunti. L’insieme dei non viventi è parimenti soggetta a differenti simbologie culturali e interpretative oltre che a ritualità differenti rispetto a quelle dei viventi.
La morte è anche un atto biologico nel corso del quale il cadavere subisce una metamorfosi che permette il suo transito dalla dimensione corporea a quella minerale che lo riconduce alla condizione di “materia” in un processo che può essere “alterato” casualmente o intenzionalmente dalla natura e dalla cultura, dando luogo a pratiche rituali e culturali di ricodifica simbolica della nostra essenza terrena, anch’esse differenti da società a società in relazione alla percezione che ciascuna di essa possiede rispetto alla dialettica tra vita e morte e tra la morte e ciò che si suppone ad essa faccia seguito.
L’antropologo francese Robert Hertz studiò con particolare interesse le ritualità connesse alla morte e alla sepoltura nel trattamento riservato alle spoglie del defunto. Hertz sostiene che nel caso della morte di un membro di un determinato gruppo sociale, presso alcune culture, venivano utilizzate delle norme rigidamente codificate in grado di garantire il ripristino dell’equilibrio interno al gruppo una volta che questo fosse stato turbato da forze potenzialmente destrutturanti scatenate dall’evento luttuoso. Nello specifico, sarà la pratica della doppia sepoltura, che egli aveva studiato sulla scorta del materiale etnografico riguardante il popolo Dayak del Borneo, a risultare determinante proprio in funzione di testimonianze del ruolo che questo rito aveva nel consentire il superamento di momenti considerati socialmente pericolosi. Presso quel popolo era usanza sottoporre il corpo del defunto a due cerimonie religiose distinte che avevano luogo ad una determinata distanza di tempo tra loro. In tal modo, si riteneva che l’anima del defunto potesse ricongiungersi in modo pacifico con i propri antenati e non torturare più, attraverso una presenza silenziosa ma ancora ingombrante e invadente, il mondo dei vivi.
Tra il momento della morte e quello della sepoltura si instaura una fase, un periodo, in cui il defunto si trova in uno stato di passaggio cui porrà fine il funerale che sancirà la sua uscita dal mondo dei vivi e la sua nuova appartenenza a quello dei morti in cui potrà essere ricordato e pregato. Finchè il morto si troverà nella condizione liminare tra i due mondi sarà considerato “pericoloso”.
La pratica della sepoltura, nella sua forma elementare, risponde a due scopi solo apparentemente contrastanti: l’allontanamento del cadavere dalla comunità e la sua conservazione o protezione rispetto a chi potrebbe farne scempio (per lo più gli animali). Scopo a cui rispondono sia la cremazione che l’inumazione delle spoglie così come le diverse tipologie di sepoltura che con differenti artifizi “impedirebbero” al morto di tornare tra i vivi e ai vivi di entrare o tornare in contatto con il defunto. Finalità, queste, ampiamente definite nella pratica della cosiddetta doppia sepoltura, studiata e analizzata da Robert Hertz, e di cui si hanno testimonianze anche in relazione ad altre aree geografiche, in società ben diverse da quella dei Dayak. Questo rituale, infatti, è stato per lungo tempo praticato in gran parte del sud-est asiatico, nel Giappone e nel Messico antico, tra gli slavi meridionali e soprattutto in Oceania, dove è ancora presente e tuttora è praticato.
