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Arte come mezzo di riflessione sulla documentazione demo-etno-antropologica dei conflitti. “A Needle in The Binding”

A Needle in The Binding

A Needle in The Binding

di Linda Armano, Beatrice Catanzaro 

«I recall that a detainee narrated for us the story Les Miserables by Victor Hugo, in several chapters. He used to narrate one chapter a day until he finished the story after two weeks. We used to wait anxiously every day for the nighttime to listen to a new chapter. We all felt as if “Jean Valjean” the hero of the novel, was living among us. The last night we were so sad, as “Jean Valjean” was leaving our detention centre, knowing that we were never to meet him again. And when the moment of separation arrived, a sorrowful silence fell upon us all». (by Khalil Ashour – a Palestinian political prisoner from 1970 to 1982).

Il mondo contemporaneo è saturo di militarizzazione. Le forze materiali e ideologiche della guerra permeano le vite collettive e le relazioni ecologiche degli umani e dei non umani che sopravvivono alle devastazioni della “guerra convenzionale” e di coloro che vivono attraverso le violenze quotidiane di una pace relativa (Guarasci, Kim 2022). L’incremento delle ricerche antropologiche sugli aspetti nascosti della guerra ha esteso l’attenzione etnografica oltre la guerra stessa e ha cominciato ad includere anche quelle forme di guerra che non sono spesso riconosciute politicamente come tali e che si manifestano negli aspetti materiali e nelle relazioni affettive.

Sebbene soprattutto gli storici abbiano esaminato i campi di battaglia e i paesaggi alterati dalle attività e dalle tecnologie militari (Woodward 2014), gli antropologi tendono ad applicare un approccio che considera gli intrecci essenziali di guerre ed ecologie comprendendo, nelle loro analisi, scale che si estendono sopra e sotto i siti di conflitto (Smith 2017). Questi studi hanno quindi cominciato a produrre riflessioni diverse che spaziano dal rapporto tra violenza e risorse ambientali (Peluso e Watts 2001), alla ricaduta radioattiva delle armi nucleari (Masco 2006), alla lenta violenza delle mine terrestri e dei defolianti chimici (Nixon 2011; Henig 2012; Stoler 2008), alle rovine affettive dei paesaggi (post)bellici (Navaro-Yashin 2012) e ai militarismi quotidiani (Kaplan 2020), oltre che sull’interrelazione tra la guerra e la conquista dei territori (Guarasci, Kim 2022). Soprattutto quest’ultima inestricabilità ha una lunga storia che richiede un’attenta valutazione critica non solo dei periodi in cui la guerra e la conquista di nuove terre vanno di pari passo, ma anche del passato della disciplina antropologica.

Soldati americani in Afghanistan

Soldati americani in Afghanistan

In tal senso, Bridget Guarasci ed Eleana Kim (2022) assumono che l’origine dell’antropologia europea derivi da una branca della storia naturale caratterizzata dall’emergere della scienza illuminista e dall’appropriazione violenta di territori, culture e popoli. Come notano le studiose, questa connessione tra potere marziale ed epistemologie universalizzanti si è replicata su un nuovo terreno nel periodo delle guerre mondiali del Novecento, quando la “grande scienza” diffuse il concetto di una gerarchia razziale a livello globale.

Tra il 1914 e il 1918, per esempio, gli antropologi tedeschi condussero il loro lavoro nel mezzo di una guerra su vasta scala in cui la disciplina era ancora relativamente nuova nel mondo accademico tedesco. Mentre la guerra modellava l’ambiente istituzionale, ideologico e contestuale del lavoro antropologico, molti antropologi si piegarono ad uno sforzo nazionalista interessato principalmente agli studi scientifici sulla razza. All’interno di tale scenario, gli antropologi utilizzavano anche le fotografie di prigionieri come mezzo per costruire un “altro” razziale e coloniale nel contesto della guerra. Questo modo di procedere non fu esente da processi di propaganda che spinsero gli antropologi a catturare e a definire composizioni razziali dei prigionieri attraverso l’obiettivo della macchina fotografica che, oltre a razzializzare il nemico, enfatizzavano anche il presunto potere e la coesione tra Stati imperiali e colonizzatori.

