CIP
di Gianpiero Lupatelli
Le parole e le cose
Man mano che l’arco della mia vita procede verso Occidente, mi accorgo di nutrire una sensibilità diversa nei confronti delle parole, cellule elementari di una lingua che è sempre stata l’utensile principe del mio lavoro, comunque io l’abbia voluto o saputo etichettare nel tempo.
Una sensibilità che ora si rivolge ad ascoltare il suono più antico delle parole, anzi ad ascoltare il loro risuonare nelle lingue antiche dalle quali le moderne hanno tratto origine e senso, deformandolo spesso nel loro divenire. Nascondendo talvolta significati che ora ci stupiscono.
Riflettere sull’etimo delle parole, soprattutto di quelle il cui uso è meno frequente e dunque meno logorato dall’uso ma che, non per questo, hanno mantenuto nel tempo gli stessi significati, è dunque occasione di insolite scoperte e qualche volta di vere sorprese.
Apologia è una di queste parole. Ho immaginato di titolare il mio intervento “Apologia delle aree interne” volendo esprimere una moderata nota di ironia nei confronti della considerazione di questa esperienza nel discorso pubblico, divenuta ormai mitologica. Considerazione che, per un verso, ne esalta il luminoso potenziale generativo mentre peraltro ne riconosce il fallimento, esprimendo un rammarico che si carica di nostalgia o invece una acredine carica di rancore.
Naturalmente, nel suo riemergere dalla memoria, il lemma “apologia”, mi ha riportato alla lezione corrente, che lo qualifica come “discorso elogiativo e di esaltazione”, invitandomi a confezionare questa perorazione nella disposizione retorica della iperbole (e dunque, forse, del sarcasmo).
È bastato scorrere i dizionari etimologici dei quali fortunatamente è ricca la mia frequentazione, per cogliere un valore diverso e “originario” del lemma apologia: quello derivato dal latino tardo apologĭa, e desunto dal greco ἀπολογία «difesa», composto di ἀπό (prefisso per indicare allontanamento) e -λογία «discorso». Dunque, un discorso “in difesa”.
Innanzitutto un discorso in difesa di se stessi: per antonomasia ἀπολογία è il discorso che, secondo la procedura attica, l’accusato, Socrate per primo, pronuncia in giudizio per discolparsi.
Aderendo a questo più antico significato, la mia apologia sulle aree interne può spogliarsi di ogni intenzione retorica per esprimere, propriamente, il sentimento che io provo nei confronti della vicenda delle Aree Interne. Un sentimento profondo, più forte del pure esteso campo di ragioni che potrò richiamare.
Il mio sentimento riconosce immediatamente alle Aree Interne un valore esemplare di innovazione radicale delle politiche territoriali nel nostro Paese e ringrazia il cielo (e molti altri!) perché questa innovazione si è prodotta. Senza per questo sentirsi in dovere di tacere i limiti e le contraddizioni che ne hanno segnato anche la stagione più feconda.
Senza distinguere, dunque, un’età dell’oro nella quali i buoni propositi avevano disegnato il migliore dei mondi possibili, da quelle di una successiva attuazione infelice e distratta, nelle molte stagioni e nei molti Governi che si sono succeduti, apportando correttivi dei quali la direzione non sempre è stata apprezzabile.
Lo stesso permanere nel tempo di una politica pubblica in un orizzonte che ha ormai ampiamente superato il decennio, testimonia la sua rilevanza e il suo valore. Rilevanza e valore che rafforzano l’opportunità che una valutazione critica della sua evoluzione non sia consegnata ad uno sguardo mestamente rivolto al passato per consegnarne la memoria a una stagione di rimpianti o di rancorosi livori. Quello che della SNAI ha funzionato meglio.
Partiamo allora dalla stagione nella quale ha preso vita la Strategia Nazionale per le Aree Interne: la SNAI, nell’acronimo con il quale si è fatta conoscere, superando lo scoglio di una singolare sovrapposizione con la sigla della più nota Agenzia di scommesse sportive, ippiche in origine.
La SNAI si è proposta come iniziativa del tutto inedita che centrava il tema della coesione territoriale come questione politica nodale al tempo della rivolta delle periferie: la rivolta dei luoghi che non contano! Contemporaneamente, riconosceva per la prima volta con sistematicità il carattere idiosincratico dello sviluppo territoriale, disegnando un campo di azione estraneo (finalmente) alla emulazione di modelli preconfezionati e lontano (si vorrebbe sperare) da pedagogie illuministe.
Una iniziativa non solo inedita nei contenuti (uno per tutti, l’avvicinamento alla tematica dello sviluppo locale della attenzione alla dotazione dei servizi di cittadinanza), ma straripante di stimoli e suggestioni nuove nel suo procedere chiamando ad una sofisticata governance multilivello istituzioni che erano spesso in difficoltà a gestire le routine dell’amministrazione ordinaria.
