La distinzione odierna occidentale dell’Arte dalla non arte è una dicotomia recente. Nelle sue formulazioni più esplicite risale al Settecento, e da allora include altre dicotomie che attraversano le società occidentali, il loro comune modo di vivere e di pensarsi, il loro modo di guardare e classificare gli ‘altri’, socialmente e culturalmente, dentro e fuori di esse: dicotomie che caratterizzano i loro dislivelli di cultura e i rapporti di potere interni ed esterni. Dietro l’opposizione fra arte e non arte infatti si celano altre opposizioni, come fra arte o belle arti e artigianato, fra artista e artigiano – con le sue ulteriori distinzioni, quali artigianato e artigianato artistico – fra arti maggiori e arti minori, fra arte popolare o di massa o commerciale e arte colta o d’élite. Soprattutto vi si nasconde la grande separazione gerarchica fra il piacere utile e quotidiano e il piacere che non nasce da bisogni e non è rivolto a cose funzionali: cioè fra estetica – come si è soliti definire il piacere ‘alto’, ‘colto’, ‘puro’, ‘disinteressato’, o anche ‘trascendente’ e ‘spirituale’ – e utilità o funzione, e quindi fra creazione e produzione, fra genialità e regola, fra ispirazione e calcolo, fra originalità e imitazione o serialità, fra spontaneità e abilità. Tutta una catena di opposizioni gerarchiche che separa il ‘mondo dell’arte’ dalla società, dalla cultura comunque intesa, dal ‘resto’ della vita.
Un approccio ‘culturale’ e olistico, soprattutto non etnocentrico, nella delineazione del processo di costruzione delle idee, delle pratiche e delle istituzioni delle arti, è quello adottato, per esempio, da Larry Shiner in The invention of Art. A Cultural History (2001). Shiner mostra che tutte le opposizioni sopra elencate, a partire da quella fra arte e artigianato, non esistevano e che solo nell’Ottocento il concetto moderno di arte si è affermato fra le élites borghesi euro-americane. Prima arte e artigianato erano tutt’uno, anzi, «praticamente tutte le culture umane hanno posseduto l’arte nel vecchio e ampio significato: qualsiasi cosa realizzata o eseguita con abilità e grazia, per un determinato fine o per un determinato luogo» (Shiner 2010: XXVI). Il sistema moderno dell’arte non è universale, né irrinunciabile, e non si può, nella pratica degli studi e dei rapporti tra i modi di vivere, proiettarlo sul passato lontano, assegnando un’arte agli antichi cinesi ed egizi, né sui popoli colonizzati, inventando quella che artisti e critici occidentali chiamarono “arte primitiva”, né sulle classi subalterne o popolari europee e d’altrove. Shiner sostiene che il sistema moderno dell’arte non affonda le sue radici nell’antica Grecia: per i Greci antichi la techne, detta ars dai Romani, indicava ogni abilità umana, e l’arte si opponeva non all’artigianato ma alla natura. É semmai l’idea e la pratica delle arti in Occidente negli ultimi due secoli che ha amato immaginare le sue radici nella Grecia antica: dove invece il sistema delle arti, sopravvissuto per un paio di millenni, era un complessivo saper fare di artisti-artigiani collaboranti per realizzare anche una singola opera a più mani e menti, come poi gli affreschi di Raffaello, le produzioni teatrali di Shakespeare e le musiche di Bach (Shiner 2010: 4-8).
