di Stefano Montes
Il tema del saggio potrà apparire poco saggio, poco avveduto: sembrerà strano, persino arbitrario a chi pratica poca linguistica o semiotica. Chiamare in causa la nozione di ‘aspettualizzazione’ (o aspetto) sembrerà fuori luogo in un saggio – che io considero al contempo e non soltanto – di antropologia del linguaggio e di antropologia dell’esistenza. Ma non lo è. Non è così. Non è un fuori strada. Il tema non è fuori luogo, questo saggio non è un fuori tempo: tutt’al più è un ‘fuori campo’ (non esotizzante), in contrattempo e controcanto rispetto allo scorrere della vita (in un altrove reso linearmente) che vorrei invece cogliere qui in prossimità della (mia) presenza – a Palermo, nel disordine, nel disorientamento dell’attesa e della redazione incombente – nonostante l’inevitabile innesto di note e appunti di circostanza, testi puntuali e rimandi intempestivi a cui ogni antropologo deve per forza di cosa fare riferimento.
E io sono tra questi: intempestivo. Non è in ogni caso quel che si potrebbe credere a prima vista. Ebbene no! Io non parlerò di aspetto fisico, non parlerò di bellezza del corpo, non parlerò di politica in sé, non parlerò nemmeno di traduzione di singole, asfittiche, isolate parole. Semmai, con il favore del mio compiacente umore, mosso dalla piacevole giornata di tiepido sole, farò un’incursione d’ordine esistenziale, quasi fenomenologica, sul tema della politica del tempo e del fieldwork, dell’esperienza, del suo asimmetrico tradursi in concetti e testi, contesti e circostanze. Parlerò, in altri termini, dell’attendere e delle sue forme di aspettualizzazione esistenziale, nei relativi fieldworks di cui cercherò di dare conto. So che sono al momento ambiguo nell’utilizzare questi termini: aspetto, attesa, esistenza e fieldworks. E per questo, caro lettore, ti chiedo tempo e pazienza: ti chiedo solo di attendere, di esitare quel che basta e di cedere alla narrazione che segue. Basta poco! L’esitazione ha sovente, se lentamente assaporata, un suo risvolto magico: dà conto dell’essere ancora in procinto di decidere, ancora padrone dello scegliere, in apparente controllo di se stesso sulla frontiera del tempo. Che bella sensazione essere sulla soglia e rimanerci per qualche tempo, come vorrei che fosse questo saggio sul limen! Lo credo bene.
L’esitazione è una forma di attesa non ancora risolta che richiede, per un felice compimento, un complesso coordinamento tra dimensione cognitiva, agentiva e patemica: non facile, quindi; non irrilevante, teoricamente, né come oggetto di studio, né come soggetto vissuto. Comunque sia, ti chiedo, caro lettore, il tempo di una strumentale digressione su alcune mie letture e autori preferiti, prima di arrivare al dunque, prima di arrivare al senso affilato in lungo e largo, per intero, del mio proposito ancora in corso di denudamento. Ti chiedo di attendere: affinché il contenuto di cui parlerò si incastri sull’ordine temporale dell’enunciazione scritta. Non è uno sfizio individuale, il mio, il tuo, la lettura e la scrittura, l’enunciato e l’enunciazione, ma una funzione antropologica svolta in chiave temporale: un conferire merito all’attesa rispetto ad altre – solitamente privilegiate – dimensioni temporali; un indugiare, in effetti, nel pensare non ancora compiuto (aspettualmente imperfettivo), quindi in divenire, difficile da cogliere nella prossimità del suo stesso pensarsi mentre si pensa.
Il merito e i suoi conferimenti – meglio ribadirlo – hanno precedenti illustri. Il pensiero che si pensa nel suo complesso divenire – aspettualizzato dall’iniziare, durare o terminare che sia – non è forse un’ulteriore figura di caso del pensiero del fuori di cui parla Foucault? Non è forse un altro mezzo, questo di cui mi servo, per scrostare il velo di impalpabilità del tempo visto in sé, dall’interno o dall’esterno? L’attesa è in fondo, per me, un altro modo per interrogare il dilemma di un pensiero «al di fuori di sé e […] tuttavia vicinissimo a se medesimo» (Foucault 1967: 349). Compito inarrivabile? Mi basta iniziare: al pari dell’arrivare a termine, l’inizio è, guarda caso, una delle marche dell’aspetto. Se non dovessi farcela, comunque, se non dovessi arrivare al ‘dunque’ – pazienza! – mi rassegnerò perché in fondo «non si arriva mai a un senso ultimo. D’altronde, forse che nella vita ci si arriva?» (Lévi-Strauss 1988: 197).
Esistenza e senso ultimo non sempre vanno d’accordo: nemmeno per Lévi-Strauss, grande strutturalista, grande segugio del senso. Figuriamoci per me: travolto dalla prossimità e dall’ibridazione, dalla contemporaneità e dal divenire confuso che riconfigura – qui, spero a mio e altrui futuro vantaggio esistenziale – l’attesa come valore di sottile, impalpabile tessitura dell’essere. Rischio l’inconcludenza, lo temo, eccome se lo temo, confortato però dall’idea che essa è parente acquisito del benefico caso produttore di novità, consapevole del fatto che «indipendentemente da ciò che accade, che non accade, è l’attesa che è magnifica» (Breton 1937: 39). L’attesa, qui intenzionalmente introdotta nel meccanismo stesso di produzione e ricezione del saggio che voi lettori state leggendo, ha virtù insospettate, insopprimibili. Lo sottolineo ancora e lo rimodulo ancora una volta a fin di bene. L’attesa ha, come affermano i surrealisti francesi, un valore in sé, oggettivamente positivo: il valore della sospensione che pregusta l’azione compiuta e in essa non tende a risolversi e svanire prematuramente. E non solo: direi più ampiamente che l’attesa, in letteratura e nella vita concreta, ha il potere di produrre nuove configurazioni del mondo e del soggetto, quêtes narrative insospettate e frontiere simboliche imprevedibili (Taverna 2011). L’attesa è insomma – potrebbe essere, al fondo – creativa, produttrice, non effimera. L’attesa esita, è vero, lo concedo; nell’esitazione, tuttavia, l’attesa acquista, per molti, un indubbio alone di effervescenza.
Per queste ragioni, varie e sostanziali, ti chiedo allora, lettore, di attendere e non è poco. Ti chiedo di attendere perché l’attesa è sovente dolce rimando e non inutile sentimento di passività. Ti chiedo molto e me ne rendo conto. Ti chiedo il dono del tempo e il tempo è manchevole. Peccato! Aspetta comunque, aspetta, anche se pensi di essere a corto di tempo, abbi fiducia in me, nel mio vissuto di attese, esperito da una cultura all’altra: ricorda, almeno, che il tempo rallenta oltre misura per coloro che sanno aspettare e si rende, così, a suo modo, gradevole. Pensa pure che sull’attesa può innestarsi un fondo di speranza che trascina l’attesa fuori dal suo farsi presente in quanto noia o sospensione instabile dell’essere. Se «si può ancora vivere senza speranze, […] non si può vivere senza attese: senza l’attesa che qualcosa accada e qualcosa abbia a cambiare nella vita» (Borgna 2005: 46). Laddove perfino le speranze crollano, rimane infatti la certezza dell’attesa in un possibile cambiamento che ci trascini fuori dall’apparente immobilità. E allora tieni duro, lettore, radicati nell’attesa effervescente: «L’attesa è un incantesimo», scrive Barthes, in attesa dell’innamorato in un bar parigino (1979: 41). Bisogna assaporarla, arrendersi alla sua magica sospensione.