Anche in Italia meridionale, attualmente ancora a Napoli (ma abbiamo notizie, sebbene sporadiche e riferibili al passato, anche per la Valtellina, Novara e Valenza Po) sono a tutt’oggi presenti forme rituali ascrivibili alla pratica della doppia sepoltura, la quale prevede la riesumazione del cadavere dopo un periodo variabile di tempo (sei mesi, un anno, dieci anni o anche più). Per quanto attiene il rito partenopeo della doppia sepoltura, dopo la riesumazione, la bara viene aperta dagli addetti in presenza dei familiari del defunto e si controlla che le ossa siano completamente dissecate. Una volta appurato ciò, lo scheletro è deposto su un tavolo apposito dove è liberato dai brandelli dei vestiti e dagli eventuali residui del processo di decomposizione. I parenti, in questa fase e se lo desiderano, possono dare una mano agli operatori. Successivamente, il cadavere viene lavato con acqua e sapone e “disinfettato” grazie all’ausilio di stracci imbevuti di alcol che la famiglia del defunto ha provveduto a portare con sé unitamente alla naftalina con cui si provvederà a cospargere il cadavere e il lenzuolo destinato ad avvolgerlo, che fungerà da involucro nella sua nuova condizione e che periodicamente si provvederà a sostituire. Una volta ripulito sarà più “agevole” trattare lo scheletro come un oggetto sacro da avviare alla sua nuova casa, generalmente in un luogo lontano dalla prima sepoltura, attraverso un “rito di passaggio” che, in scala minore e ridotta, riprodurrà quello del corteo funebre che all’indomani della dipartita aveva accompagnato il defunto alla tomba.
Secondo Francesco Pezzini, il rituale della doppia sepoltura è da considerarsi in stretta relazione con il cammino dell’anima: da un lato la realtà fisica del cadavere e, dall’altro, la natura immateriale dell’anima. Questo giustificherebbe la necessità di una salma scheletrizzata asciutta e ripulita delle carni. Solo attraverso la metamorfosi del cadavere, infatti, grazie alla quale il potere contaminante della morte, rappresentato dalle parti molli del cadavere in disfacimento, si sarà risolta nella completa liberazione delle ossa, simbolo di purezza, durata ed eternità, allora l’anima potrà dirsi definitivamente approdata nell’aldilà. A questo punto, il cadavere da morto pericoloso e potenzialmente contaminante i vivi potrà dirsi tramutato nel “caro estinto”, anima finalmente pacificata da ricordare attraverso e nelle preghiere.
La riesumazione e la ricognizione delle ossa rappresentano la fase finale, conclusiva, del lungo periodo di transizione del defunto: l’esito, come abbiamo appurato, non è certamente scontato e l’atmosfera, descritta dagli informatori, sempre carica di tensione e significati angoscianti. Infatti, è in base allo stato in cui si presenteranno i resti del defunto che si stabilirà se egli è diventato un’anima che ha trovato spazio accanto ai santi e nella cui intercessione si potrà eventualmente contare e confidare. Al contrario, dei defunti che, riesumati, presentassero ancora ampie porzioni di tessuti molli o ossa nette si dovrà rimandare il rito di aggregazione al regno dei morti e presumere che si tratti di “male morti”, anime che vagano ancora inquiete tra i vivi e nella cui liberazione si può sperare reiterando la pratica rituale che ne sancisca e accompagni il transito.
Verosimilmente, proprio la riesumazione dei resti e la loro definitiva collocazione rappresentano metaforicamente il cammino che compie l’anima prima di potersi dire approdata definitivamente nell’aldilà. Attraverso il rito della doppia sepoltura comprendiamo che la morte, in alcune aree geografiche, non è percepita come fine ultima dell’esistenza; piuttosto, essa è assunta come una sorta di “rottura” che segna l’inizio del passaggio da una categoria all’altra: la realtà fisica del cadavere si fa, dunque, specchio dell’anima. Durante questa fase di passaggio tra i vivi e i morti si stabiliscono altresì delle forti relazioni. Un rito di passaggio questo che culmina e può definirsi concluso con la seconda sepoltura, la sola a sancire l’accreditamento definitivo del defunto nell’aldilà e il suo mutamento di status con l’assegnazione della nuova condizione. Cogliamo il senso ultimo di questo rituale attraverso le parole di Robert Hertz, il quale sostiene il triplice scopo di questa pratica che, se da un lato deve attribuire ai resti del defunto una sepoltura definitiva, dall’altro deve assicurare all’anima il riposo e l’accesso al regno dei morti, attraverso cui si libereranno contestualmente i vivi dall’obbligo del lutto.