Coinvolta nel nazionalismo del tempo di guerra, una nuova generazione di antropologi cominciò a ritrarre i nemici politici del Paese come razzialmente diversi. Dopo la fine della guerra, l’importanza attribuita alle concezioni e alle categorie razziali continuò a persistere, aprendo la strada alla politicizzazione della ricerca scientifica negli anni dell’ascesa del nazionalsocialismo (Evans 2010).

Oggi la guerra e i suoi vari rapporti ecologici continuano ad essere mobilitati discorsivamente e materialmente per camuffare interessi politici ed economici egemonici che naturalizzano la sovranità da parte di Stati attenti a inquadrare spazi militarizzati come luoghi strategici da difendere (Kim 2022; Guarasci 2015). All’interno di questo scenario, alcuni studiosi si sono focalizzati anche su pratiche che apparentemente sono lontane da conflitti aperti e che richiamano forme di conflittualità nascoste, come per esempio il greenwashing aziendale e governativo (Büscher 2014).

Il contributo più rilevante dei più recenti studi antropologici sulla guerra studia non solo gli effetti sociali, economici, politici dei conflitti armati e della militarizzazione, ma anche la geopolitica e le infrastrutture sociali e materiali del militarismo. Ciononostante, esistono ancora zone d’ombra che rimangono troppo spesso nascoste e che quindi sono poco esplorate dal discorso pubblico ed accademico ma che sarebbero necessarie per comprendere ulteriori processi provocati da elementi di conflitto nella loro interrelazione con le vite umane.

Soldati in trincea

Soldati in trincea

Se gli studi antropologici sulla guerra continuano comunque a prestare attenzione soprattutto agli impatti dei conflitti sulle società, è ancora pressoché inesplorata la relazione che la guerra può istituire con la produzione di beni culturali. Alcune ricerche hanno approcciato dei tentativi indagando, per esempio, pratiche di folklore associato a gruppi militari. Alcuni esempi sono i canti delle cadenze militari della battaglia e della sconfitta dei nemici i quali, dal punto di vista bellico, venivano usati per consentire un movimento ordinato dei soldati da un luogo di battaglia a quello successivo, nonché per aumentare il morale delle truppe e instillare paura nei nemici esaltando retoricamente la forza del proprio esercito. Dai canti dei soldati si sono registrativi significativi slittamenti del testo nei canti di miniera in cui si descrivono le condizioni simili vissute dal minatore e dal soldato in trincea. Un esempio è il canto che segue che sembra all’origine dell’incipit di un canto della Seconda Guerra Mondiale:

 E maledisco porto di Bari
E la cinquina che c’à sbarcati
In Albania destinati
Sempre soli a gueregiar
E se per caso io non tornasi
O moglie mia m’avrai capito
Cercati pur un altro marito
Per allevare i figli miei
I figli tuoi son già alevati
Lor vanno in giro per Monte Nero
Lor vanno in giro per Monte Nero
A vendicare il lor papà
E maledisco la Croce Rossa
Che non faceva il suo servisio
Lasiava i morti nelle fosse
E i feriti a sospirar
E maledisco la Val di Osta
E coi suoi monti ma così alti
Ma coi sentieri streti streti
Pien di sangue di soldà (Sanga 2008: 273). 

In particolare, le esperienze di miniera e di guerra sono percepite come manifestazioni eccezionali, extra quotidiane, precarie, spaesanti e relativamente limitate nello spazio e nel tempo (Armano 2018).

Nablus

Nablus

Nel tentativo di dare un contributo a queste riflessioni, il presente contributo intende utilizzare un approccio interdisciplinare, mettendo in dialogo un lavoro artistico e una analisi antropologica sul conflitto e sui relativi stati di prigionia, ma anche sugli effetti che questi stati di detenzione possono avere nello sviluppo di nuove pratiche di creazione e conservazione di beni culturali. Nello specifico, prendiamo le mosse da un’attività svolta dall’artista italo-svedese Beatrice Catanzaro in occasione di una residenza artistica in Palestina nel 2009. In particolare, il lavoro da lei svolto riguarda una catalogazione di libri conservati presso la Biblioteca Municipale di Nablus in cui i detenuti palestinesi disegnavano immagini e scrivevano appunti sui libri.