Attendi dunque, attendi pure, lettore. Non te ne fare un tale cruccio per il momento: non sprofondare nell’idea di un’apparente noia dell’attesa, lasciati incantare dalla leggerezza, servitene come fosse un tempo altro, altrimenti vissuto, fanne una dolce presa sull’alterità interiore che in altri momenti, meno felici, sfugge, sbanda, soggiace. Ti incoraggi comunque un fatto comune, legato alla mia esperienza, ma condivisibile: ho trascorso, oggi, al convegno su Esistenza come campo, un’intera mattinata ad attendere, ad ascoltare immobile altri studiosi, a indugiare piacevolmente nell’azione smorzata dall’attesa di ciò che sarebbe venuto dopo, relatore dopo relatore, conferenza dopo conferenza. E adesso, in pausa, al bar con Tonino, sono ancora in attesa: degli altri conferenzieri che vengano a prendere posto accanto a noi, del cameriere che ci porti le arancine, del televisore in sottofondo che ci lasci un po’ tranquilli, del giusto turno di parola che mi dia la possibilità di spiegare ai francesi cosa siano le melanzane alla parmigiana. Ho la strana impressione che l’attesa al convegno e l’attesa al bar si sovrappongano. Anche se, inutile dirlo, durante il convegno, ho ben riflettuto, nell’attesa; ho soppesato nell’aspettare: ascoltando gli altri, preparandomi cognitivamente al discorso del futuro oratore, riepilogando quello precedente. Ho ascoltato e ripensato, nell’attesa, all’attesa.
Un evento raro, oggigiorno, indugiare nell’attesa e nell’ascolto? Un’incongruenza palese, in questo mondo dell’apparente, sfrenata mobilità? Nel bene e nel male, ci piaccia o no, si deve attendere: è un elemento culturale, vissuto quotidianamente, ineludibile e generalizzabile. Dappertutto, ovunque sia, in vacanza e al lavoro, dentro e fuori casa, siamo tutti in costante attesa di qualcuno o qualcosa: noi pensiamo, di fatto, di essere tutto il tempo in procinto di versarci nell’azione propriamente detta o di esserci addirittura in pieno al suo interno rutilante, eppure siamo ben al di fuori della sua portata potenziale, saldamente inchiodati al pallido suolo terrestre, tutt’al più fluttuanti nell’aerea immaginazione, che ben venga comunque, in ogni caso, sempre pronta a venirci in solerte soccorso negli interminabili momenti di pausa dell’essere in paziente sospensione (Montes 2015).
Immaginazione e attesa dunque? Immobilità e pazienza allora? Certo, certo, non è una deviazione dall’obiettivo posto, ammettiamolo pure: l’immaginazione è parte integrante – culturalmente e individualmente – del nostro modo di vedere e ricevere il mondo, di proiettare speranze e desideri, realizzabili, compiute e incompiute. E l’incompiuto e il compiuto non sono forse elementi di stretta pertinenza aspettuale che designano lo svolgersi di un’azione marcata dalla discontinuità del tempo vissuto? E la speranza stessa, per l’appunto, non ci riporta all’attesa, finanche al suo modo di immaginarla in quanto desiderio? La speranza «è il campo del desiderio nell’attesa» (Crapanzano 1985: 45). E ciò vale, non dimentichiamolo, anche in quei casi in cui il quotidiano, nelle sue forme più ordinarie, prende il sopravvento, spesso in modo più noioso, meno allettante. Me ne rendo conto, lo ammetto, non esito. Non esito, esisto, e vorrei trarne vantaggio per la riflessione antropologica, persino nell’attesa, magari ricorrendo all’immaginazione e al suo legame con l’esistenza. Cos’altro ci resta da fare, infatti, mentre aspettiamo pazientemente in una qualsiasi sala d’attesa, se non aprire lo sfiatatoio ritualizzato dell’immaginazione oppure, in alternativa, sfogliare, con aria distratta o attenta, una rivista ammuffita dal vano passar del tempo?
Perché noi pensiamo di muoverci freneticamente, di agire incessantemente, spostarci e dislocarci ininterrottamente, senza resta e senza freno, senza posa, a iosa; pensiamo di essere agenti del nostro stesso vivere e del tempo per noi disponibile e corriamo con nemmeno un minimo di pace in corpo e nello spirito. Andiamo di fretta? Corriamo all’impazzata? Forse. Resta il fatto che non corriamo come crediamo, quanto pensiamo: l’attesa la fa da padrona nella maggior parte del tempo, nei momenti più ordinari e meno ordinari della nostra vita, nonostante Clifford, il quale, a suo tempo, opponeva il ‘viaggio’ alle ‘radici’ come nuovo modo di fare ricerca sul campo in movimento: su se stessi e sugli altri, sulle superfici variabili del mondo e sulle insolite zone di contatto create dagli spostamenti (Clifford 1999). Non aveva tutti i torti, Clifford. Credo però che il momento sia venuto di dire oggi, forse rassegnati, magari pure felici, che il viaggio è, ancora e soltanto, un elemento parcellare delle nostre vite incartapecorite, mentre le radici continuano a prenderne il controllo, anche sotto forma di attese, le più varie, le meno calcolate, le più quotidiane, le più lunghe e meno lunghe: al panificio e dal dottore, al supermercato e dal meccanico, al pronto soccorso e in parrocchia, davanti un ascensore e dietro un semaforo, al cospetto di un tizio e alle spalle di un altro, al botteghino di un teatro e durante uno sbarco di infreddoliti migranti scampati alla traversata in mare aperto (Montes 2017a).
È inevitabile, siamo radicati e siamo in costante attraversamento: affermiamo le nostre radici e le trasgrediamo, nel tempo, al contempo. Siamo in movimento, siamo in attesa. Meglio quindi rendersene subito conto, teoricamente e praticamente: l’attesa conta. Eccome! Viviamo d’attese, moriamo in attesa, aspettiamo persino quando viaggiamo e ci dilettiamo. Viviamo d’attese addirittura – sembra strano dirlo – persino quando vengono imposte dall’alto e decidiamo talvolta di combatterle al fine di reagire al potere di chi può far attendere, può rinviare e rimandare a piacimento il prezioso tempo nostro e altrui: «L’attesa è uno dei modi privilegiati di subire il potere» (Bourdieu 1998: 239). Attraverso l’attesa subiamo il potere, attraverso l’attesa ci imponiamo agli altri, proiettandolo magari inconsapevolmente sugli altri individui, semplicemente disponendo del tempo altrui come a noi meglio pare. Tanto vale allora studiarle, le attese: per capire meglio noi stessi e i meccanismi relativi alla dimensione temporale, più impalpabile, meno evidente, tuttavia così importante nell’attribuzione di senso al mondo e ai soggetti. Tanto vale studiare le varie forme di politica e retorica dell’attesa che gli individui e le culture rivendicano o rifiutano.
