di Luca D’Anna
Il processo di arabizzazione del Nord Africa rappresenta uno dei capitoli più interessanti della storia linguistica dell’arabo, nonché una delle aree in cui il dibattito scientifico fiorisce ancora oggi, andando di pari passo con l’emergere di nuovi dati e con l’affinamento degli strumenti della linguistica storica. L’immensa distesa geografica che si stende dal Delta del Nilo fino all’attuale Marocco si trovava, dal VI secolo d.C., sotto il formale dominio dell’Impero Bizantino. L’amministrazione centrale, tuttavia, era di fatto assente, limitandosi a qualche guarnigione a presidio delle principali città costiere, nelle quali il greco e il latino erano ancora lingue di uso corrente.
Geograficamente, l’area è caratterizzata da una striscia costiera coltivabile, che ospita la maggior parte della popolazione e all’interno della quale si trovano i maggiori centri urbani. Al di là di questa striscia si stende un hinterland inospitale caratterizzato da aspri rilievi montuosi e aride zone desertiche. Questa immensa area, difficilmente controllabile, era (e in parte è ancora) dominio della lingua tamazight, parlata in diverse varietà con livelli differenti di mutua intellegibilità.
Secondo la vulgata comunemente accettata, ma oggi sempre più messa in discussione, l’arabizzazione del Maghreb avvenne in due diverse ondate. La prima seguì di appena un decennio la morte del Profeta Muḥammad. Una prima spedizione, guidata da ʕUqba ibn an-Nāfiʕ, già nel 642 d.C., portò alla resa di Alessandria e alla conquista di Barqa e Zawīla (nell’attuale Libia) che vennero a patti con gli invasori e accettarono di pagare il tributo. Il punto di svolta nella storia del Nord Africa, tuttavia, fu segnato dalla campagna che lo stesso ʕUqba ibn an-Nāfiʕ condusse dal 669 al 675, fondando al-Qayrawān e ponendo le basi per il processo di islamizzazione e arabizzazione del territorio, che subì solo una lieve battuta d’arresto a causa della rivolta guidata dalla sacerdotessa berbera, la cosiddetta Kāhina, e domata nel 704.
Il controllo reale del territorio era in ogni caso limitato alle maggiori città e ai punti strategici, mentre l’entroterra, seppure formalmente sottomesso, era saldamente in mano alle tribù berbere, la cui conversione all’Islam fu lenta e graduale. La spinta decisiva, dal punto di vista linguistico, politico e religioso avvenne nell’XI secolo, in concomitanza con la seconda ondata, quando la cosiddetta invasione dei Banū Hilāl, Banū Sulaym e Banū Maʕqil rovesciò i rapporti di forza fra elemento arabo e berbero e ne riequilibrò parzialmente il peso demografico. La migrazione delle tre tribù si situa nel quadro dei rapporti fra la dinastia fatimide, ormai stanziatasi in Egitto, e i vassalli Ziridi, divenuti viceré nel Nord Africa.
Gli Ziridi, superficialmente convertiti all’ismailismo fatimide, si trovarono a governare territori popolati da una stragrande maggioranza sunnita sempre più ostile ai governanti sciiti, specialmente dopo che la dinastia fatimide aveva spostato a oriente il centro delle proprie attività. Dopo una serie di massacri perpetrati ai danni della minoranza sciita, dunque, lo zirita al-Muʕizz fece apertamente proclamare la ḫuṭba del venerdì nel nome del califfo abbaside di Baghdad, scatenando l’ira dei Fatimidi del Cairo. Gli storici narrano dunque che il Califfo, consigliato da un suo ministro, inviò queste due tribù, originarie della Penisola Araba e stanziate nell’Alto Egitto, a devastare il territorio degli ex-vassalli. Dal punto di vista sociale, pare che l’invasione abbia causato un certo declino della civiltà urbana, probabilmente esagerato dalle fonti, mentre dal punto di vista etnico assistiamo ad un cospicuo aumento dell’elemento arabo, a cui si deve la seconda e definitiva arabizzazione del Paese [1].