Questo lavoro rappresenta un’importante testimonianza di un periodo storico che parte dalla fine degli anni Sessanta in cui un gran numero di palestinesi furono incarcerati, come prigionieri politici, in centri di detenzione israeliani. Oltre a contestualizzare il periodo storico-culturale di questi imprigionamenti, di seguito sono riportate alcune annotazioni di campo di Beatrice Catanzaro durante il suo lavoro nella ‘Sezione dei libri dei prigionieri’ della Biblioteca Municipale di Nablus in Cisgiordania. Traendo ispirazione da queste note, il presente contributo ci invita a riflettere sulle interconnessioni tra conflitti e pratiche di conservazione della memoria che possono dare luogo, attraverso la raccolta di immagini di volumi abbandonati, a progetti di rivalorizzazione culturale in riferimento a gruppi emarginati. 

Biblioteca Municipale di Nablus (ph. Beatrice Catanzaro)

Biblioteca Municipale di Nablus (ph. Beatrice Catanzaro)

A Needle in The Binding. Possibilità per un progetto di valorizzazione dei beni etno-antropologici 

A partire dal 1967 fu proibito ai detenuti palestinesi di scrivere in carcere. A loro era permesso di scrivere lettere di sole dieci righe alle loro famiglie. Qualora avessero superato anche solo di una parola lo spazio consentito, l’amministrazione penitenziaria stracciava la lettera. Questo aspetto tendeva a creare una cesura, materiale e simbolica, più o meno marcata tra il contesto interno e la realtà esterna al carcere attraverso un ridimensionamento delle relazioni comunicative che venivano controllate dall’amministrazione. Questo processo consentì però ai detenuti di costruire tra di loro particolari rapporti grazie ad una circolazione, interna al carcere, di volumi conservati nella biblioteca carceraria. All’interno di questi libri i prigionieri annotavano segretamente fatti di vita quotidiana, avvenimenti di cronaca e notizie su eventi politici internazionali. In questo modo, i libri diventavano codici costruiti grazie ad un repertorio di simboli che rimandavano a significati e che si configuravano all’interno di modelli culturali propri del carcere. Interpretati in questo modo, i volumi erano come contenitori di idee attorno ai quali ruotava lo spirito di una “cultura di detenzione” dei prigionieri politici palestinesi. Essi erano quindi strumenti di classificazione di un determinato mondo e di un particolare periodo storico. In altre parole, i libri assumevano, nel contesto carcerario, una forza illocutoria che consentiva un “agire sociale” che aveva una propria efficacia nel riprodurre relazioni tra i detenuti. Di seguito sono riportati alcuni appunti di Beatrice Catanzaro nel periodo della sua permanenza a Nablus che contestualizzano il suo lavoro con i detenuti palestinesi: 