L’attesa è, di fatto, alla base, una forma di temporalità diffusa, pervasiva, eccessiva e onnipresente: nella vita quotidiana, al lavoro o nel tempo libero, in momenti di gravità eccezionale e davanti il placido televisore, non si fa altro che aspettare, attendere, rimanere in attesa, in sospensione, a rilento e a mezzo fiato, in pausa e talvolta fuor di misura, persino fuor di senno e di senso, allorquando il tempo non si fa più spendere come noi vorremmo e ci sfugge di mano e di corpo. E allora più che di agentività – come sovente succede in antropologia del linguaggio – si dovrebbe parlare, con un neologismo inventato per l’occasione, di aspettatività: più che essere muniti di un’isolata capacità all’azione riconosciuta socialmente e debitamente realizzata dall’agente di turno interagendo con gli altri agenti concomitanti, si dovrebbe dunque dire che gli individui, prima ancora di ogni altra cosa, sono dotati di una competenza globale – culturalmente definita – ad aspettare nelle varie situazioni, in accordo con le regole in uso nei diversi contesti, in relazione alle attese altrui. L’essere umano, per gradi diversi, è dotato di aspettatività. Se non si sa aspettare, a turno, conformemente al contesto d’uso esperito, non si può nemmeno agire convenientemente, socialmente. Basti pensare, per non andare lontano, alle file di attesa londinesi. Chiunque sia stato a Londra, sa bene che le file d’attesa sono diverse dalle (nostre) file siciliane: loro, gli inglesi, fanno una lunga coda, individuo per individuo, uno dopo l’altro, mentre noi, in Sicilia, non avendo una concezione lineare della coda, tendiamo a riversarci sui lati, in diagonale e persino davanti la persona che ci precede, magari fischiettando, producendoci in strani, sregolati andirivieni al di fuori e al di là della coda stessa. Noi, in Sicilia, abbiamo pure un espediente – ammesso culturalmente, previsto localmente – per saltare la coda, per farci accettare dagli altri come individui che hanno fretta e non possono fare la coda come tutti. Basta dire, “mi può fare una cortesia?” e il gioco è fatto: nessuno può esimersi dalla gentilezza, dal valore della cortesia, e la fila salta, con la giustificazione e approvazione degli astanti presenti. Per un estone sarebbe una cosa improponibile: sarebbero soltanto scappatoie, inaccettabili per la loro cultura.
In principio, l’attesa dovrebbe quindi venire prima dell’agire, l’aspettatività prima dell’agentività: l’attesa va pensata, in potenza e in atto, come un preliminare pratico e teorico del grado di agentività individuale e sociale. Riflettiamoci dunque, pensiamoci bene allora, prima di parlare di sola ed esclusiva agentività. Diciamo che siamo attori e agenti, ma, anche di più, siamo – con un altro neologismo – incalliti aspettatori: individui muniti di competenza ad attendere, a lasciar passare il tempo, a smussare l’azione, ottemperando alle regole – ritualizzandole – che presiedono all’attesa nei diversi spazi del vivere comune, insieme ad altri individui. In fondo, riflettendoci, come potrebbe essere altrimenti? Il tempo passa, si dice. Se il tempo passa, esso ha allora bisogno dei dovuti riti di passaggio affinché possa trascorrere come si deve, secondo regola, come ci si attende che succeda in ogni cultura al cui interno vige un certo ordine e persino un disordine consentito, ritualizzato. E, persino nel quotidiano vivere, le azioni possono acquisire un valore rituale, possono indicare un limen da superare nelle sue diverse forme aspettualizzate: che si traduce, in chiave aspettuale, nel cominciare a superare il limen, aspettando il proprio turno, regolando le altrui interazioni e forme di aspettatività, per poi agire rimanendo nel prolungamento della durata, ‘ricadendo’ infine nella terminatività dell’azione, nel finale vero e proprio, magari concepito come un rimando a una futura azione, alla sua desiderata ripetizione.
La ripetizione stessa – com’è noto – non è fine a se stessa, nemmeno nei minuti atti del quotidiano, persino quello più stereotipato: nel «ricominciare, è il cominciare che conta» (Augé 2014: 97). Non lo è nemmeno in un modo globalizzato e accelerato come quello odierno. Ma non è necessario – a questo fine, per circoscrivere i vari ordini cognitivi ed emotivi dell’attesa – mettere al centro della riflessione antropologica la globalizzazione (Augé parla, con un ossimoro, di “tempi morti” della globalizzazione). Alcuni antropologi, già all’inizio del secolo scorso erano sulla strada giusta. Si pensi ai riti di passaggio di cui parla Van Gennep. Nel suo caso specifico, è stata soprattutto messa in risalto la schematica strutturazione del passaggio in chiave rituale: separazione-margine-riaggregazione. Van Gennep va oltre questa sua impostazione più schematica e, nella brillante conclusione al suo volume, ce lo ricorda bene, soprattutto quando scrive che vivere significa «disaggregarsi e reintegrarsi di continuo […] si tratta di agire per poi fermarsi, aspettare e riprendere fiato per poi ricominciare ad agire» (Van Gennep 1981: 166, mio corsivo).
In altri termini, nonostante non abbia sviluppato questa più ampia concezione del vivere in esteso, Van Gennep ritiene in sintesi che l’aspettare sia una componente fondamentale dell’agire umano e che essa contribuisce a dare un ritmo al nostro vivere non soltanto straordinario, ma, anche, ordinario, nella ritualità minuta di tutti i giorni. E non si tratta – si badi bene – a proposito di riti e cultura, di incompletezza dell’uomo, come sembrerebbe pensare Geertz o qualcun altro: l’uomo, afferma Geertz, in quanto animale incompleto, si distinguerebbe dai non-uomini per «la quantità e la varietà di cose che deve imparare prima di poter funzionare» (Geertz 1988: 60). A mio parere, in definitiva, più che a un essere incompleto, Van Gennep, in una terminologia ancora incerta per l’epoca, faceva riferimento all’incompiutezza – non dunque incompletezza – dell’agire umano, soprattutto in senso congiuntamente temporale e aspettuale. Ma non bisogna intendere, detto questo, l’incompiutezza negativamente, ma nel suo senso più linguistico e persino fenomenologico di temporalità imperfettiva (o, al contrario, perfettiva). L’incompiutezza (il non concluso e il non finito) e la compiutezza (il concluso e il finito) fanno persino parte del sistema verbale, ma, anche, più in generale, delle modalità secondo cui, aspettualmente, noi concepiamo l’azione e l’attesa nel nostro vivere comune: l’imperfetto verbale dell’italiano, per esempio, non soltanto mette l’accento su un’azione che non finisce, ma, anche, sull’assenza d’inizio stesso dell’azione; il passato remoto, a sua volta, mette l’accento su un accadimento concluso nel passato, d’ordine puntuale, finito.
Seguendo Geertz, si può prendere in conto il principio che la cultura costituisce un apprendimento, forse pure un completamento dell’essere umano. Con la dovuta distanza, tuttavia, rimanendo guardinghi. Sappiamo bene infatti quanto diverse siano le varie definizioni di cultura (e d’umano) l’una dall’altra e quanto importante sia prenderle, ognuna, nel giusto verso, declinandole opportu- namente: come tentativo transitivo di definire l’altro seguendo spesso una direzione disciplinare e un orientamento di scuola e, al contempo, come traccia inevitabile del proprio essere inseriti all’interno della propria cultura e riflessività. Oltre – per andare oltre – una concezione di cultura in quanto apprendimento e completamento, si deve allora insistere a mio parere su altre categorie ugualmente importanti per la definizione di cultura e di umanità in senso più processuale, aspettuale: in altri termini, si deve pure dire che l’essere umano agisce e lo fa spesso con dei tempi cosiddetti morti (per l’appunto, uno dei modi di concepire l’attesa) che consentono di parlare di un ritmo vario dell’azione quotidiana e di forme di ricezione/produzione diversa della temporalità (per l’appunto, l’imperfettività o la perfettività oppure di una loro commistione).