Il venir meno del vecchio sistema delle arti, sostituito dal nuovo sistema di ideali e concetti regolativi (artista, creazione, capolavoro), di pratiche e istituzioni artistiche (collezionismo e musei, concerti profani, diritto d’autore), si collega all’affermarsi dell’economia di mercato, anche dell’arte, alla crescita della classe media e di sue aspirazioni sociali, al calo dell’analfabetismo, alla formazione di un pubblico borghese dell’arte. Si collega cioè alle condizioni sociali nuove che hanno offerto, con la produzione industriale, possibilità tecniche nuove per attività e prodotti artistici vecchi e nuovi, come già prima la stampa, poi i colori industriali, gli strumenti musicali, poi ancora la fotografia, il cinema, la televisione, l’informatica. Mediatrici fondamentali fra questi contesti socioeconomici e l’affermarsi dei nuovi gusti e concetti estetici furono le nuove istituzioni d’arte che offrirono «i luoghi nei quali fare esperienza e discutere di poesia, pittura o musica strumentale al di fuori delle loro tradizionali funzioni sociali» (Shiner 2010: 121). La separazione dell’artista dall’artigiano si accompagnò nel Settecento al passaggio dalla committenza e dal mecenatismo al mercato, al passaggio dal lavoro concreto, il cui prodotto era finalizzato all’uso e al diletto, al lavoro astratto che crea un’opera destinata allo scambio e alla contemplazione. Nell’Ottocento questo processo ha prodotto la santificazione delle belle arti nell’Arte, quale «indipendente e privilegiato regno dello spirito, della verità e della creatività» (Shiner 2010: 168-171, 253).
L’idea dell’invenzione storicamente determinata del moderno sistema delle arti è condiviso, con qualche incertezza, anche da José Jiménez, che in Teoria dell’arte (2002) critica le idee attuali sull’arte nei diversi ambiti, di «ciò che chiamiamo arte nell’attualità», e cioè «un insieme di pratiche e attività umane completamente aperto» o, per dirla con Dino Formaggio, «l’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte» (Jiménez 2002: 45-47). Un bel passo avanti nel non escludere, mantenendo però la distinzione fra arte e non arte, quasi non fosse una distinzione storicamente determinata bensì degli “uomini” in genere; come sembra ancora fare spesso la sociologia odierna dell’arte o dell’estetica, che si occupa «di ciò che viene o non viene incluso tra le arti, arte e non arte» in quanto «costantemente sottoposto alla processualità dei sistemi culturali» (Finocchi 2005: 9), come se tutti i sistemi culturali sottoponessero sempre e dappertutto la vita a una processualità che discerna tra arte e non arte alla maniera euroccidentale di oggi. Differenziando l’arte dall’estetica, Jiménez attribuisce all’estetica un carattere universale, in senso antropologico, diversamente dall’arte, frutto della «nostra tradizione culturale» e che «riguarda un modo specifico di istituzionalizzazione delle manifestazioni estetiche» (Jiménez 2002: 50).
Jiménez è più attento alla ricostruzione, fin dal mondo antico, degli elementi di continuità nelle concezioni e nelle pratiche moderne di arte. Shiner è più vicino all’approccio antropologico più accorto e produttivo, perché mostra che la distinzione fra arte e non arte, o fra Arte e arte, è tutta moderna euroccidentale, che è una frattura inaudita nel passato e altrove: ciò che prima e in altre culture appare unito a un certo punto viene scisso, sebbene vecchie idee e pratiche del mondo antico in parte continuino, sia nel mondo popolare moderno sia nel nuovo ed egemone sistema sociale delle arti. Il quale tende anche a bandire dal sistema ideale e pratico delle arti, e più in generale dalla dimensione estetica umana, le nozioni di utilità e di funzionalità, anche in modo surrettizio, a favore di una generica espressività (Ronzon 2006), anche nel senso di una pansemiologia escludente (Cirese 1984).
La separazione dell’utile dall’estetico, o dalle belle arti, è un luogo cruciale dell’idea di arte dominante. Essa ha origini e consonanze nella divisione gerarchica delle attività umane e di coloro che le compiono. Non mancano i tentativi, come quello di John Dewey, in Arte come esperienza (1934), di riunire l’arte con l’esperienza anche quotidiana, di ricomprendere le ‘belle’ arti con le arti ‘utili’, senza giungere però a superare la dicotomia fra utilità ed estetica (in Shiner 2010: 352-354), e quindi a individuare l’estetica anche nella funzionalità, nell’utilità dell’artefatto e/o della performance, che non è utilità e funzionalità extra-estetica o extra-artistica. È questo anche il caso di Walter Benjamin (1936) quando indicava che la riproducibilità tecnica, la serialità come nel cinema e nella fotografia, faceva venir meno l’unicità irripetibile dell’opera d’arte, la sua aura sacrale, a vantaggio di una fruibilità più larga e democratica. Che c’è stata, se solo si pensa alla popolarità del cinema, sebbene le arti nei modi più tipici occidentali negli ultimi decenni abbiano continuato a muoversi e a ricercare insistendo su aspetti come l’autorialità e l’aura, se è vero che Jackson Pollock, aureolando con l’aura l’artista, metteva in primo piano il gesto rispetto al prodotto estetico, e se è pure esatto che Andy Warhol sacralizzava di aura artistica le foto seriali di Mao e Marilyn.