«La mia prima visita alla Biblioteca Municipale di Nablus risale al 2009 quando mi trovavo in Cisgiordania per una residenza artistica a Betlemme e avevo da poco intrecciato rapporti con la Old City Charity Society di Nablus, un’organizzazione locale non governativa nata durante la Seconda Intifada all’interno della città vecchia di Nablus, e in particolare, con Fatima Kaddumy, coordinatrice dei progetti con donne nella città vecchia. Rapporti che, l’anno successivo, nel 2010, mi avrebbero riportata a Nablus, e a vivere stabilmente fra Nablus e Gerusalemme fino al 2015, co-fondando il centro per donne e l’impresa sociale Bait al Karamab [1]. Bait al Karama, situato nel cuore della città vecchia di Nablus, è un’impresa sociale incentrata su attività culinarie che mettono al centro la cucina locale attraverso una scuola di cucina, tour culinari nella città vecchia di Nablus e attività di ristorazione, dal 2012 è il primo Convivium Slow Food della Palestina.
Durante la mia permanenza, la biblioteca municipale di Nablus, era per me il luogo dove rifugiarmi dal caldo estivo e dal caos del Suq – qui trascorrevo i pomeriggi a leggere indisturbata. Al secondo piano della struttura ottomana che ospita la biblioteca, c’è una stanza chiamata “the prisoner’s book section”. Questa stanza ospitava 8.000 libri letti dai prigionieri politici palestinesi tra il 1972 e il 1995 e 870 quaderni scritti a mano. Questi volumi e manoscritti facevano parte di altre due biblioteche di carceri israeliane per detenuti politici palestinesi che si trovavano in Cisgiordania, rispettivamente a Nablus e a Jnaid. Entrambi i centri di detenzione furono chiusi in seguito agli Accordi di Oslo. I libri e i quaderni lì conservati vennero quindi raccolti dalle Autorità Palestinesi e donati alla Biblioteca Comunale nel 1995.
Non avevo mai visto libri così consunti. Molti volumi erano stati rilegati utilizzando pagine di riviste che erano incollate sul dorso o sulle parti anteriori o posteriori del libro. Al loro interno e a margine del testo scritto c’erano disegni e annotazioni a testimonianza di quei prigionieri che per anni li hanno letti, maneggiati e presi in cura.
Incuriosita, iniziai a trascorrere giornate intere sfogliando i libri e i quaderni di quella collezione. Creai quindi un piccolo set fotografico per immortalare queste preziose documentazioni lasciate dai lettori detenuti nel carcere. Su alcune copertine di libri rilegate con delle riviste, di cui solo alcune erano ammesse (come per esempio Reader Digest e National Geographic), i prigionieri avevano incollato immagini di leader ed eventi politici e personaggi dello spettacolo degli anni Novanta, allo scopo di testimoniare gli eventi della vita pubblica nei Paesi Occidentali di quel periodo» (marzo 2015). 
Gli accostamenti di libri nella biblioteca (ph. Beatrice Catanzaro)

Gli accostamenti di libri nella biblioteca (ph. Beatrice Catanzaro)

I diversi libri, sui cui dorsi erano scritte frasi in una varietà di lingue diverse, dall’arabo all’inglese, dal francese allo spagnolo, erano accostati tra loro uno dopo l’altro. La Bibbia in versione inglese era, per esempio, accanto al libro sulla Grande Rivoluzione Americana del 1776 e il Diario di Anna Frank si trovava vicino a Orientalism di Edward Said (1978). Sugli scaffali c’erano tomi di teoria economica, sottili volumi di poesia, romanzi logori, libri di testo di matematica e fisica, opere classiche di filosofia e storia e molto altro ancora. Accanto a questi libri, c’erano quaderni con annotazioni, scarabocchi e disegni personali soprattutto di personaggi pubblici. Tutti questi volumi, che per decenni affascinavano i cuori e le menti di prigionieri palestinesi, costituiscono ora, dopo la chiusura delle due strutture di detenzione militare israeliane nel 1996, un corpus di preziosi documenti. La cura della conservazione dei libri e le testimonianze dei prigionieri in essi raccolte, hanno quindi consentito di aprire un nuovo progetto di costruzione di una biblioteca. Il processo preliminare di realizzazione di tale progetto è raccontato nelle note di Catanzaro: 

«Avevo incuriosito le bibliotecarie, Lufthie e Miriam, che, con non poche difficoltà linguistiche, avevano capito il mio interesse verso quei libri. Nel periodo in cui continuavo a sfogliare questi volumi, venne un uomo palestinese che chiese a Miriam un libro particolare. Si trattava di un volume di letteratura araba con la copertina rigida. Lei lo prese e lo consegnò a quell’uomo che rapidamente cominciò a tastare la rilegatura del libro infilandoci l’indice come se stesse cercando qualcosa. Miriam gli chiese allora cosa stesse cercando e lui rispose che lì nascondeva il suo ago da ricamo e che sperava fosse ancora lì. Questo aneddoto sarebbe poi diventato il titolo, dell’installazione artistica (‘A Needle in the Binding’) esibita nel 2011 a Gerusalemme in collaborazione con l’Al Mamal Foundation nella città vecchia di Gerusalemme.
Questo fatto mi indusse a chiedere più informazioni a Lufthie e Miriam. Pochi giorni dopo, le donne invitarono un ex detenuto politico palestinese, cognato di Lufthie e grande appassionato di libri, che si chiamava Khalil Ashour. Il giorno che incontrai Khalil, Miriam mi raccontò un aneddoto che divenne poi il titolo di un lavoro che esibii due anni dopo a Gerusalemme in collaborazione con l’Al Mamal Foundation nella città vecchia di Gerusalemme. Khalil era un ex prigioniero politico che rimase in carcere dal 1970 al 1982. Il giorno in cui conobbi Khalil venne anche Abdullah Abu Ghudeeb, pure lui ex prigioniero politico dal 1970 al 1982 e bibliotecario nella prigione di Nablus. Con loro iniziai un lungo periodo di conversazioni sul rapporto che i prigionieri instauravano con i libri durante la loro detenzione. Con Khalil mi incontravo ogni settimana. Egli mi raccontava dell’importanza dei libri conservati nei centri di detenzione e di come fosse importante che tutti i prigionieri politici palestinesi potessero accedere a modalità informali di istruzione» (marzo 2015). 
Le immagini disegnate nei libri dai detenuti palestinesi (ph. Beatrice Catanzaro)