Si deve allora cercare di cogliere l’uomo congiuntamente nel tempo e nell’aspetto, intendendo quest’ultimo come la specifica prospettiva sull’azione messa in opera da un attante implicito: cioè quel «processo caratterizzato da semi di duratività o di puntualità, di perfettività o di imperfettività (completivo/ incompletivo), di incoatività o di terminatività» (Greimas 2007: 13). Fatte le dovute differenze tra incompletezza e incompiutezza, resta quindi il fascino dell’attesa in sé, nel quotidiano: una vera e propria forma di temporalità (e di emotività) da scandagliare in tutta la sua portata antropologica e semiotica. In una parola, resta il fascino del processo e del modo in cui esso può essere colto e trasposto, soprattutto, qui, in quel ritaglio di tempo complesso, aspettualizzato, che è l’attesa di tutti i giorni. E io affronto – decido adesso, senza attendere oltre, di affrontare – la questione, nello spazio di un saggio breve, facendo riferimento ad alcuni autori che mi stanno a cuore, a modo mio, infischiandomene delle compartimentazioni disciplinari, mescolando semiologi e antropologi, filosofi e sociologi.
Devo iniziare – come si è capito, spero, non faccio altro che iniziare, utilizzando questo espediente come incastro di contenuto ed enunciazione – con una ammissione di interesse e di colpa: ammetto che, nonostante il mio interesse per la nozione di attesa sia più che decennale e teoricamente impostato o testualmente diretto (Montes 1998; Montes 2007), mi sono deciso a tornare sull’argomento adesso al fine di metterne in risalto anche le componenti più pratiche, minute, legate alla mia situazione odierna, ai miei accadimenti più recenti – quindi in senso più ampiamente autoetnografico – per quanto comuni possano, almeno in apparenza, sembrare i fatti in sé di cui parlo (Montes 2016). E questo punto – relativo al quotidiano in pratica e in teoria, in vivo e nei testi – lo ribadisco per diverse ragioni: penso innanzitutto che teorie e pratiche vadano viste insieme (le une possono fare da specchio deformante per le altre, quindi, funzionare come correttivo generale); penso inoltre che il quotidiano sia un’entità da prendere sul serio etnograficamente, un elemento cioè da passare a setaccio analitico proiettandosi nel tempo (e nell’azione) dell’accadere, considerato quindi, più che una dimensione scollata dell’uomo e neutralmente osservata, come una vera e propria modalità di ricerca sul campo – un fieldwork soggettivamente vissuto, trasposto in prima persona – al pari di altre ricerche invece più esotizzanti, a Papua o in Amazzonia, di per sé ovviamente più stranianti ma non sicuramente più significative per il mondo globalizzato in cui viviamo oggi; penso infine che l’apparire sia altrettanto interessante dell’essere e che, comunque, non sia così visibile e manifesto quanto comunemente crediamo, rendendo quindi necessario un lavoro di osservazione e analisi approfondito da parte dell’antropologo sempre in gioco tra vissuti soggettivi e tensione all’oggettività.
La dimensione del quotidiano, nella quale siamo immersi ordinariamente, appare routinaria, meno trasparente, proprio perché vissuta giorno per giorno, nell’abitudine, e ciò non aiuta certo a portare a galla i meccanismi impliciti e costitutivi del (suo) senso, non aiuta a esserne più consapevoli in chiave antropologica. Non per questo – ritengo – essa sia meno affascinante o rivelatrice dell’essere umano, quale che sia lo spazio che l’accoglie concretamente, quali che siano le configurazioni spaziali in questione. Quale dunque, per tagliar corto, andare al sodo e capirci meglio in concreto? Quale configurazione quotidiana dello spazio e del tempo è tra le più vissute comunemente, all’ordine del giorno, dell’ora e persino del momento? In una parola, quale spazio-tempo è più rappresentativo della routine quotidiana? Una sala d’attesa, per esempio, una semplice sala d’attesa, per cominciare, rappresenta meglio di ogni altro luogo la routine, la monotonia dell’attendere, il tentativo di neutralizzazione dell’azione. A me basta un inizio, uno sforzo di immaginazione, un appello al lettore. E allora immagina, tu lettore, una sala d’attesa di un medico, una sala d’attesa come tante altre. Immagina di essere appena arrivato dal tuo medico curante, con tuo figlio col mal di pancia. È capitato a me, potrebbe capitare a chiunque. Lui, tuo figlio, dolorante, esitante, sale per primo e da solo, perché tu sei in cerca di un raro parcheggio cittadino. Tu ti metti alla ricerca e insperatamente lo trovi, compi la manovra in un batter d’occhio e ti sbarazzi dell’ostacolo, afferri il primo libro che trovi sotto il cruscotto e ti precipiti verso il medico, arrivi con passo accelerato e l’ansia dentro, suoni il campanello in basso, divori le scale a quattro a quattro, entri nella sala d’attesa, ti fiondi su tuo figlio per sapere come sta. Immagina, adesso, di trovare solo qualche paziente in sala d’attesa. Che fortuna! La cosa si risolverà in fretta, pensi. Tuo figlio sta persino un po’ meglio. Non c’è motivo di agitarsi. Ti siedi allora buono buono e aspetti il turno senza sapere come ingannare effettivamente il tempo. Beh, sì, qualcuno lo avrà già capito, rivolgendomi al lettore, io sto in realtà facendo riferimento a un arrivo molto celebre, quello di Malinowski alle isole Trobriand:
«Immaginatevi d’un tratto di essere sbarcato insieme a tutto il vostro equipaggiamento solo su una spiaggia tropicale vicino a un villaggio indigeno, mentre la motolancia o il dinghy che vi ci ha portato naviga via e si sottrae ai vostri sguardi. […] Immaginate ancora di essere un principiante, senza alcuna esperienza precedente, senza niente che vi guidi […] Immaginatevi quindi mentre fate il vostro primo ingresso nel villaggio, soli o in compagnia del vostro cicerone bianco. Alcuni indigeni vi si affollano intorno, specialmente se sentono odore di tabacco» (Malinowski 2004: 13, mio corsivo).