Le due diverse ondate, per finire, hanno lasciato tracce evidenti sul piano linguistico, dando origine a due diverse varietà di dialetti, tradizionalmente descritti come pre-hilālici (sedentari) e hilālici (beduini), con caratteristiche fonologiche e morfologiche ben distinte [2]. A partire dal Maghreb, infine, l’arabo fu esportato dal 711 anche nella Spagna musulmana e, dopo l’827, in Sicilia, dove si sviluppò un dialetto genealogicamente derivato da quelli parlati nei territori dell’attuale Sāḥel tunisino. Il siculo-arabo, a sua volta, è tradizionalmente accreditato come progenitore del maltese, unico dialetto arabo ad essere divenuto lingua nazionale.
Come precedentemente accennato, la breve panoramica qui presentata costituisce la descrizione tradizionale dell’arabizzazione del Nord Africa, tanto dal punto di vista storico quanto da quello linguistico. Essa è dovuta principalmente a storici e linguisti di scuola francese, come i fratelli Marçais, attivi durante il periodo coloniale. Un recente articolo di Adam Benkato [3] ha brillantemente messo in evidenza il peso che i lavori di George [4] e William [5] Marçais hanno avuto nel dare forma a questa narrazione, che dal punto di vista storico si basa principalmente sull’opera di Ibn Khaldun (1332-1406), rivista in chiave decisamente coloniale. L’utilizzo della storia, corroborata da fatti linguistici, al servizio del discorso coloniale francese (e, più in generale, europeo), è un tema sul quale studiosi di diverse discipline hanno recentemente dato vita a un acceso dibattito. Il volume The Invention of the Maghreb, pubblicato da Abdelmajid Hannoum nel 2021, costituisce il più recente contributo al dibattito, che si è sviluppato anche sul fronte linguistico.
George Marçais, infatti, nel tracciare le linee principali della storia del Nord Africa, fece esplicito riferimento alla necessità che i dati linguistici corroborassero quelli storici, richiesta prontamente accolta dal fratello William. La divisione dei dialetti maghrebini in pre-hilālici e hilālici, da questo punto di vista, costituisce lo specchio linguistico delle due ondate, a loro volta utilizzate per tentare di costruire una suddivisione netta fra civiltà sedentaria e beduina, con una ovvia preferenza per la prima. Malgrado la classificazione dei dialetti in questi due macrogruppi non sia affatto priva di basi linguistiche, essa presenta degli evidenti difetti di metodo, dei quali lo stesso Marçais non fu ignaro. Molte delle isoglosse diagnostiche, infatti, non funzionano in Tunisia, Paese che viene dunque (comodamente) considerato come una zona di transizione. La natura specifica dei cosiddetti dialetti misti o transizionali è stata recentemente messa in discussione da diversi linguisti, tra i quali vale la pena citare almeno Giuliano Mion [6] e Jairo Guerrero [7].
Nel momento in cui William Marçais scrive, inoltre, nessuna varietà pre-hilālica libica era ancora stata descritta. Il giudeo-arabo di Tripoli e, in misura ancora maggiore, quello di Yefren, descritti da Yoda [8] e D’Anna [9], confermano come la natura transizionale della Tunisia si spinga ben oltre il confine libico, mettendo in discussione la classificazione di Marçais in maniera ancora più decisa.