C’è stato cioè un concentrarsi di molti sperimentatori su modi nuovi di creare la sacralità auratica con qualunque mezzo, forma e prodotto, dal proprio corpo a un’operazione chirurgica, sulla strada aperta da Marcel Duchamp col suo orinatoio. Ma soprattutto ciò è accaduto e accade sulle strade del mercato (Dal Lago e Giordano 2006), con tutti i suoi adepti a cominciare dall’artista, che non è se non nel mercato coi suoi fruitori, attraverso i vari altri addetti e ‘definitori’ quali mostre, musei e rassegne, che mediano la mercatilizzazione continuando a fornire e a fingere modi, luoghi e contenuti di senso ad attività e a prodotti che si vogliono spesso, non volendo essere merci, disperatamente artistici. E intanto un George Kubler affermava che «i prodotti dell’uomo includono sempre utilità e arte» (Kubler 1962: 22), ma poi fa anche lui molta fatica a tenere insieme utilità e arte, almeno sotto l’etichetta della desiderabilità degli artefatti, dei quali mantiene in fondo separate la ‘natura’ utilitaria ed estetica, arte e uso, anche in culture, come quelle precolombiane da lui studiate, dove ciò non pare accadesse o potesse accadere (Kubler 1962: 7). E intanto, soprattutto, il mondo auratico e pseudo-autonomo delle arti, specie visive e uditive o entrambe, è insieme ispiratore di, ma anche circondato, insidiato, contaminato da fenomeni estetici considerati ‘extravaganti’ e soprattutto minori e spurii nella loro tradizionale normalità o nella loro stravagante imitazione dei modi ufficiali.
Fenomeni vecchi e nuovi, variamente estranei alle pratiche e ai modi dell’arte per l’arte e simili: per esempio religiosi, dagli ex-voto popolari di molti santuari cattolici alle processioni da sempre multimediali per lo meno nel senso dell’espressione francese son et lumière, alle infiorate e ai presepi, ai palii e ai vecchi e nuovi carnevali, o ai normali ornamenti vegetali sui balconi; o politico-sindacali, sportivi, individuali e collettivi, con una loro complessa estetica sociale del raduno di massa anche globalizzato come nelle Olimpiadi, dallo sport al concerto rock, mentre continuano e si sviluppano vecchie e nuove estetiche solitarie nella lettura e nell’ascolto con nuovi mezzi; o le estetiche nuovissime delle varie outsider art, street art, computer art, in varia dipendenza contestativa delle arti visive e uditive ufficiali. Vecchie e nuove attività e artefatti con un loro mercato più o meno rilevante, che suggeriscono attenzione (Dal Lago e Giordano 2006 e 2008) ma non ancora quella drastica correzione di rotta negli studi specialistici e nel senso comune colto, che queste e altre attività e prodotti estetici impongono, non solo con il loro non rifarsi alle arti ufficiali contemporanee, ma vivendo nella vita quotidiana e festiva del necessario nutrirsi, vestirsi, abitare, mostrarsi, riunirsi, divertirsi e così via. Tutte attività anche estetiche tanto più importanti e vitali quanto poco bisognose di quel tipo di consapevolezza esclusivista del ‘mondo dell’arte’ colto e ufficiale, ‘mondo dell’arte’ che sembra fondarsi anche sull’ignoranza del mare di estetica diffusa in cui solo può galleggiare o emergere e finora navigare a vista.