Il paragone tra il mio arrivo in una qualsiasi sala d’attesa di un medico di Palermo e quello, ben più celebre, di Malinowski in un luogo esotico e lontano, non intende essere irriverente nei confronti di un antropologo le cui ricerche sono tuttora considerate dei classici. Semmai, me ne ispiro, in chiave comparativa, per mettere in risalto similitudini e differenze tra due modi di vivere e concepire l’arrivo e la sua aspettualizzazione. Il mio arrivo appartiene infatti all’ordine del quotidiano, mentre quello di Malinowski fa parte di una ricerca pianificata a lungo termine; io rimarrò un periodo di tempo relativamente breve dal medico, Malinowski rimarrà invece sul campo, tra il 1915 e il 1918, parecchi mesi; a me è capitato per caso di recarmi dal medico e Malinowski, al contrario, aveva previsto, intenzionalmente, forse spinto dallo scoppio della prima guerra mondiale, in quanto antropologo di campo, una ricerca di lunga gittata; io arrivo dal medico e gli chiedo più o meno direttamente di visitare mio figlio per capire cosa ha, diversamente da Malinowski che arriva alle Trobriand e deve interagire, in toto e a tutto tondo, con i nativi al fine di comprenderne gli aspetti espliciti e impliciti della cultura. In termini strettamente contrastivi, il quotidiano vissuto a casa propria si contrapporrebbe alla ricerca pianificata in un luogo esotico, l’osservazione reiterata ma di breve durata si contrapporrebbe all’osservazione di lunga estensione in luoghi lontani, il caso e la contingenza all’intenzione esplicita e motivata, l’interazione di breve periodo all’interazione di lungo periodo, un comune pronto soccorso a un luogo per lo più esotico e inusuale.
Insomma, le differenze sono tante e pur tuttavia la sala d’attesa di un medico a Palermo può essere considerata a tutti gli effetti un fieldwork: se la inquadriamo nel più generale progetto di ricerca sull’onnipresente quotidiano, grande e quasi impercettibile scultore della nostra esistenza; se spostiamo l’accento non tanto sulla totalità di una cultura quanto su un suo frammento importante qual è l’attesa nella società d’oggi e, più in generale, sulle forme di temporalità che la costituiscono e la attraversano; se siamo interessati ai modi in cui un qualsiasi contatto linguistico – non soltanto dal medico dunque – diventi efficace simbolicamente, come direbbe Lévi-Strauss (1966); se consideriamo il vissuto che ci è familiare altrettanto degno di essere analizzato a fini antropologici di quello più straniante di un popolo lontano. Forse – unico neo in tutto questo – si potrebbe pensare che l’esplorazione semioantropologica delle interazioni situate in una sala d’aspetto non renda conto della totalità di una cultura. La questione si potrebbe allora porre nei termini dell’appartenenza e del ritaglio identitario. E di conseguenza dobbiamo capire di quale cultura e identità parliamo più esattamente. Quella siciliana, italiana, europea o planetaria? E io non saprei cosa scegliere, personalmente, perché l’una si incastra nell’altra. E poi, pur potendo scegliere una – e una sola – appartenenza culturale, nella sua interezza, è davvero questo il fine ultimo da porsi in genere?
Come ricorda Bateson, la ‘totalità’ è un obiettivo da porsi ma non certo un risultato statico, definito una volta per tutte, soprattutto se la ricerca viene considerata nei suoi aspetti processuali, per l’appunto imperfettivi, non conclusivi, sempre in divenire: «Se fosse possibile presentare una cultura nella sua interezza, dando ad ogni aspetto esattamente lo stesso peso che quella cultura gli attribuisce, nessun elemento apparirebbe strano o arbitrario» (Bateson 1988: 7). Non soltanto non è possibile presentare dall’esterno una cultura nella sua interezza ma è inoltre difficile riconoscersi interamente in essa, dall’interno, poiché viviamo per ordini di appartenenza identitaria spesso sovrapposti, accumulati e indisciplinati: ciò è tanto più vero oggi in cui l’esterno e l’interno sono fluidi e si ricompaginano continuamente ricostituendo – e a loro volta essendo ricostituiti da – dispositivi globali e locali. Questo che ho già detto – rinforzato dalla riflessione di Bateson (che preferisce, tra gli Iatmul della Nuova Guinea, concentrarsi su un singolo rituale più che sulla cultura intesa in chiave olistica) – potrebbe essere sufficiente per giustificare l’osservazione-partecipante in una qualsiasi sala d’attesa del mondo occidentale. L’analisi della cultura va infatti continuata indefessamente, persino per salti tematici e interdisciplinari, tenendo conto non soltanto dell’interazione dei diversi aspetti costitutivi dell’insieme osservato, ma, anche, alla maniera di Bateson, insistendo sulla linea isotopica dirompente contenuta in un elemento specifico, per quanto frammentario, catturato evidenziando il punto di vista adottato dall’osservatore per analizzarlo.
Lo sguardo dell’antropologo non è mai neutrale, nemmeno a casa sua, in una sala d’aspetto o altrove, e lo sguardo del nativo, per di più, tende a ‘naturalizzare’ i suoi frammenti di cultura: di conseguenza, gli stessi elementi culturali che non appaiono arbitrari (ai nativi e persino all’antropologo nativo) vanno indagati al fine di meglio comprendere il processo sovente surrettizio di legittimazione che hanno subìto all’interno della cultura al fine di diventare motivati e legittimi, tramite registrazioni e trasformazioni varie. Come ricorda efficacemente Bateson, «sempre e inevitabilmente, ha luogo una selezione dei dati, poiché la totalità dell’universo, passato e presente, non può essere osservata da alcun singolo punto d’osservazione assegnato» (Bateson 1977: 23). Il problema si pone dunque in questi termini e altri ancora; il problema si pone introducendo altre variabili nell’analisi antropologica. C’è infatti altro, c’è sempre altro, oltre – merito da riconoscere a Bateson – lo spostamento dell’accento sulla relazione epistemologicamente instabile tra osservatore e osservato e sulla selezione dei diversi punti di vista da utilizzare al fine di costruire l’oggetto di studio più efficacemente. Il problema si pone anche, se non soprattutto, in termini aspettuali e temporali.
Quando si tratta di tempo e della sua dimensione temporale il richiamo ricorrente che, giustamente, viene subito in mente è Fabian, il quale scrive che il «discorso antropologico mostra spesso (o nasconde, che è poi la stessa cosa) un conflitto tra le convenzioni teoretico-metodologiche e l’esperienza vissuta» (Fabian 2000: 115). Esiste infatti, sempre, uno scarto tra l’apparato metodologico e il modo in cui viene vissuta, sul campo, l’esperienza dal singolo antropologo che si trova, da una parte, a indagare su altri essere umani e, dall’altra, è egli stesso un essere umano che vive nel tempo, nel suo divenire, mai veramente al di fuori di esso, di una sua presunta definitiva oggettivazione. L’accusa che faceva Fabian, già all’epoca in cui pubblicò il suo volume in lingua inglese nel 1983, è che l’aspetto legato alla prassi veniva trascurato e il tempo doveva invece essere inteso «non solo come uno strumento, bensì come una condizione necessaria affinché tale processo sia possibile» (Fabian 2000: 116). Il tempo dell’altro, proprio al fine di seguire considerazioni metodologiche, al fine di arrivare a una qualche essenza, è spesso immobilizzato in un presente irreale dall’antropologo volto a cogliere i tratti principali di una cultura per sottrazione oltre che per relazioni: il tempo viene così, malamente, sottratto al divenire, alla coevità dell’antropologo e del nativo. Fabian poneva quindi un problema centrale tuttora importante in qualsiasi tipologia di osservazione-partecipante che riguarda, quindi, più largamente, non soltanto il recupero del tempo in sé nell’indagine etnografica, ma, anche, il rapporto tra la prassi e il sistema della significazione nonché tra i molteplici modi in cui l’una (la prassi) sembra inglobare l’altra (la significazione), e viceversa, in teoria e in pratica.