L’importanza del giudeo-arabo maghrebino e delle varietà confessionali
Il lettore non specialista si starà a questo punto chiedendo il motivo dell’importanza attribuita al giudeo-arabo, libico ma non solo. La ragione di questa importanza risiede nel fatto che le varietà confessionali, che in Nord Africa sono rappresentate soltanto dai dialetti giudeo-arabi, costituiscono una riserva di fossili linguistici, spesso appartenenti a fasi linguistiche arcaiche. Il motivo di questo conservativismo risiede nel processo stesso di formazione delle varietà confessionali: all’interno del mondo islamico, esse nascono a seguito di mutamenti demografici repentini e imponenti, come ad esempio conquiste militari o migrazioni di massa. In questi contesti di profonda trasformazione linguistica, i nuovi arrivati (solitamente di fede musulmana) si mescolano agli abitanti originari del luogo, dando vita a nuove varietà linguistiche.
Molto spesso, gli appartenenti a confessioni o fedi religiose minoritarie (ebrei in Nord Africa, sciiti nella Penisola Arabica, cristiani ed ebrei in Medio Oriente) si aggrappano al proprio dialetto per ragioni identitarie, specialmente se vivono in quartieri separati e se hanno contatti meno frequenti con i nuovi arrivati. Quando questo accade, quello che era originariamente il dialetto di una città intera diventa la varietà confessionale parlata da ebrei e/o cristiani [10]. Questo processo è stato per la prima volta descritto da Haim Blanc con riferimento ai tre dialetti un tempo parlati a Baghdad dalle tre comunità presenti in città: quella musulmana, quella ebraica e quella cristiana [11].
Gli ultimi anni hanno testimoniato un rinnovato interesse nei confronti della lingua e dell’apporto delle comunità ebraiche in Nord Africa, ormai presenti soltanto in Marocco e in Tunisia, ma in numero sempre minore. La storia millenaria di queste comunità, che in diversi modi avevano convissuto con la maggioranza musulmana fin dal VII secolo, si interrompe bruscamente dopo la fondazione dello Stato di Israele, quando gli ebrei vengono cacciati o costretti a emigrare in massa dalla Libia e dall’Algeria, scegliendo spesso di lasciare anche il Marocco e la Tunisia, dove pure la loro presenza continua ancora oggi. A livello scientifico, diversi progetti stanno oggi tentando di salvare dall’oblio i dialetti parlati da queste comunità, mentre la cultura popolare ne riscopre la ricchezza e ne sente, più di mezzo secolo dopo la loro cacciata, la mancanza. È così che in Libia la serie televisiva Zangat ər-rīḥ (“Il vicolo del vento”), che racconta la storia degli ultimi, travagliati anni della comunità ebraica di Tripoli, riscuote un immenso successo, ed è così che moltissimi musulmani nordafricani hanno fatto proprie le parole rivolte dalla scrittrice franco-algerina Houria Bouteldja agli ebrei di origine nordafricana:
«Voi che siete Sefarditi non potete fare come se il decreto Crémieux non ci fosse stato. Non potete dimenticare che la Francia vi ha fatti francesi per strapparvi da noi, dalla vostra terra, dalla vostra arabo-berberità. Se osassi, direi, la vostra islamità. Come anche noi siamo stati spossessati di voi. Se osassi, direi della nostra giudeità. Del resto, non riesco a pensare al Maghreb senza rimpiangervi. Avete lasciato un vuoto che non possiamo colmare, e dunque io sono inconsolabile. La vostra alterità si radicalizza e il vostro ricordo si sta offuscando»[12].
Da un punto di vista strettamente linguistico, l’impatto della scoperta e della descrizione di nuove varietà di giudeo-arabo maghrebino è enorme. La geografia linguistica della Libia muta profondamente, come se una cartina geografica in bianco e nero, comprendente solo dialetti beduini, divenisse improvvisamente a colori. Gli stessi confini tra Libia e Tunisia sfumano, mostrando come le due aree fossero linguisticamente assai più vicine in passato, e come i dialetti sedentari libici siano strettissimamente imparentati a quelli tunisini. La descrizione e lo studio delle varietà di giudeo-arabo libico e tunisino, inoltre, ci forniscono spesso le tessere mancanti per ricostruire il complicatissimo puzzle della storia linguistica del Nord Africa. Tratti dialettali attestati nell’arabo di Sicilia o nel Maltese, ma estinti (o quasi) nei dialetti parlati oggi dalle comunità musulmane, riemergono all’interno delle varietà giudeo-arabe più conservative, cambiando l’immagine che abbiamo di come il dialetto arabo proto-magrebino potesse suonare, pur nella sua complessità e variazione.