Secondo Marino Niola (2003) dalle rappresentazioni collettive della morte e dalle forme sociali del cordoglio trapela la relazione tra doppie esequie e credenze popolari relative al Purgatorio: il tempo della purificazione purgatoriale avrebbe, in altre parole, una precisa significazione anatomica, dunque, lo scopo di congedare l’anima del morto, di accompagnare il suo cammino verso la dimora eterna, di trascenderne la fisicità in memoria. Ciò consentirebbe la trasformazione del pericoloso morto in benefico caro estinto. Le doppie esequie (così come pure la pratica della mummificazione, iniziata dai Cappuccini in Sicilia, con graduale estensione ad altre comunità) è, infine, il prodotto di una concezione della morte che aveva e tuttora ha l’obiettivo di risolvere il momento incerto del mutamento, di quella fase liminale in cui il corpo del defunto subisce quella trasformazione irreversibile tanto temuta dai vivi. Solo una volta privato della parte putrescibile, il defunto potrà dirsi “stabilizzato” e definitivamente “neutralizzato”.
Qualsiasi riflessione intorno alle forme rituali connesse alla morte e alla sepoltura non può ignorare né il ruolo esercitato dall’acqua come elemento purificatore né tantomeno il concetto di morte-rinascita che è proprio dei riti di iniziazione. Si tratta, infatti, di concetti simbolici molto forti che si rincorrono in molte culture (non solo la giudeo-cristiana, ma anche le paleoorientali, asiatiche e oceaniche), amplificando in uno scambio continuo e virtuoso i loro effetti. L’acqua, elemento creatore da una parte, è dall’altra contestualmente in grado di dissolvere, annullare ed abolire qualsiasi forma di vita: dunque, è certamente anche capace di uccidere. Nell’uomo, è in particolare il mare ad esercitare da sempre una forte attrattiva, un incredibile potere suggestivo ed è sempre il mare a suscitare in lui il pensiero della morte. In quest’ottica, perciò, anche il viaggio che i migranti compiono attraverso il mare, con il rischio connesso alla morte, ci consente di intravedere nel passaggio da una sponda all’altra la dimensione del rito di iniziazione. Per molti giovani che attraversano il mare, infatti, esso è vissuto come una tappa fondamentale del loro processo di crescita, necessaria per poter entrare a far parte del mondo degli adulti. Processi migratori come riti di passaggio, dunque, che per i giovani che li intraprendono assumono anche il significato dell’acquisizione di una propria autonomia e di un nuovo status, cui si riconnette la possibilità di assolvere i propri obblighi rispetto alla famiglia di origine, per la quale avere un figlio migrante è anche fonte di soddisfazione.
A questo proposito non è da sottovalutare un altro aspetto: infatti, la vita che attende questi giovani uomini dall’altra parte del mare è, almeno nel loro immaginario, una vita migliore di quella che lasciano; la nuova condizione che li attende è da considerarsi perciò una sorta di “rinascita”, dal momento che dovrebbe consentire loro di risolvere annosi problemi. A rendere possibile questa “rinascita” è appunto il viaggio attraverso il mare, viaggio che è anche un “passaggio”, metafora di cui appunto si serve, si nutre e di cui è strutturato il rito di iniziazione. Un passaggio, tuttavia, non scevro da rischi, in verità ricco di insidie, in cui si rischia perfino la morte, non solo quella simbolica, metaforica e sublimata dai riti, ma soprattutto la morte vera, reale, che se non riguarda direttamente noi, può, forse, coinvolgere i nostri compagni di viaggio.
Non è certamente raro, e la cronaca lo testimonia di frequente, come soprattutto il viaggio attraverso il Mediterraneo rappresenti per i migranti la prima forma di esperienza e di incontro con la morte, morte che, come precisato pocanzi, se anche non riguardasse in prima persona un determinato individuo, potrebbe comunque colpire uno qualsiasi dei suoi compagni di viaggio (o più di uno nel caso dei naufragi), qualcuno con cui, seduti uno accanto all’altro, fino a pochi istanti prima avevamo condiviso la medesima condizione esistenziale (quella del migrante, appunto) e che improvvisamente “non è più”. In questi casi, l’immedesimazione nel compagno morto è quasi del tutto scontata: la morte dell’altro da noi, infatti, consente a noi stessi di esperire la morte nel senso più esteso e completo del termine: la si incontra improvvisamente, la si vede con i propri occhi e la si tocca con mano, proprio per via di coloro che durante il viaggio cessano di essere, non ce la fanno e muoiono di stenti, di fame o a causa di un naufragio. Inoltre, in molti casi, chi muore durante il viaggio non viene tradotto a riva, ma è abbandonato in mare e il suo corpo non sarà più recuperato anche per evitare ulteriori pericoli.