Ci sarebbe molto da dire sui modi di incastrare prassi e significazione, nonché pratica e teoria. Ma qui il punto non è soltanto questo. Si tratta adesso, oggigiorno, di mettere l’accento più specificamente su qualcosa che non veniva esplicitamente contemplato da Fabian nella sua famosa dissertazione sul recupero della coevità (la condivisione temporale tra antropologi e interlocutori che interagiscono senza arrestare il flusso del divenire sulla base di forme arbitrarie di distanziamento): cioè i regimi aspettuali del fare antropologico, i quali sono, in qualche modo, collegati alle forme di attese. Che vuol dire più esattamente? Prendiamo, per esempio, Malinowski e il regime aspettuale della sua ricerca. Malinowski, stando a quanto dice ne Gli argonauti, viene proiettato direttamente sul campo, sul luogo cioè in cui la sua ricerca inizia effettivamente. Sembrerebbe, così, che, ne Gli Argonauti, si installi un grado zero dell’attesa. Non si parla di preparazione preliminare, non si accenna alla vita precedente il campo, non ci sono riferimenti al suo viaggio e ai modi in cui tutti questi elementi hanno potuto influire sulla sua ricerca sul campo o la estenderebbero potenzialmente oppure, ancora, la situerebbero nella più ampia portata di vita di antropologo e persona comune. Tutti questi elementi, sovente purtroppo non in chiave riflessiva, vengono relegati, tutt’al più, nei fuori-testo (introduzioni, postfazioni, diari di campo, etc.). E non sempre vengono considerati degni di pubblicazione. Il celebre diario di Malinowski venne pubblicato postumo e fece scandalo per le sue affermazioni, poco ortodosse sui nativi e sulla ricerca sul campo, diverse dall’idea più generale che si aveva effettivamente dello studioso come soggetto capace di grandi doti empatiche e mimetiche.
Naturalmente, attraverso i fuori-testo, si possono recuperare forme più processuali e soggettive i cui dispositivi sono utilmente comparabili con quelli più oggettivati delle monografie, reputate scientifiche, già sfrondate di questi elementi che possono invece consentire una migliore comprensione delle culture vicine e lontane e dei modi secondo cui si configura la soggettività del ricercatore e dei nativi. Il diario di Malinowski, quindi, può essere visto come un utile strumento per indagare in maniera più approfondita il modo in cui elementi soggettivi e oggettivi si dispongono processualmente prima ancora della redazione finale, potata da discretizzazioni soggettivanti e oggettivanti. A una lettura attenta del diario di Malinowski si vede bene, per esempio, che esiste una concezione dell’agire basata sulla programmazione in cui niente dovrebbe essere lasciato al caso, basata sulla motivazione al lavoro costante e indefesso, alla partizione netta tra l’ambito del fare in sé e dell’emozione: ideologicamente, non c’è posto per l’attesa, né per un modo dell’agire fondato sul dialogo visto, non tanto come un lavoro imposto a se stesso e agli altri, quanto come un esserci e vivere nella situazione in corso (cfr. però, a questo riguardo, soprattutto per la deliberata assenza di pianificazione, Dwyer 1982 e 2004). Giusto per dare qui un esempio, si noti quanto significativo sia, a questo proposito, l’enunciato seguente: «Quando mi sento proprio bene fisicamente, quando ho qualcosa da fare, quando non sono demoralizzato non soffro di una nostalgia costante» (Malinowski 1992: 55).
In definitiva, l’uomo rappresentato da Malinowski – la rappresentazione che egli dà di se stesso – è un uomo che non attende e passa all’azione: cioè è un ‘uomo che fa’, sempre al lavoro, determinato dalla sua stessa volontà, tranne ovviamente quando è impedito dagli acciacchi fisici. Detto questo, valutata oggi la possibilità di riflettere in questa direzione comparativa, resta il fatto che, per molti funzionalisti, all’epoca, gli elementi soggettivi – e l’attesa era vista come uno di questi – non ‘dovevano’ trovare posto nelle monografie di campo. Resta ancora il fatto che c’era – in molti casi continua a esserci oggi – uno scarto tra la vita dell’antropologo a casa e la vita dell’antropologo condotta sul campo, lontano da casa. Facendo iniziare la sua ricerca sul campo, negli Argonauti, con l’arrivo su una spiaggia esotica, Malinowski taglia fuori il viaggio (e la vita fuori dal campo, nonché l’attesa che la precederebbe) e considera il campo come un ritaglio temporale e spaziale ben preciso la cui durata è definita da un incipit ed explicit che la circoscrivono persino figurativamente, spazialmente. Le cose stanno in questo modo e vanno sempre così? No, per niente. L’incipit e l’explicit, il senso dell’iniziare e del finire, possono essere spostati e riarticolati (Montes 2017b). Per esempio, un termine di paragone opposto a Malinowski potrebbe essere Clifford e il suo modo di intendere la ricerca in ambito antropologico. Più particolarmente, nelle sue ricerche Clifford ha messo l’accento sul viaggio e sulla continuità che esiste tra esso e le altre forme di vissuto, sul «connettere e disconnettere politico, il collegare e scollegare gli elementi» (Clifford 2004: 50).
Se, allora, per Clifford il viaggio è già ricerca in quanto funzione instabile del contatto tra culture in perdurante viaggio, per Malinowski, la ricerca è invece all’insegna della durata inquadrata da un inizio e una fine precisi; se per Clifford la ricerca è dell’ordine dell’imperfettivo (non concluso, durativo, incompiuto e iterativo), per Malinowski è all’insegna del perfettivo (concluso, puntuale, compiuto). Non per niente Clifford parla di bricolage, passando, nei suoi volumi, da uno scritto di storia a un’esperienza vissuta in un’aula di tribunale, saltando da un testo di epistemologia dell’antropologia a una riflessione su un museo oppure dalla nozione di viaggio a quella di traduzione, associandole e contrastandole implicitamente ed esplicitamente (Clifford 1993; Clifford 1999). Malinowski, da parte sua, trasuda invece pianificazione in tutto il testo degli Argonauti (in opposizione all’apparente disordine sequenziale di Clifford), mettendo in primo piano l’intenzionalità esplicita presente nelle sue decisioni e la vita concreta sul campo (in opposizione all’evidente polifonia e intersecarsi di vissuti di Clifford spesso casualmente incontrati ed esperiti nelle sue letture e ricerche). Malinowski, infine, allo scopo di affermare la novità del suo approccio, prende strategicamente le distanze dagli studiosi che lo avevano preceduto (gli Evoluzionisti) e da un genere narrativo (quello praticato dai viaggiatori) che avrebbe rischiato altrimenti di far apparire meno innovativo il suo programma di ricerca sul campo. Promuove, così, la natura scientifica della sua ricerca mettendola a fronte dell’urgenza di descrivere i popoli ormai in via di sparizione: «La speranza di raggiungere una nuova immagine dell’umanità selvaggia attraverso i lavori di specialisti scientificamente preparati ci si apre dinanzi come un miraggio che scompare non appena lo percepiamo» (Malinowski 2004: 4).