Le immagini disegnate nei libri dai detenuti palestinesi (ph. Beatrice Catanzaro)

Nella prigione si era consolidata una vera e propria pedagogia carceraria informale. Ad insaputa delle guardie, tutti i detenuti analfabeti erano aiutati dagli altri prigionieri ad imparare a leggere e a scrivere. Alcuni di questi detenuti precedentemente analfabeti divennero poi dei giornalisti famosi, oppure poeti, altri diventarono attivisti, si iscrissero all’università oppure ebbero l’opportunità di diventare rappresentanti dell’Autorità Palestinese. I detenuti alfabetizzati leggevano ai compagni un capitolo al giorno di noti romanzi e le persone aspettavano con ansia il racconto del capitolo successivo.

Quando un prigioniero usciva dalla prigione, il resto della comunità carceraria sentiva di perdere un compagno in quanto sapevano che non lo avrebbero mai più rivisto. Beatrice Catanzaro continua affermando che: 

«Compresi come i libri diventavano un veicolo materiale per creare delle comunità all’interno delle carceri israeliane. I detenuti, per esempio, organizzavano una sorta di competizioni progettando quiz partendo dai contenuti dei libri a disposizione e mettevano in palio qualche sigaretta e del caffè. Essi inoltre copiavano interi volumi, in modo tale che quando qualcuno veniva trasferito in un altro carcere potesse portare con sé copie manoscritte dei libri. I detenuti con migliore calligrafia si sedevano quindi ad un tavolo e trascrivevano sotto dettatura interi volumi. Khalil ricorda di aver trascritto alcuni libri di Darwin. Abdallah mi raccontava invece delle sue peripezie nel trafugare materiale per la cura dei libri come colla, cartoni, carta etc. Mi mostrava spesso la sua tecnica per rilegare i libri particolarmente consumati. Si dispiaceva però nel vedere i libri “imprigionati” e dimenticati in biblioteca e non più usati e mantenuti vivi dalle persone. Ora infatti libri di una vasta collezione di poesia persiana, di scienze naturali, opere di autori come Franz Fanon, Pirandello, Jung erano, in effetti, abbandonati e pieni di polvere. Il loro stato di abbandono era, in quel periodo, totale» (aprile 2015). 
Khalil e Abdallah (ph. Beatrice Catanzaro)

Khalil e Abdallah (ph. Beatrice Catanzaro)

Grazie ai racconti di Khalil, per lo più incentrati sulla prigione di Asqalan, sappiamo anche che nel carcere di Biet Led l’amministrazione penitenziaria concesse, nel 1972, tre permessi importanti. Il primo fu la possibilità di far entrare in prigione il quotidiano, pubblicato in inglese, “Jerusalem Post”. I detenuti che parlavano inglese potevano tradurre gli articoli e le notizie rilevanti agli altri prigionieri. Il secondo riguardava la distribuzione di libri israeliani che spiegavano e difendevano il movimento sionista, il diritto ebraico in Palestina e che parlavano di organizzazioni palestinesi terroriste destinate a fallire.

