per non ricominciare
di Luigi M. Lombardi Satriani
Il rapporto tra questi due termini può essere declinato in maniera molto diversa, a seconda che lo si faccia nella prospettiva della realtà o in quella, peraltro un po’ astratta e ideologica, del dover essere. Su intellettuali e potere esiste, com’è noto, un’amplissima letteratura specifica, sulla quale non mi soffermo; anche l’antropologia ha dato dei contributi notevoli a questa tematica, sia quando si è occupata specificamente delle varie articolazioni del potere, sia quando si è limitata a occuparsi della governance, espressione quest’ultima, che non ho mai troppo apprezzata, in quanto la ritengo troppo legata alle mode culturali, con conseguente rischio di banalizzazione.
Che l’intellettuale sia legato sempre al potere, dimostrandosi a esso sodale, se non subalterno, è vecchio discorso, sia che si declina nella Atene di Pericle, sia che sviluppi la sua carica di attrazione nell’antica Roma, nel Rinascimento o in epoche a noi molto più vicine. La figura di Cortigiano, dell’intellettuale subalterno al potere, anzi, ansioso di mettersi al suo servizio, campeggia nella riflessione di Machiavelli che ci offre considerazioni ancora oggi estremamente attuali. Gramsci ha ben individuato la vocazione dell’intellettuale italiano a considerarsi omogeneo più ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino meridionale e penso che ancora oggi una rilettura critica di Gramsci possa offrire chiavi interpretative della nostra realtà contemporanea.
Naturalmente sto assumendo il termine intellettuale come se fosse un’unica realtà omogenea; a dire il vero esso indica una varietà di figure che occorrerebbe nettamente distinguere. Già in anni lontani Mariano Meligrana e io, riflettendo sul diritto egemone e il diritto popolare, avevamo ritenuto opportuno distinguere, tra le variegate tipologie del termine, quella di “intellettuale marginale” o “periferico”, che ripetono la loro marginalità dalla marginalità storica delle aree nelle quali operano. Scrivevamo che il processo di meridionalizzazione della cultura, si realizzò anche inglobando i circuiti periferici, che, definiti sia dall’“esterno” che dall’“interno”, venivano tuttavia vissuti dagli intellettuali periferici con le proprie specifiche modalità e secondo la propria scala di valori.
L’impatto che si verifica anche a livello culturale con l’Unità d’Italia – ma il discorso potrebbe essere ugualmente riferito all’instaurazione della dittatura fascista –, sconvolgendo dall’esterno gli equilibri tradizionali, provoca negli intellettuali periferici una disgregazione complementare alla pressione esercitata sulle realtà locali dalla cultura invadente dall’esterno. La meridionalizzazione della cultura italiana poté compiersi solo nella misura in cui riuscì a mettere in moto gli intellettuali periferici, che divennero, spesso involontariamente strumenti di un’operazione più ampia e più complessa. L’operazione di salvataggio che gli intellettuali periferici tentano di compiere, il cui senso è pienamente comprensibile proprio in termini storici, risulta funzionale proprio a quel processo di destorificazione del Sud che la classe dirigente attua. L’aristocrazia in declino che tenta di fissare attraverso la memoria la propria identità-diversità nel mondo contadino finisce col contribuire drammaticamente alla propria scomparsa storica.
Esigenze che si pongono, si organizzano e si sviluppano su piani diversi e secondo ottiche diverse finiscono per convergere oggettivamente in un unico processo, il cui esito, che trascende le ottiche periferiche e malgrado esse, è fissato anche in termini di funzionalità politica, dalle forze sociali dominanti. I detentori del potere politico possono così gestire, attraverso la mediazione concettuale degli ideologi nazionali, anche quelle ricerche e quelle indagini demologico-giuridiche che, in una relativa “indipendenza” e comunque per sollecitazione “autonoma”, o in ogni caso avvertita in maniera nettamente differenziata, andavano realizzando i folkloristi regionali, spesso, e significativamente, esponenti dell’aristocrazia agraria.
Eppure si tratta di intellettuali del mondo contadino, che, sconfitti storicamente, presentano il senso di una disgregazione, ma testimoniano anche una cultura nella sua concatenazione organica, nelle sue ambiguità, nelle sue valenze contraddittorie, una cultura che vive attraverso la produzione dei suoi protagonisti, il folklore, appunto. L’interpretazione di essa viene tentata – pur se dal proprio punto di vista e, a volte, attraverso le deformazioni delle proprie impalcature ideologiche – dai folkloristi che, per questo verso, possono ritenersi testimoni e interpreti di una cultura contadina che, tranne qualche rarissima eccezione, non ha prodotto, come ha ben visto Gramsci, propri intellettuali, cioè intellettuali organici ad essa. «[…] la massa, quantunque svolga una funzione essenziale nel mondo della ‘produzione’, non elabora propri intellettuali ‘organici’ e non ‘assimila’ nessun ceto di intellettuali ‘tradizionali’ quantunque dalla massa dei contadini altri gruppi sociali tolgano molti dei loro intellettuali e gran parte degli intellettuali tradizionali siano di origine contadina» [1].