Una iniziativa ambiziosa e difficile, che portava dentro di sé molte possibili ragioni di insuccesso, e che, per evitarle, richiedeva (e richiede) un apporto di intelligenza e di energia fuori dall’ordinario. Una scommessa ardita ma non per questo irresponsabile. Con un tratto avventuroso che proponeva condizioni evidenti per incontrare e suscitare entusiasmi e generosità nel suo percorso.
Per questo trovo tanto ingenerose le critiche che vorrebbero sommergere la SNAI sotto le macerie di una attuazione incerta, faticosa e lentissima – da ultimo l’ampio reportage [peraltro pieno di pregiudizi e di inesattezze] di Marco Palombi sul Fatto Quotidiano del 19 agosto – quanto inappropriati i rimpianti nostalgici di una età dell’oro i cui frutti copiosi sarebbero stati dissipati da una gestione inerte e inefficace di chi ne ha tradito deliberatamente gli intenti.
Parlo da testimone e da protagonista di una delle azioni di successo che la Strategia Nazionale per le Aree Interne ha suscitato e sostenuto. Quella che ha riguardato “La Montagna del Latte” nell’Appenino Emiliano. Una iniziativa di successo che senza la occasione della SNAI sicuramente non avrebbe preso avvio e che invece si è sviluppata cercando di cogliere e interpretare originalmente gli elementi di straordinaria novità, ambizione e coraggio proposti dalla Strategia Nazionale.
Una iniziativa che ha avuto successo anche perché è stata in grado di resistere, con tenace ostinazione, alle traversie, ai ritardi e alle battute d’arresto che in più di dieci anni hanno segnato il percorso della SNAI.
La vicenda della Montagna del Latte – con poco meno di 29 milioni di investimenti programmati, realizzati per oltre il 90% e con un fattore di leva prossimo a 8 rispetto ai 3,7 milioni stanziati dalla SNAI per innescarlo – è la dimostrazione tangibile che, per nessuna ragione, un destino di insuccesso può essere considerato come già scritto nelle premesse della Strategia.
Le ragioni della pianificazione
Il primo grande merito della SNAI riguarda il galateo istituzionale. Intanto, ma non solo, per l’audace decisione con cui ha trasformato attenzione e riguardo nei confronti delle realtà locali (le Aree Pilota) in una concreta disponibilità al confronto e al dialogo dei livelli istituzionali superiori, decisori statali e regionali, seduti al tavolo con i piccoli comuni delle aree interne.
Decisione che ha conferito al tessuto istituzionale dell’Italia minore dignità e rilievo ma soprattutto lo ha sollecitato ad esprimere una visione e una direzione di marcia capace di superare i particolarismi dei campanili per assumere il punto di vista – le responsabilità – di un territorio più esteso, capace di soggettività e di proposta. Un territorio ancora locale, nel quale la consapevolezza dei cittadini può riconoscersi pienamente, ma che è già in grado di raffigurarsi come soggetto negoziale autorevole, nei rapporti con la città e con la regione.
Il garbo di questo galateo istituzionale ha portato con sé innanzitutto la scelta di privilegiare la pianificazione nella pratica dei rapporti interistituzionali, come sistema per la costruzione di un più solido processo decisionale. Priorità e favore affidate dunque ad una decisione concertata e condivisa, anche faticosamente ma responsabilmente, anziché agli esiti casuali di una lotteria; ai bandi che affidano alla imprevedibile combinazione algoritmica del caso la scelta che una discrezionalità responsabile non ha il coraggio di assumere. Roberto Colombero, Presidente di Uncem Piemonte, ha detto di recente parole molto chiare a questo riguardo alle quali ho davvero poco da aggiungere.
Certo, la pianificazione conosce incertezze, esitazioni e inciampi; tanto più frequentemente in un corpo amministrativo che non si è allenato ad esercitarla ordinariamente e che può preferire le armi della distrazione e della rimozione al confronto esplicito e talvolta pungente.
Di qui, anche, i tempi lunghi che sono stati lamentati – non senza ragione – come il principale limite operativo della SNAI, la pietra d’inciampo che spesso ha fatto rovinare il castello delle buone intenzioni.
E, tuttavia, alla pianificazione non si può né si deve rinunciare se non si vuole confondere lo strumento con il fine; se si riconosce che il problema non è l’ammontare delle risorse finanziarie che vengono ottenute dai territori attraverso le politiche e la rapidità della loro “messa a terra”, ma è invece il merito delle trasformazioni economiche e sociali che attraverso quelle risorse è possibile innescare, realizzare e, possibilmente, rendere permanenti. L’interruzione e l’inversione del secolare declino demografico, per le Aree Interne.
Pianificare il percorso dello sviluppo locale significa intenderlo come un vero e proprio processo di apprendimento collettivo che consente agli attori sociali di migliorare la propria capacità di annodare catene del valore saldamente radicate nel territorio, eppure profittevolmente connesse a relazioni di mercato cosmopolite.
Significa anche sostenere e ri-costruire nuove relazioni comunitarie, capaci di rispondere originalmente alle esigenze di benessere sociale che nel fallimento del mercato (e in quello dello Stato) non possono trovare risposta nelle condizioni di grande dispersione della domanda proprie di questi territori.