Insomma, per riassumere, Malinowski presenta negli Argonauti un programma scientifico la cui forza si fonda sul tratto semantico della discontinuità aspettuale (da ciò che lo precede cronologicamente e narrativamente), quindi vertente sull’inizio – un tratto aspettuale – di una ricerca che coincide tra l’altro con un inizio testuale (negli Argonauti) in cui si prospetta lo sbarco su una spiaggia esotica (limen vero e proprio del ricercatore solitario, armato di volontà e determinazione, scienza e coscienza, che non guarda alla vita lasciatasi alle spalle, se non con un pizzico di nostalgia, voltandosi indietro a osservare l’imbarcazione che prende il largo). Clifford, invece, sembra quasi muoversi in contrasto con le forme di discontinuità poste dagli Argonauti (e dal suo incipit programmatico), affermando per esempio, nel suo ultimo volume, il valore dei ritorni in tutta la loro importanza, parlando pertanto di storie di trasformazione, della persistenza delle radici tra i nativi, di legami diasporici e rivendicazioni di un patrimonio locale rinnovato, riaspettualizzato. Più che alla nostalgia, Clifford, fa riferimento a quei ‘futuri tradizionali’ che, nonostante lo sguardo posto sulle radici, mettono in campo strategie per andare avanti e muoversi con più agio nel divenire. Consapevole dell’importanza del genere testuale e della narrazione, Clifford dice di lavorare «con tre forme di narrazioni, attive nella seconda metà del secolo: la decolonizzazione, la globalizzazione e il divenire dei movimenti indigeni. Esse rappresentano energie storiche distinte, misure d’azione e politiche del possibile» (Clifford 2013: 8). Clifford parla dunque di narrazioni e si spinge fino al punto di definire le diverse sezioni del suo volume «romanzi brevi – forme intermedie di scrittura che possono consentire complessità e sviluppo senza una rinuncia alla leggibilità» (Clifford 2013: 10).
Naturalmente, ciò che dico qui comparativamente nulla toglie al valore dei due studiosi in sé, tra l’altro separati storicamente da un lungo lasso di tempo che avvantaggia Clifford, più vicino ai giorni nostri; niente impedisce, tuttora, a chicchessia, di scegliere liberamente l’una o l’altra forma di ricerca (e di scrittura) o di vita (e trasposizione affidata al valore del caso o, al contrario, della pianificazione). Quali che siano le specifiche opzioni adottate dagli studiosi e il grado di consapevolezza che le accompagna, si creano infatti forme inevitabili di discontinuità – varie e diverse – tra i modi della prassi e i modi della significazione. Detto questo, qual è, in fondo, la mia opzione di studioso? Personalmente, penso che, oggigiorno, l’accento vada posto con maggior fermezza sullo studio dell’esistenza nella sua interezza, senza creare una discontinuità così netta tra l’esotico e il domestico, tra il vicino e il lontano, tra la vita a casa e la vita sul campo, tra i propri flussi di coscienza disordinati e un pensiero più lineare. E con questo – tenuto conto della possibilità di tenere separati i due domini tra l’esotico e il domestico, affermata però con forza l’esigenza epistemologica alla ricomposizione della frattura tra vita e campo – possiamo tornare, dopo questa cavalcata teorica, apparentemente digressiva, all’attendere nel quotidiano: alla mia ordinaria giornata di sempre, al solito trascorsa in attesa, a fare code, a smorzare l’attività frenetica prodotta da qualche caffè di troppo.
Possiamo parlarne senza necessariamente mettere un punto una volta per tutte: senza dimenticare il fatto che una digressione è, essa stessa, una forma di attesa produttiva che aggira l’ostacolo diretto al fine di tornarci di traverso, per valorizzare il ritorno come elemento fertile della cognizione e comprensione. Ti ringrazio, lettore, di avere atteso: hai atteso per sapere cos’altro avrei detto sull’attesa, senza sapere che eri già in pieno nel soggetto, nel processo cognitivo necessario affinché il detto di qualcuno si trasformi in comprensione per un altro. E questo ‘ritorno cognitivo’ rafforza, di fatto, il mio punto di vista di essere che vive all’insegna della commistione di ruoli: ovunque io sia, io sono infatti un individuo i cui ruoli si sovrappongono e sono inestricabilmente legati con il mio essere antropologo che osserva e partecipa nel continuo flusso di vita, continuamente aspettualizzato. Le mie giornate, ordinarie o meno, trascorrono – le vedo e le sento trascorrere – come un imperfettivo (perdurante, non concluso, incompiuto, reiterato) fieldwork: sono padre e figlio, docente e discente, sportivo e pigrone, e tanto altro ancora, ma non posso, seppur lo volessi, scrollarmi di dosso, in ognuna di queste situazioni, la mia ‘pelle di zigrino’ di antropologo, il mio pensare da antropologo, il mio vivere da antropologo a casa e in luoghi più esotici.
Che sia la Francia o l’Estonia, il Canada o Palau, una sala d’aspetto o una passeggiata in spiaggia, sono e resto un individuo con tanti ruoli accumulati, sovrapposti e diversi che non tolgono comunque spazio al – anzi, proprio per questo accumularsi, accentuano il – mio essere antropologo sempre in situazione e in divenire, sul posto (ovunque esso sia) e nel tempo (quale che sia la discontinuità temporale da me specificamente vissuta, socialmente realizzata e aspettualizzata). Se, per Malinowski, l’attesa doveva essere implicitamente bandita dal suo programma ideologico, nel mio caso, le cose vanno diversamente: forse come tutti, vivo tra l’azione e l’attesa. E l’attesa può talvolta essere noiosa, lo riconosco, ma è certamente un meccanismo onnipresente del comune intrecciarsi del vivere quotidiano da esplorare in tutti i suoi aspetti. Ieri, come ho accennato qualche pagina fa, ho aspettato mio figlio Mattia al suo liceo: sono venuto a prenderlo perché aveva fitte alla pancia. Prima di uscire e recarmi a scuola, avevo chiamato in facoltà per avvisarli che sarei stato forse in ritardo, raccomandandomi di comunicarlo agli studenti (in eventuale attesa). Ho aspettato, insieme a mio figlio, dalla dottoressa che doveva visitarlo per il mal di pancia. Ho ovviamente aspettato in farmacia per comprare il medicinale consigliatomi dalla dottoressa. In un qualsiasi altro giorno della settimana, sarei inoltre dovuto andare a prendere mio figlio Emanuele a scuola e lo avrei, come al solito, aspettato all’uscita. Ho chiamato ieri mia moglie per dirle di precipitarsi da Emanuele, a scuola e di aspettarlo al posto mio. La mia routine è stata spezzata dal mal di pancia di mio figlio, ma l’attesa, quale che essa sia, non è venuta meno: tra un compito previsto e uno imprevisto, un ritardo e un indugio. In tutto questo, da buon antropologo, non ho potuto fare a meno di chiedere il punto di vista di mio figlio – un po’ come faccio con qualsiasi altro mio interlocutore-informatore – non appena il mal di pancia ha lasciato maggior spazio al dialogo. Mattia ha detto, senza esitare, che aspettare è un momento senz’altro adeguato al pensare: un ritaglio di tempo propizio alla riflessione che consente di pensare addirittura meglio, senza il simmetrico disagio di dovere fare qualcosa che potrebbe distrarre il pensare. Anche per Mattia, dunque, come già accennato, l’aspettare ha i suoi aspetti positivi: spinge alla riflessione più che alla noia e all’inattività.