Lo stesso filo del discorso che vede intrecciati potere come cultura dominante e folklore o cultura contadina, è ripercorribile anche nel contesto dei festeggiamenti per il Cinquantenario d’Italia, quando intellettuali e potere politico decisero di portare in Mostra la cultura tradizionale che andava scomparendo. Nei carteggi dell’Archivio Loria, in cui quelle dinamiche si possono ripercorrere, si trovano documenti insoliti, come nel caso di Filippo Graziani, di cui tratta Francesca Dimpflmeier [2]; nella vicenda legata al recupero, molto sofferto, di un “centimolo”, da parte di Graziani (nato nel 1878 in una famiglia di ricchi armentari con possedimenti agrari in Terra di Lavoro, nell’Abruzzo Marsicano e in Capitanata), fu impegnato anche il suo «guardiano a Foggia», Giovanni Di Vito. «Nel carteggio c’è proprio una lettera scritta da lui a Filippo Graziani, molto interessante per lo stile sgrammaticato e un po’ ingenuo, agli antipodi rispetto allo stile di tutte le lettere dei carteggi. Si può pensare il sig. Giovanni come un rappresentante vivo della cultura contadina di cui Loria e i suoi maneggiano gli oggetti d’uso in quei mesi, il quale irrompe sulla scena quasi per non farci perdere di vista i veri protagonisti al centro dell’evento-mostra di cui loro costituivano, diciamo, la materia prima, e che Loria – studioso non alla ricerca di “gloria” ma ispirato da “nobili sentimenti” [3]– voleva portare nella Storia, preoccupato, a ragione, dall’avanzare per certi versi inquietante della modernità:
preggiatissimo Sigr. Filippo tutto estato compinato per il centimetro vie una quistione tra di loro sto a spettante che vencano asso darsi perche miestato promesso chemelo danno ma io sto facendo prattica per averneunaltro vi preco sepoteto aspettare mio avviso quanto e tutto completato e allora andiamo pure a Troiaper assodare quell’altro affare che Lei sa che io ciò avuto buona notizia tanti saluti e sono di Lei umilissimo servo Di Vito Giovanni» [4].
Penso poi all’indignazione di Ernesto de Martino, in una pagina celeberrima, nel ritrovarsi intellettuale piccolo-borghese che ha consentito che esseri umani a lui simili vivessero nelle tane immonde della Ràbata tricaricense. Si pensi anche alla figura di intellettuale scandaloso, con i suoi scritti e con la sua stessa esistenza, di Pier Paolo Pasolini. Spesso l’intellettuale, con la sua carica rivoluzionaria di verità si è presentato come visionario, veggente, folle (l’esperienza di Friedrich Nietzsche ne è un tragico segno).
Ritengo infine che la proposta che allora avanzammo di individuare la figura dell’intellettuale periferico nella variegata tipologia di questa categoria, possa avere validità ancora oggi, in epoca di generiche fughe in avanti o di non meno generiche nostalgie di un passato più o meno inventato. Ben venga, dunque, l’iniziativa di una riflessione critica su queste realtà, sia quanto mai opportuno; il dopo pandemia non ci troverà migliori di come eravamo come se il lockdown avesse operato una sorta di palingenesi, saremo pronti a riprendere la vita, le relazioni sociali, la fitta rete di abitudini nella quale non può che irretirsi la nostra esistenza quotidiana, esattamente come prima, né peggio di prima. L’antropologo non può essere profeta, ma forse può mettere in guardia da generiche aspettative o da illusorie prefigurazioni. In questa prospettiva un’antropologia che ambisca a essere, com’è doveroso, critica, non può che dare il suo essenziale contributo.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Torino, Einaudi, 1949: 4.
[2] La Mostra di etnografia italiana del 1911. La raccolta di Filippo Graziani per la Puglia, in P. De Simonis-F. Dimpflmeier (a cura di), Lamberto Loria e la ragnatela dei suoi significati, numero monografico, «Lares», a. LXXX, n. 1, genn. apr. 2014: 204-222.
[3] AS, fasc. 534, doc. 59
[4] Ivi: 217
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Luigi Maria Lombardi Satriani, è nato a San Costantino di Briatico (Vibo Valentia). È stato professore ordinario di discipline antropologiche nell’Università di Messina, della Calabria, Federico II di Napoli, La Sapienza di Roma, Mediterranea di Reggio Calabria, di Foggia, Suor Orsola Benincasa di Napoli; ha insegnato anche nelle Università di Austin (Texas) e di San Paolo (Brasile) e ha tenuto seminari e cicli di conferenze in diverse università italiane e di altri Paesi (ad es. nell’École des hautes études en sciences sociales, EHESS) e negli Istituti italiani di cultura dei maggiori centri della Cina e del Giappone, oltre che Senatore della Repubblica nella XIII Legislatura (1996-2001), ha fatto parte della Commissione Cultura del Senato e di quella bicamerale contro l’organizzazione mafiosa e altre realtà criminali. È stato presidente onorario dell’Associazione italiana per le Scienze Etno-antropologiche (AISEA) ed è presidente della Società italiana autori drammatici (SIAD). È autore di molte opere di antropologia e di poesia, numerose delle quali tradotte in altri Paesi. Viene considerato, anche a livello internazionale (v. “American Anthropologist”), uno dei più illustri esponenti dell’antropologia italiana.
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