In almeno una circostanza, questa scelta a favore della pianificazione introdotta dalla SNAI ha potuto trovare continuità nella programmazione regionale. È accaduto con la decisione della Regione Emilia-Romagna di gestire con le proprie Strategie Territoriali per le Aree Montane e Interne (STAMI, nel nuovo acronimo introdotto) l’intervento delle politiche comunitarie per la coesione territoriale all’insegna dell’obiettivo di policy n. 5 “Un Europa più vicina ai cittadini”.
Una scelta che ha spostato (un poco) il pendolo della programmazione verso il polo delle politiche territoriali invece che verso quello, usuale, delle politiche settoriali; per investire con un flusso di risorse significative ma sicuramente da rafforzare, tutto il territorio della montagna regionale: Aree Pilota vecchie e nuove della SNAI e anche territori che la SNAI non aveva considerato.
Purtroppo, una scelta così coraggiosa e condivisibile è stata accompagnata dal depotenziamento del suo presidio e della sua direzione politica, che ha molto sofferto nella riorganizzazione delle competenze di una Giunta Regionale dell’Emilia-Romagna, ridisegnata nella sua configurazione dalla evoluzione del quadro politico nazionale.
Le esigenze della sostenibilità
Tra le cose che hanno funzionato dobbiamo ascrivere anche lo sforzo di avvicinare le politiche dei servizi (e le istituzioni locali di matrice statale o regionale che se ne occupano nei campi della istruzione, della salute e della mobilità) alle politiche di sviluppo locale (e agli attori sociali che ne rappresentano gli interessi).
Il tema del Capitale Umano e della sua valorizzazione è la dimostrazione più evidente della opportunità di questo accostamento, tanto più lampante dove le comunità locali ne hanno saputo cogliere e interpretare originalmente la centralità strategica.
Certo, da questo incontro, felice e inusuale, tra economia e società, tra produzione e servizi, è rimasto fuori – o almeno è rimasto un po’ ai margini – il tema della sostenibilità. Una distanza da colmare non solo in ossequio allo spirito dei tempi che vede la sostenibilità non più solo come attributo necessario dello sviluppo di cui si devono mitigare e ridurre gli impatti, ma la interpreta piuttosto come sostantivo, che si propone come forza guida allo sviluppo, come suo driver.
Una distanza da colmare soprattutto per dare valore e peso a quel riconoscimento che, nell’individuare le aree interne come remote e distanti dalla offerta di servizi riconosce però il rilievo di risorse e di qualità “non presenti altrove”. Per colmare questo gap, l’investimento delle Green Community si è proposto come occasione tempestiva e appropriata.
Tanto più se alle prospettive dello sviluppo locale ci si rivolge non (solo) dalla prospettiva di agenzie tematiche e settoriali che lo promuovono da lontano, muovendo i propri sforzi su binari separati e divergenti.
Se guardiamo invece allo sviluppo locale e alle politiche per promuoverlo e sostenerlo dalla prospettiva dei territori che di quelle politiche sono i destinatari e dovrebbero sempre più essere i protagonisti, appare evidente l’esigenza di una comprensione unitaria delle dinamiche evolutive, economiche e sociali.
Nella loro natura e anche nella loro esperienza, i territori non conoscono, i confini ben delimitati proposti dalle discipline e dalle competenze amministrative per dare ordine e legittimazione al proprio agire. Se talvolta devono piegarsi a riconoscere distinzione di competenze e delimitazioni di campo spesso arbitrarie, i territori esprimono con naturalezza e convinzione assoluta l’esigenza di una sempre più stretta integrazione delle politiche. Con una forzatura non eccessiva si potrebbe addirittura dire che questa esigenza la incarnano.
Dialoghi Mediterranei, n.70, novembre 2024
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Giampiero Lupatelli, economista territoriale, laureato nel 1978 in Economia e Commercio all’Università di Ancona studiando con Giorgio Fuà e Massimo Paci, dal 1977 opera nell’ambito della Cooperativa Architetti e Ingegneri di Reggio Emilia (CAIRE) dove si è occupato di pianificazione strategica e territoriale concentrando la sua attenzione sui temi della rigenerazione urbana e dello sviluppo locale delle aree interne e montane. Ha collaborato con Osvaldo Piacentini e Ugo Baldini nella direzione di importanti piani e progetti territoriali di rilievo nazionale e regionale. È Vice-Presidente di CAIRE Consorzio, fondatore dell’Archivio Osvaldo Piacentini per cui è direttore della Rivista “Tra il Dire e il Fare”, componente del Tavolo Tecnico Scientifico per la Montagna presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, membro del comitato scientifico della Fondazione Montagne Italia, della Fondazione Symbola e del Progetto Alpe del FAI, oltre che del Comitato di Sorveglianza di Rete Rurale Nazionale. Ha recentemente pubblicato il volume Fragili e Antifragili. Territori, Economie e Istituzioni al tempo del Coronavirus, per i tipi di Rubbettino editore.
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