Pareri come quelli di Focillon, Shiner, Jiménez, Dal Lago e Giordano, Benjamin, Dewey, Kubler e tanti altri consentono di guardare all’arte in modo includente e non escludente. Soprattutto inducono a vedere finalmente «l’arte oltre l’arte» (Dal Lago e Giordano 2008), cioè la valorizzazione estetica nel complesso e nella complessità varia del fare, del dire e del sentire. In essi, a parte Focillon e Shiner e meno decisamente Jiménez, l’estetica e la funzione o utilità, pur non essendo più suddivise in gerarchia, rimangono ambiti a sé stanti, ma sempre assediati e insidiati dal resto della vita. Leroi-Gourhan estende la dimensione estetica a tutta la vita umana, superando in modo disvelante anche la divisione fra dimensione estetica e funzionale. La ricerca della funzionalità nella produzione di un artefatto quanto nel suo uso ridiventa parte dei modi umani di manifestarsi nel fare, nel dire e nel sentire, così come è stato per milioni di anni nel processo di ominazione e in ogni antropopoiesi storica.
Il ruolo del senso o gusto estetico nei grandi processi gerarchizzanti etnocentrici e razzistici evidenzia l’omnipervasività dell’estetica, per quanto contribuisce a costruire paradigmi egemonici. Nel Settecento i canoni del classicismo rinascimentale furono sublimati dal Winkelmann, padre dell’archeologia e della storia dell’arte, con la mitizzazione dell’arte greca come assoluto dell’arte e come metro dei valori morali e spirituali di uomini e popoli. Anche con questi parametri estetici si sono individuate negli ultimi secoli civiltà e barbarie, restando misure di umanità dei razzismi attuali (Bianchi Bandinelli 1985).
Ciò che diciamo arte si riduce a poco se visto stare tutto e sempre solo da una parte e solo iuxta propria principia, mentre tutto il resto della vita starebbe da un’altra parte da cui l’arte si separa e si difende. Produrre arte, e in fondo essere artisti, è una caratteristica fondamentale della nostra specie, è bisogno e capacità ‘fissata’ nella nostra memoria genetica. Ma, nota Marvin Harris (1992), le persone di media e alta cultura in Occidente fin dall’infanzia sono abituate a ritenere che ci sono cose artistiche e altre che non lo sono, che ci sono artisti e altri che non lo sono, che l’arte stia in un luogo particolare e separato della nostra vita, per esempio nei musei e non nelle officine, nei romanzi e non nelle barzellette. Questo habitus occidentale è un elemento non solo del senso comune colto e semicolto (e kitsch) ma anche di filosofie raffinate, anche quando partano dal riconoscimento che ciò che si dice arte è anch’essa un prodotto della necessità umana elementare di produrre beni materiali, regole e senso per ricavarne soddisfazione e agio di vivere insieme o al di là della mera utilità.
La storia dell’arte e altri modi di guardare alle arti mostrano che in ciò che la nostra cultura considera artistico c’è varietà di tempo, di luogo e di strato sociale. La varietà dei modi e delle cose su cui le diverse culture investono di più esteticamente è nota, ma l’investimento estetico caratterizza tutti i modi di vivere, mai privi di attività e di prodotti che servono a garantire l’agio di esistere. È esperienza comune la varietà culturale anche nei modi in cui si investe in tempo libero, da noi spesso pensato come luogo di ozi estetici. La separazione tra ciò che è artistico da tutto il resto è una caratteristica emic, cioè interna e propria, della cultura euroamericana di oggi. É storicamente determinata la convinzione che l’arte sia e debba essere separata dalla religione, dalla politica, dall’economia, dalla tecnologia e da tutto il resto; che le idee e le pratiche di libertà e separatezza assolute delle attività artistiche e degli artisti sono solo un prodotto recente della cultura occidentale degli ultimi due secoli circa, diventato senso comune tenace per minoranze colte. La maggior parte dell’umanità fino a oggi è vissuta senza conoscere e praticare distinzioni tra cose come quelle che noi diciamo arte e altre cose che non lo sono, come anche senza concepire e praticare una distinzione, per noi ovvia, tra naturale e soprannaturale, e senza altre dimensioni del vivere e del pensare la vita che per noi sono ovvie e naturali, indispensabili, come la nozione e il sentimento di essere persona, individuo, che in certe culture è cosa così diversa o tenue da apparirci inesistente, come hanno mostrato, tra gli altri, Mauss, Leenhardt, Geertz, Dumont: un io plurale, un noi, su cui però anche da noi hanno insistito di recente alcune scuole di psicologia o di psichiatria, o, meglio, di antipsichiatria.