Ritratto di un detenuto (ph. Beatrice Catanzaro)

Ritratto di un detenuto (ph. Beatrice Catanzaro)

Gli ex detenuti, raccontava Khalil, affermavano che queste informazioni servissero ad instillare nei prigionieri una visione israeliana in riferimento alla relazione con i palestinesi. Il terzo aspetto concesso nel carcere di Biet Led riguardava la possibilità per le famiglie di ogni detenuto di acquistare due libri al mese dietro l’approvazione della amministrazione della prigione. I libri dovevano però essere riconsegnati quando il prigioniero veniva scarcerato oppure trasferito. Grazie a quest’alto numero di libri venne quindi fondata la prima Biblioteca nel carcere di Biet Led. Beatrice Catanzaro annota inoltre che: 

«Dopo quel periodo di campo tornai, per qualche tempo in Italia, ma dal 2010 al 2015 mi trasferii nuovamente in Palestina. Ritornata a Nablus, mi recai nella biblioteca dove ritrovai Lufthie e Miriam. Ripresi inoltre i miei incontri con Khalil. Cominciai a fotografare assiduamente i libri. Non avevo ancora idea di cosa poteva diventare quel materiale. Ciononostante, la mia costante presenza nella biblioteca catalizzava sempre più l’interesse dello staff e del direttore al quale avevo espresso il mio dispiacere nel vedere i libri giacere in quelle condizioni. Nel 2011 fui invitata da un’importante Fondazione di Arte Contemporanea a Gerusalemme Est, chiamata l’Al Mamal Foundation, per una mostra diffusa nella città vecchia di Gerusalemme. In quell’occasione decisi di coinvolgere la biblioteca. In collaborazione con Khalil, selezionammo 239 volumi che letteralmente “trafugammo” a Gerusalemme Est attraverso il muro di segregazione che divide la Cisgiordania da Israele. I cittadini palestinesi residenti in Cisgiordania infatti non possono visitare Gerusalemme e quindi devono attraversare il muro di segregazione muniti di permessi speciali rilasciati dalle autorità Israeliane. I libri furono esibiti per circa tre settimane nella biblioteca privata Khalidi nella città vecchia di Gerusalemme in cui fu ricreata una vera e propria sala di lettura. Della mostra facevano parte anche tre video realizzati con Khalil ed Abdallah che raccontavano la storia di come i libri fossero divenuti parte integrante del fare comunità dei prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.
Questa mobilitazione spinse l’allora direttore della biblioteca carceraria ad adoperarsi in una radicale azione di pulizia e disinfestazione della sezione dei libri dei prigionieri che durò per diverse settimane prima della partenza dei libri dalla biblioteca di Nablus per Gerusalemme. Fu proprio questa pratica di cura a dare inizio ad una nuova vita per i libri in biblioteca. Nei mesi successivi, al rientro dei 239 volumi, venne scritta un’insegna, in inglese e in arabo, nella Biblioteca Municipale che raccontava la storia di questa sezione di volumi, venne realizzata una nuova scaffalatura e due teche che, da allora, mettono in mostra alcuni libri con le testimonianze, scritte e disegnate, dei prigionieri. In quel periodo, fui invitata ad un’altra iniziativa artistica promossa dal Museo dell’Università di Birzeit (Ramallah), Between Ebal and Gerzim, per la terza edizione di Cieties Exhibition che quell’anno si teneva proprio a Nablus (https://universes.art/en/nafas/articles/2011/nablus). Per l’occasione decisi di utilizzare il medesimo dispositivo che esibii a Gerusalemme installandolo nella sezione dei libri dei prigionieri nella biblioteca ed invitando Khalil ed Abdallah a presentare pubblicamente la loro esperienza di ex-detenuti politici palestinesi. Durante l’esibizione, il pubblico della mostra passeggiava tra gli scaffali. Alcuni si commuovevano al ricordo personale di aver toccato quei libri, altri ricordavano la storia della resistenza palestinese e la collegavano al fatto di come quei libri avevano restituito loro una dignità e di aver consentito la formazione di una vera e propria comunità di prigionieri. Continuai a frequentare assiduamente la biblioteca negli anni successivi. Vi portai giornalisti oppure semplicemente dei visitatori. Lo staff della biblioteca cominciò a vedere quel luogo con occhi nuovi e a dare un senso a quel materiale che era stato riscoperto» (aprile 2015). 
Ritagli di giornali usati per rilegare i libri (ph. Beatrice Catanzaro)