Paradossalmente, lo studio di queste varietà contribuisce in maniera decisiva alla messa in crisi della narrazione coloniale di stampo francese, restituendoci un quadro infinitamente più complesso e sfumato nel quale certi tratti comunemente creduti beduini sono invece presenti anche nei dialetti sedentari più antichi, mentre altri si rivelano essere geograficamente limitati alle aree più occidentali del Maghreb, Marocco e Algeria. Sebbene il colpevole ritardo dei ricercatori nel localizzare ed intervistare i membri superstiti delle comunità (oggi tutti viventi nella diaspora o in Israele) abbia causato la perdita di una quantità incalcolabile di dati, i pochi parlanti rimasti stanno fornendo alla dialettologia storica del Nord Africa un contributo inestimabile, il cui impatto sarà pienamente visibile solo nei prossimi anni.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] E. Rossi, Storia di Tripoli e della Tripolitania dalla conquista araba al 1911, Istituto per l’Oriente, Roma 1968: 57 – 59.
[2] L. D’Anna, “La lingua araba”, in P. Spallino (a cura di), L’Islām di fronte e attraverso, Officina di Studi Medievali, Palermo, 2020: 10-13.
[3] A. Benkato, “From Medieval Tribes to Modern Dialects: on the Afterlives of Colonial Knowledge in Arabic Dialectology”, in Philological Encounters 4 (2019): 2-25.
[4] G. Marcais. Les arabes en Berberie du XIe au XIVe siecle, E. Leroux, Paris, 1913.
[5] W. Marcais, “Comment l’Afrique du nord a été arabisée”, in W. Marçais, Articles et conferences, 1961 : 171–92.
[6] G. Mion, “Réflexions Sur La Catégorie Des « parlers Villageois » En Arabe Tunisien”, in: Romano-Arabica XV (2015) : 269–279.
[7] J. Guerrero, Les Parlers Jbala-Villageois. Étude Grammaticale d’une Typologie Rurale de l’Arabe Dialectal Maghrébin, in Dialectologia 20 (2018) : 85–105.
[8] S. Yoda, The Arabic Dialect of the Jews of Tripoli (Libya): Grammar, Text, and Glossary (Semitica Viva 35). Harrassowitz, Wiesbaden.
[9] L. D’Anna, “The Judeo-Arabic Dialect of Yefren (Libya): Phonological and Morphological Notes”, in Journal of Jewish Languages, 9 (2021): 1-31.
[10] C. Holes, Clive. “Confessional varieties”, in E. Al-Wer & U. Horesh (a cura di), The Routledge Handbook of Arabic Sociolinguistics (Routledge Handbooks), Routledge, London – New York: 63–81.
[11] H. Blanc, Communal Dialects in Baghdad, Center for Middle Eastern Studies of Harvard University, Cambridge, 1964.
[12] H. Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie, Roma, 2017.
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Luca D’Anna, ha intrapreso gli studi di Arabistica presso l’Università degli Studi di Palermo e l’Accademia Libica in Italia, conseguendo poi il Dottorato di Ricerca presso l’Università di Napoli “L’Orientale” nel 2014. Dal 2015 insegna lingua araba negli Stati Uniti, presso la University of Mississippi, e i suoi interessi di ricerca includono i dialetti arabi del Nord Africa, la linguistica storica e le comunità arabofone nella diaspora, con i fenomeni di contatto che le contraddistinguono. Ha pubblicato di recente con Giuliano Mion una Grammatica di Arabo Standard moderno. Fonetica, Morfologia e Sintassi (Hoepli 2021).
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