La nozione di arte, distinta da ciò che non è arte, oggi dominante in Occidente si diffonde sempre più nel resto del mondo, comprese le peculiarità della vita d’artista, dell’opera unica e irripetibile, della ricerca indefettibile del nuovo, dell’autorialità e così via. Anche da noi tutto ciò passa dagli strati sociali più alti al senso comune anche attraverso la produzione e il consumo di massa. La separatezza di arte e non arte è convinzione che si rinnova e si ribadisce per ogni tempo e luogo, sebbene si sappia che, per esempio, un artista come Michelangelo ha prodotto le pitture della Cappella Sistina aderendo alla committenza papale che quelle pitture costituissero un’esposizione per immagini della concezione ebraico-cristiana dalle origini fino al giudizio universale.
Il senso comune popolare afferma in proverbio che anche l’occhio vuole la sua parte e che non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace. Ma è difficile accettare che è esclusivo del nostro modo di vivere considerare e praticare certe attività – che abbiamo ‘deciso’ che sono (le sole) di tipo artistico ed estetico – come attività da separare dal resto della vita, di qualità e tipo diverso rispetto a tutte le altre, e che stanno in una dimensione dove non sta tutto il resto della vita (‘normale’ e dunque ‘non artistica’). Bisogna ribadire la storicità transeunte, provvisoria, recente e già in crisi di questo modo di concepire e di praticare le ‘arti’. E riconoscere la maggiore utilità di comprendere che tutta la vita dell’uomo è sempre in dimensione estetica, sebbene le varie culture privilegino esteticamente certi aspetti del proprio modo di vivere.
La distinzione fra vita normale e vita dell’arte è da superare perché ristretta e povera. Non è per caso che si recuperano, sia da culture esotiche sia popolari tradizionali dell’Occidente, pratiche e concezioni di vita senza ambiti esclusivamente artistici, dove si dava e ancora si dà, per esempio, che la danza o il canto o il racconto siano aspetti della vita quotidiana. Mentre già convivono arrivando da lontano altri modi di vivere la dimensione estetica nella mondializzazione. Nella stessa cultura euroamericana, la vita normale non è separata e non è separabile dalla dimensione estetica, come riconosce ancora un vecchio senso comune ‘pre-kantiano’. Se la tendenza alla specializzazione porta sempre più a far diventare specialismi artistici anche attività che prima non erano considerate tali, come il vestirsi alla moda, il vestirsi resta necessità pratica, ma sempre in dimensione più o meno estetica: eppure oggi la moda o fashion style, attività estetica specialistica legata al vestirsi, ha generato lo stilista specialista, a volte caricaturalmente artista, come da sempre l’architettura nell’ambito del fare case e così via. In questi decenni si vive una trasformazione accelerata di attività elementari (vestirsi, abitare e nutrirsi eccetera) in attività specialistiche della dimensione estetica.
L’assenza di distinzione, esplicita ed efficiente, fra arte e non arte, e più banalmente fra utile e bello e anche brutto, non è solo di molte altre culture di tutti i tempi e luoghi, ma è anche nostra di oggi, dove ogni vita umana è vissuta in dimensione estetica, se l’uomo non può mai mancare di agio del vivere individuale e sociale. Le attività umane sono tali in quanto capaci di soddisfazione, almeno in una vita ultraterrena. Non c’è attività che non possa diventare momento privilegiato ed eccezionale della dimensione estetica, come la tavola imbandita, il corpo e la casa ben tenuti. Se la sposa ben vestita pare sempre ovunque un obbligo, l’estetica del vestirsi non si manifesta solo in riti di passaggio come le nozze, ma più o meno e variamente sempre. Walter Benjamin (1936) nota per le nostre società odierne che la vita quotidiana è influenzata esteticamente dalla riproducibilità tecnica delle opere d’arte. Il tempo stesso è una costruzione umana da cui non è pensabile escludere una matrice estetica: sia perché si hanno sempre tempi festivi e tempi normali correlati, e il tempo per produrre beni e servizi produce il tempo usato in attività del tempo libero esteticamente valorizzato, sia perché le varie nozioni e usi del tempo non paiono possibili se non come risultati di valorizzazioni estetiche. L’umanizzazione del tempo e dello spazio è un compito che si compie sempre in dimensione estetica.