Ritagli di giornali usati per rilegare i libri (ph. Beatrice Catanzaro)

Conclusioni 

Nel tentativo di “far parlare le cose mute” (Sorgoni, Viazzo 2012), il progetto della costruzione di una nuova biblioteca in cui conservare i volumi maneggiati dai detenuti palestinesi, ci invita a riflettere su come gli eventi conflittuali possano intersecarsi anche con discorsi sulla conservazione del patrimonio culturale e come, da tale interconnessione, possano emergere nuove possibilità progettuali artistiche e storico-antropologiche. In questo modo, il corpus dei documenti si dilata ad abbracciare la storia dei soggetti che fino ad allora era stata ignorata consentendo anche di porre nuove domande sia ai testimoni sia alle loro testimonianze.

Quaderni in cui si copiavano i testi dei libri (ph, Beatrice Catanzaro)

Quaderni in cui si copiavano i testi dei libri (ph, Beatrice Catanzaro)

L’aspetto più interessante del lavoro di Beatrice Catanzaro è stato quello di aver raccolto un corpus di testi e catalogato le immagini e le annotazioni dei prigionieri palestinesi disegnate e scritte all’interno dei libri. La catalogazione di queste immagini, grazie ad una documentazione fotografica effettuata dall’artista, ci consente di trattarle sia come rappresentazioni concrete di percezioni visive, sia come raffigurazioni mentali individuali e collettive che vanno a costituire vasti depositi culturali dell’immaginario nutrito creativamente dalla fantasia e da nuove interpretazioni, da disegni e da pratiche di “reportage”. I libri maneggiati e curati dagli ex detenuti palestinesi diventano centrali, non solo per un lavoro artistico, ma anche nella ricerca etnografica in quanto oggetti da raccogliere e allo stesso tempo strumenti con cui raccogliere dati.

Nella cultura carceraria analizzata in questo contributo circolavano, per mezzo di questi volumi, densi flussi di immagini prodotte con diverse tecniche ciascuna delle quali tendeva a sviluppare codici semiotici particolari. Nel trasformare la raccolta di questi volumi e delle immagini in essi contenute in un progetto di conservazione del patrimonio culturale, è utile procedere attraverso un processo in cui questo corpus viene percepito e poi trasformato cognitivamente ed esteticamente in un prodotto culturale, archiviato nell’immaginario per essere successivamente trasmesso attraverso varie forme di fruizione in continua evoluzione semantica e tecnologica.

Immagini e scritte dei detenuti palestinesi (ph. Beatrice Catanzaro)

Immagini e scritte dei detenuti palestinesi (ph. Beatrice Catanzaro)

Ciononostante, non sono molti gli studiosi che si sono cimentati con lo studio sistematico di questo tipo di repertori, i quali tendono ad agire in maniera sottile e onnicomprensiva. Tra questi, Aby Warbur e gli storici dell’arte che fanno riferimento alla cosiddetta iconologia, hanno – come è noto – a più riprese affrontato la produzione e la circolazione delle immagini e di oggetti in diversi contesti culturali. In ambito più strettamente antropologico invece Serge Gruzinsk (1990) ha a lungo studiato le caratteristiche dell’immaginario messicano e l’impatto che su di esso ha avuto la tradizione cattolica che si è avvalsa di un uso massiccio di immagini. L’etnografo ha quindi raccolto l’iconografia “trovata” sul campo della quale ha mostrato gli usi, le origini, i processi di cambiamento e i significati da essa veicolati (Pennacini 2012).