La morte dell’altro, dunque, è un’esperienza totale e totalizzante che conduce il migrante sopravvissuto in una condizione altra, nuova e il mutamento in questo senso è a tutti gli effetti antropologico. Sembrano mutare perfino le sembianze, i tratti antropomorfi nei volti dei sopravvissuti. Si verifica, cioè, un vero e proprio passaggio da un piano ontologico all’altro, da un prima a un dopo, da una condizione ad un’altra.
Tante volte abbiamo descritto il Mediterraneo come un mare rosso di sangue in virtù delle numerose battaglie che in esso sono state combattute nel corso della storia. Ebbene, non possiamo ignorare come esso sia ancora tale dal momento in cui continua ad alimentarsi dei corpi senza vita e, sempre più spesso, senza nome, di donne, uomini e bambini che quotidianamente provano ad attraversarlo nella speranza di riuscire a raggiungere l’Europa. Forme di umanità invisibile, anonima, poiché quasi mai se ne conosce il nome, l’identità e la reale provenienza, umanità destinata a giacere per sempre sul fondo di questo mare, il quale, se si riuscisse a prosciugare dalle acque, chissà quanti corpi sfigurati dalle correnti restituirebbe. Ecco perciò che “essere sulla stessa barca” per i migranti cessa di essere solo un modo di dire, una metafora, accomunati come sono dalla medesima esperienza e in qualche misura figli di uno stesso destino.
Nei primi anni ’90 del secolo scorso, ai tempi dei primi sbarchi sulle coste italiane, le salme di coloro che non erano sopravvissuti alla traversata erano condotte a Lampedusa dalla guardia costiera o, molto più spesso, dai pescatori, il cui destino si intreccia, e da tempo immemore, a quello dei migranti, ripescati in mare vivi e non. Nell’isola queste erano seppellite nel piccolo cimitero dove il custode provvedeva a scavare le fosse e a costruire croci, così da offrire e garantire loro una sepoltura che fosse degna. Tuttavia, quasi mai, era (come è del resto ancora oggi) possibile l’identificazione di esse e così pure la loro reale appartenenza religiosa. Questo ci porta a concludere che per tutti gli immigrati giunti in Italia senza vita, la morte è senza ombra di dubbio una condanna all’anonimato; la maggior parte di essi avrà solo una lapide con un numero o una lettera e una data, quella della tragedia che li ha uccisi. A questi sono da aggiungersi i dispersi e gli scomparsi del tutto tra i flutti, durante i naufragi, occultati all’esistenza dalla furia del mare, morti destinati a rimanere senza un nome, e nemmeno un numero, senza una tomba, né fiori o funerali, forse, solo una liturgia; uomini strappati improvvisamente all’esistenza e, infine, cancellati come se mai avessero attraversato questa terra, dal momento che quasi certamente non saranno mai identificati. E se pure qualche brandello dei loro corpi straziati e dilaniati dovesse rimanere impigliato nelle reti dei pescatori, si procederà semplicemente ad aggiungere una cifra in più al numero delle vittime del mare finora accertate. Dopo settimane di cammino l’ultima frontiera del viatico per questa parte meno fortunata di umanità rimarrà appunto il mare.
Dialoghi Mediterranei, n16, novembre 2015
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Carmen Bilotta, dottore di ricerca in Metodologie della ricerca etno-antropologica, è una antropologa culturale che collabora con l’Università di Cagliari. Attualmente svolge attività di consulenza nel campo delle scienze sociali e umanistiche presso Istituti di ricerca e formazione pubblici e privati. Redattrice per conto della Rivista mediterraneaonline.eu, mensile di cultura mediterranea, è autrice di diversi saggi apparsi in opere collettanee e su riviste specializzate.
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