Negli strati ‘colti’ e ‘semicolti’ occidentali da un paio di secoli è tenace l’idea che la dimensione estetica stia solamente nell’originalità, nell’innovazione. Ma non è una necessità estetica perenne l’originalità mediante la rottura di norme condivise. La ripetizione può essere creativa in quanto tale. In musica vale più l’interpretazione filologicamente ligia a quella del compositore o l’innovazione alla Glenn Gould? La ripetizione o imitazione più pedissequa avrà sempre variazioni creative che distingueranno una interpretazione dall’altra anche dello stesso esecutore. Né da noi, né in altre culture, l’originalità è indispensabile all’apprezzamento estetico, dato che il nuovo è sempre un nuovo storicamente determinato (Vygotskij 1964), anche nel senso che presuppone abilità sociali condivise stratificate nel tempo. Come proponeva Henri Poincaré, la creatività è unire utilmente elementi esistenti in connessioni nuove. L’osservanza della norma quanto lo scarto dalla norma sono espedienti della dimensione estetica, sebbene da noi si valorizzi molto più l’innovazione anche astrusa che la norma condivisa, ciò che diciamo da tempo gusto corrente, spesso diminuito in corrivo. L’ossessione dell’originalità e dell’innovazione genera la noia ossessiva della ripetizione. Ma senza neppure allargare gli orizzonti alla molteplicità della variazione culturale, anche all’interno degli orizzonti estetici occidentali appare chiaro che anche chi si sforza di innovare si ripete e viceversa innova anche chi si impegna a riprodurre. Come fu detto ai primordi dell’Occidente, e certo con emozione estetica, se tutto passa e non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume, tutto però nasce sempre nuovo (Perniola 1991).
Non è del nostro senso comune la consapevolezza che si vive anche e necessariamente di ‘automatismi’ sociali vitali acquisiti e variamente condivisi all’interno di uno dei molti modi di vivere. Il nostro odierno senso comune non sa rinunciare all’idea e alla pratica gerarchizzante secondo cui i prodotti, le attività e le capacità artistiche sarebbero in dotazione solo di qualcuno e starebbero solo in certe cose e non in altre da cui l’arte deve proteggersi. Ma la dimensione estetica è connaturata e costitutiva della nostra specie, e come ogni altro aspetto del vivere umano si realizza in modi, in codici del sentire sempre più o meno diversi ma funzionalmente convergenti anche nel senso della loro ineluttabilità transculturale, tanto quanto la tecnicità e il linguaggio. Se è utile distinguere l’arte, come tipica manifestazione estetica moderna occidentale, dall’estetica come dimensione umana elementare (Jiménez 2002), bisogna al contempo ribadire che, come è stato ben detto che «la natura dell’uomo è la cultura» (Sahlins 2008), la natura dell’uomo è anche l’estetica. Non tanto quindi dare un Addio all’estetica (Schaeffer 2000) in nome delle attuali mutazioni nel campo delle arti, quanto piuttosto rivalutare l’estetica come fenomeno umano universale sempre in rinnovata varietà.
Picasso, come altri artisti del Novecento, si è ispirato all’arte ‘primitiva’. Eppure si trattava di pentole, scodelle, bastoni da scavo e altre cose che noi consideriamo non artistiche. Gli artisti che si ispiravano all’arte africana li hanno fatti diventare oggetti artistici alla maniera occidentale. L’irruzione delle forme extraeuropee negli ateliers degli artisti, così come l’irruzione nel mondo musicale euroamericano dei ritmi e dei suoni afro-americani, ha fatto un bello scompiglio. Gli oggetti d’arte africana erano oggetti d’uso, e anche le danze, i ritmi e i suoni afro-americani erano patrimonio comune delle comunità nere americane che non li pensavano come un genere artistico ma li vivevano come un aspetto di attività lavorative, o rituali, erano canti di lavoro, o sacri, preghiere, o passatempo, ricreazione: in una dimensione che metteva insieme i movimenti ritmici del corpo con i suoni e le parole, che noi percepiamo, per nostro habitus, come musicali e li inseriamo ormai nell’arte della musica che conta. Ma qualche ragione generale c’è, sia per noi quando oggi, con il senno di poi, consideriamo il jazz come un’arte musicale, sia per i parigini che mettevano in museo una maschera rituale africana. Perché più in generale è una pretesa radicata del senso comune colto occidentale che l’arte sia in un luogo particolare, di gente particolare, che fa prodotti particolari e di particolare livello. Pretesa che lascia fuori tanto mondo e troppa vita. Picasso aveva molte ragioni per ispirarsi all’arte africana, considerando arte una scodella o una maschera rituale, sebbene la dimensione estetica africana non fosse quel quid particolare, a sé, com’è ovvio in Occidente.