Insegna sopra una nuova scaffalatura di libri (ph. Beatrice Catanzaro)

Insegna sopra una nuova scaffalatura di libri (ph. Beatrice Catanzaro)

Il lavoro di Beatrice Catanzaro rappresenta quindi un esempio di come una lunga storia di conflittualità può innescare anche possibilità di conservazione della memoria e la creazione di progetti di rivalorizzazione culturale in cui il ricercatore (artista oppure antropologo) può costruire fruttuose collaborazioni con le persone. Se le ragioni e gli obiettivi della ricerca nell’arte o nell’antropologia possono rimanere fondamentalmente distinti da quelli che spingono comunità o individui a realizzare rappresentazioni della loro cultura, è proprio il confronto, lo scambio e, talvolta, anche le discordanze tra questi diversi punti di vista a risultare fruttuosi. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024 
Riferimenti Bibliografici 
Armano L. (2018), La cultura di miniera nelle Alpi. Autorappresentazione della categoria professionale die minatori, Aracne Editrice, Roma. 
Büscher B., Dressler W., Fletcher R. (2014), Nature Inc.: Environmental Conservation in the Neoliberal Age, Tuscon: University of Arizona Press. 
Evans A. D. (2010), Five Capturing Race: Anthropology and Photography in POW Camps during World War I. In Anthropology at War: World War I and the Science of Race in Germany, University of Chicago Press. 
Gruzinsk S. (1990), La guerre des images de Christophe Colomb à “Blade Runner” (1492-2019), Fayard, Paris.  
Guarasci B., Kim E. J. (2022), Introduction: Ecologies of War, Society for Cultural Anthropology. 
Guarasci B. (2015),  Arab Studies Journal 23 (1): 128–53. 
Kaplan C., Kirk G., Lea T. (2020), Everyday Militarisms: Hidden in Plain Sight/ Site, Forum, Society + Space, March 8, 2020. 
Kim E. (2022), Making Peace with Nature: Ecological Encounters Along the Korean DMZ, Durham, NC: Duke University Press. 
Henig D. (2012), Iron in the Soil: Living with Military Waste in Bosnia-HerzegovinaAnthropology Today 28 (1): 21–23. 
Masco J. (2006), The Nuclear Borderlands: The Manhattan Project in Post-Cold War New Mexico, Princeton, NJ: Princeton University Press. 
Navaro-Yashin Y. (2012), The Make-Believe Space: Affective Geography in a Postwar Polity, Durham, NC: Duke University Press. 
Nixon R. (2011), Slow Violence and the Environmentalism of the Poor, Cambridge, MA: Harvard University Press. 
Peluso N. L., Watts M (eds.) (2001), Violent Environments, Ithaca, NY: Cornell University Press. 
Pennacini C. (2012), Immagini. In Pennacini C. (ed.) La ricerca sul campo in antropologia. Oggetti e metodi, Carocci Editore, Roma. 
Edward W. Said E. W., (1978), Orientalism, Pantheon Books, New York. 
Sanga G. (2008), Le radici lunghe dei canti di guerra, in «Il Ventennio fascista. II. La Seconda guerra mondiale (1940-1945)», vol. II, Utet, Torino. 
Smith G. (ed.) 2017, The War and Environment Reader, Charlottesville, VA: Just World Books. 
Sorgoni B., Viazzo P. P. (2012), Documenti. In Pennacini C. (ed.) La ricerca sul campo in antropologia. Oggetti e metodi, Carocci Editore, Roma. 
Stoler A. (2008), Imperial Debris: Relections on Ruins andr RuinationCultural Anthropology 23 (2): 191–219. 
Woodward R. (2014), , Progress in Human Geography 38 (1): 40–61.

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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali. Ha pubblicato recentemente la monografia Esplorare valore e comprendere i limiti, Quaderni di “Dialoghi Mediterranei” n. 3, Cisu editore (2022).
Beatrice Catanzaro è artista, ricercatrice e lecturer. Insegna presso la NABA Art Academy (Milano) e l’Accademia Unidee di Cittadellarte – Fondazione Pistoletto (Biella). Ha conseguito il dottorato di ricerca presso la Oxford Brookes University con la Social Sculpture Research Unit. Catanzaro ha co-fondato il centro per donne e impresa sociale Bait al Karama nella città vecchia di Nablus, Cisgiordania (Palestina). Il suo lavoro è stato esposto in musei e sedi internazionali come il Museo MART, Rovereto; la Fundacao Gulbenkian, Lisbona; l’Espai d’Art Contemporani (EACC), Castellón; la Quadriennale di Roma, Roma. Vive e lavora a Milano.

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[1] https://baitalkarama.org

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