Un oggetto pratico come un bastone da pastore può essere artistico quanto un prezioso pastorale papale, se l’uomo fa tutto anche secondo intenzioni e funzioni estetiche più o meno evidenti. Uno dei piaceri, che la nostra cultura ha sviluppato come generatrice di approvazione estetica, è che un manufatto sia ben adatto al suo scopo pratico. Leroi-Gourhan, trattando di estetica funzionale, mostra quanto uno degli aspetti più importanti della dimensione estetica sia l’apprezzamento della forma adatta alla funzione (Leroi-Gourhan 1965), ma non solo quando un coltello solutreano ha la forma di una foglia di lauro. Oggi al MOMA di New York è esposta una Ferrari del 1952, fatta al meglio per ciò a cui serve. Davanti a una scodella maori o a una Ferrari ciascuno di noi lo capisce e lo sente, sappia o no fare la dovuta differenza rispetto a quando si fermi ad ammirare la Pietà di Michelangelo.
Non sono fuori dalla dimensione estetica i miliardi di uomini che non hanno mai appeso un ‘quadro’ in casa, se non anche per scopi religiosi o in funzione degli affetti e delle memorie familiari. Siamo noi occidentali particolarmente estetici perché appendiamo un quadro (e non in copia, soprattutto) solo da godere in dimensione estetica? I quadri, oggi quintessenza dell’artistico, fino a cent’anni fa nelle case dei nostri paesi contadini e delle plebi cittadine, cioè della maggioranza della gente, non erano e non sono tali. La ‘storia dell’arte’ europea e panmediterranea degli ultimi millenni è parte di una storia delle religioni e della religiosità europea e mediterranea, sebbene i musei archeologici continuino a mostrarle come ‘arte’. Non è ancora nel senso comune colto l’ovvietà che il Partenone era ‘anche’ un tempio dedicato ad Atena e un manufatto politico-identitario degli ateniesi. O che un’arte come il cinema non poteva nascere se non in una società industriale e in un ambiente tecnico che sa fare la registrazione dei suoni e delle immagini in movimento, usandola poi artisticamente per raccontare il mondo e la vita, cosa che si è sempre fatta in vari modi da che uomo è uomo, con eccellenze individuali anche prima della scrittura, passate alla storia come gli Omero e le Sherazade, e come si continua a fare in modi nuovi nell’epoca del web totale.
Oggi, ciò che ormai non solo in Occidente è detto arte, è un fenomeno cosmopolita, che interconnette nella mondializzazione non solo i mercati di prodotti estetici, ma anche molte se non tutte le dimensioni estetiche locali già più o meno ‘contaminate’, spesso coscientemente e programmaticamente meticce e costruite sull’elaborazione di identità diasporiche, ibride e complesse. E ciò sebbene continui la fortuna di più ingenue pratiche di identità estetiche auto-esotizzanti che pretendono genuine continuità locali. Ambedue gli atteggiamenti, nel loro fare i conti con le tradizioni e la (post)modernità, rientrano in un quadro complesso di ibridazioni fra tradizioni locali, cultura di massa, elitarismo più o meno ancora sperimentalista, in una dinamica ‘postnazionale’ inedita di rapporti tra centri e strati egemoni e strati e periferie subalterne, con figure nuove di artisti culturalmente ed esteticamente ibridi, cosmopoliti, con esperienze diasporiche di radicamento esotico. E anche con rapporti nuovi di attività artistiche, di ricerca e di dibattito che coinvolgono gli artisti e gli studiosi nella riflessione sulla variazione e l’invarianza culturale in generale, oltre che in ambito di produzioni estetiche, che riconoscono i limiti degli approcci correnti alle attività artistiche nel mondo, globalizzato da ultimo nel world wide web, il quale mette in crisi, tra l’altro, le concezioni e le pratiche dell’autorialità, compreso il copy right, dell’autenticità, della rappresentatività socio-culturale dei prodotti estetici e così via.
Ogni forma di vita si regge sull’umile e diuturno lavoro ben fatto tanto quanto sulla soddisfazione del festivo giorno di riposo, sulla percezione dell’umana capacità di un fare complessivo per tenere il mondo e la vita nell’umano, che rimanga umano in umani equilibri e in umani eccessi controllati dentro il sempre minaccioso caos dell’entropia. Dove non è detto che contino e debbano contare solo le eccellenze individuali nelle varie attività (Vygotskij 1964). Aveva ragione anche Picasso quando gli sono piaciuti arnesi e statuette dell’Africa o dell’Oceania e ha fatto gran conto di oggetti che gli africani o gli oceaniani erano oggetti quotidiani del lavoro e della vita domestica, ‘feticci’ o maschere rituali. Ma aveva anche ‘torto’, perché proiettava le nostre abitudini, concezioni e pratiche creative in un luogo diversissimo e faceva diventare opere di arte per l’arte da esporre come tali in museo, cose per cucinare, per lavorare i campi, per celebrare un rito. Eppure aveva anche ragione perché, al di là del sistema di relazioni sociali che l’arte ha generato nella cultura odierna occidentale, e al di là dei diversi modi e stili di creatività estetica, la dimensione estetica è sempre propria di ogni attività umana: come tutte le altre attività o ambiti o dimensioni o aspetti che sono più o meno e variamente nella complessità della vita, che solo per essere intesa si può sezionare in ambiti distinti e con parziali focalizzazioni: ma non esclusive e smemorate, bensì provvisorie e consce del loro appartarsi.
È dunque da riconsiderare, antropologicamente, la parzialità della visione e delle pratiche sociali e individuali dell’estetica occidentale. Esse sono diventate senso comune coltivando la convinzione di una superiorità del sentire sul fare, sul dire e sul pensare, convinzione che un paio di secoli fa si precisa nell’idea non solo kantiana di interruzione del normale rapporto col presente materiale in vista di una soggettività rinnovata. Visione e pratica utili e attive finché il tutto non si è autonomizzato in eccesso, separando il sentire dall’agire e dalla coscienza come risultato (nella specie, nelle varie forme di vita e nei singoli individui) della dinamica complessiva della vita. La parzialità, superabile, di quei modi di concepire e di vivere la dimensione estetica appare in esplicite quanto in implicite, in ingenue quanto in raffinate concezioni e pratiche dell’arte per l’arte, nella separazione dell’arte dalla non arte, nell’invenzione, anche riciclata dalla classicità occidentale, di sindromi quali la vita d’artista come sregolata solitudine di genio incompreso nel titanico sforzo di un perenne individuale andare oltre, che è, nel bene e nel male, solo cosa delle élites occidentali degli ultimi secoli.
Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015
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Giulio Angioni, ordinario di Antropologia Culturale nell’Università di Cagliari dal 1981 e direttore dell’Istituto di Discipline socio-antropologiche della stessa università. Dal 1992 presiede la Socieété des Europénistes-Europeanists Society (Bruxelles). Fra i suoi numerosi lavori si segnalano: Tre saggi sull’antropologia dell’età coloniale (1973); Rapporti di produzione e cultura subalterna: contadini in Sardegna (1974); Il sapere della mano: saggi di antropologia del lavoro (1986); I pascoli erranti: antropologia del pastore in Sardegna (1989); Pane e formaggio e altre cose di Sardegna (2000); Fare, dire, sentire. L’identico e il diverso nelle culture (2011). È fra i principali protagonisti della nuova stagione di letteratura sarda, avendo pubblicato numerose opere di narrativa
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