Aspettare, di fatto, come ho teso a dimostrare in termini più tecnici e comparativi, è parte integrante della complessa dimensione cognitiva intersecantesi con quella emotiva. E l’attesa non è una sola componente dell’agire, ma, anche, del pensare in toto. In definitiva, per cercare di concludere e riavviare con un altro incipit, l’attesa può essere noiosa, ma mai veramente passiva: se non altro perché fa scattare la molla della cognizione ed emozione. Fondamentalmente, attendere vuole dire creare un’aspirazione alla realizzazione di un’azione che di conseguenza apporta soddisfazione; il contrario – l’assenza di attesa cioè – consente forse di avere qualcosa subito, ma allo stesso tempo di apprezzarla meno proprio per il fatto che la si ottiene rapidamente, senza progetto o sforzo. Insomma, il progetto viene spesso prima: viene posto come preliminare all’azione e l’attesa interviene come momento intermedio per la realizzazione di un obiettivo. Se all’attesa, benché prolungata, fa seguito la realizzazione di un compito, allora siamo soddisfatti, tutti contenti di aver conseguito lo scopo prefisso. Le cose si complicano se l’attesa, piuttosto che ‘aver fine’ in un’opportuna conclusione, rimane ‘fine a se stessa’. In questo caso, sono possibili, all’ingrosso, tre possibilità: (i) siamo delusi e disperati, nonostante tutto pronti a riproporre un’altra pianificazione d’azione, sperando che, questa volta, la sua realizzazione vada a buon fine; (ii) continuiamo a vagare in un presente indistinto, senza futuro, senza aspettative; (iii) continuiamo a crogiolarci nell’attesa perché pensiamo che ciò che conta è proprio l’attesa in sé, vista come elemento positivo. Senza andare tanto lontano, per affermare il valore di questa terza ipotesi, spesso trascurata, si pensi al modo di concepire l’attesa da parte dei Surrealisti francesi: come un dolce indugiare che non dovrebbe esaurirsi in un compito realizzato. Si potrebbe dire, in questa prospettiva, che l’attesa è quel particolare presente che proietta nel futuro ma è ancora un presente che scorre.
Ma non è tutto, per quanto riguarda l’attesa. Si deve inoltre, come già precedentemente accennato, tenere conto del fatto che l’attesa viene sovente modalizzata e tesaurizzata a fini ‘politici’ e manipolativi: chi ha potere può far aspettare gli altri individui che non ne hanno. A questo riguardo, non è inopportuno parlare di una politica e retorica dell’attesa, da esplorare in chiave semioantropologica, al fine di mettere in primo piano le forme di manipolazione a essa associate, nonché il ruolo assunto dalle emozioni. Che non è poco! Greimas, in un celebre studio della collera, mette in rilievo proprio il ruolo giocato – nella stessa sintassi della collera – dall’attesa come fondamento iniziale, come sintagma di partenza su cui si costruiscono le emozioni più in generale e non soltanto la collera (Greimas 1984). Che sia la noia, l’agitazione, l’aggressività o la più evidente frustrazione, bisogna ammettere che l’attesa si organizza per stati emotivi. Barthes, giustamente, la definisce un «tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi» (Barthes 1979: 40). Ovviamente, nel suo caso, nell’attesa dell’amato di cui lui parla, esiste una protensione verso l’imminenza dell’accadere che, invece, non accade o che tarda ad accadere e provoca angoscia. Come fa notare Barthes nella sua scenografia dell’attesa, si incomincia con una qualche ‘constatazione’, poi si passa alle ‘congetture’, quindi all’‘ira’ e infine all’‘angoscia pura’.
Ambedue, Greimas e Barthes, benché in modi diversi, riconoscono dunque il ruolo svolto dall’attesa nella concatenazione delle emozioni e dalla sua specifica aspettualizzazione sintagmatica e paradigmatica. A ben vedere, si evince qui un nesso importante: il pensare si svolge in stretta associazione con le emozioni; le emozioni, a loro volta, sono ‘vissute’ in stretta correlazione con il sommovimento – sovente contrappuntistico – del pensiero. Per quanto mi riguarda personalmente, mi piace indugiare nell’azione che rallenta; mi piace indugiare nel suo parossistico rallentamento, fino al suo grado zero (che non ne esaurisce, come abbiamo visto, l’agire): quello che scatta più propriamente con l’attesa. In questo senso, l’attesa si trasforma, per me, nel piacere di intrattenersi in ciò che si sta facendo, senza fretta di arrivare da qualche parte, senza obiettivo da realizzare: l’attesa vive, così, dell’intrattenimento del tempo rallentato. E dell’intrattenimento questo saggio è traccia. Oltre che per riflettere sul valore dell’attesa in antropologia e nell’esistenza, ho scritto questo saggio con un altro intento, meno evidente, più clandestino: fare riferimento soltanto a quelle citazioni d’altri autori che, in passato, nei miei scritti, avevo già utilizzato per meglio spiegare il mio pensiero. E, lo ammetto, mi sono divertito qui a fare finta di essere uno scrittore oulipiano: questo mio espediente mi apparenta infatti al modo di concepire la scrittura adottato dai membri della cosiddetta corrente dell’Oulipo, i quali si imponevano di redigere i loro testi a partire da una o più costrizioni testuali e letterarie. Si pensi, per esempio, a Perec e all’assenza voluta della vocale “e” nel suo racconto autobiografico La Disparition. Nel mio caso, la costrizione a cui ho fatto capo è, per l’appunto, il ricorso alla citazione d’altri autori già da me stesso utilizzati in altri miei scritti. Ciò potrebbe sollevare un interrogativo, per me, ingenuo: a che può valere, questo espediente, in antropologia? Semplice, direi: le costrizioni testuali sono – in alcuni casi (il mio è uno di questi) – costrizioni cognitive.
Redigere un testo, a partire da alcune ‘invarianti legate’, obbliga a pensare/pensarsi in un certo modo – non certamente stereotipato – e aiuta dunque a decentrarsi. E, dal mio punto di vista, inutile dirlo, la forza dell’antropologia risiede proprio nella capacità di continuo decentramento da essa esercitato sugli individui (se stessi, gli altri), sulla propria e altrui cultura. Noi non siamo, purtroppo, essere dotati di totale controllo o capacità di giudizio costante e infallibile e la forza di decentramento implicita nella pratica antropologica è un’ottima àncora di salvezza per individui ingabbiati in un solo modo di pensare, concepito in modo deterministico o volontaristico. A mio parere, quale che sia la definizione di cultura, «è importante associare alla presenza umana la sospensione della volontà, del controllo, del calcolo, della coscienza tetica del soggetto che delibera» (Piette 2016: 12). Io ho miseramente fallito nel tentativo di dare un orientamento totalmente oulipiano al mio saggio, lo concedo: ho fatto ricorso a citazioni d’altri autori che non erano presenti nei miei scritti precedenti, trasgredendo dunque alla regola che mi ero dato di citare soltanto il già (da me) citato. Così, posso dire di non essere un buon, perseverante oulipiano. Penso però, in contrappunto, di aver mostrato il giusto valore dell’attesa e delle sue possibilità – teoriche e pratiche – in ambito antropologico, esistenziale. Per dirla in pochi righi, semplificando molto rispetto a quanto già avanzato precedentemente in lungo e largo, direi che ‘le qualità del tempo’ – il riferimento va al volume curato da James e Mills (2005) – si combinano con ‘le qualità dell’attesa e dell’aspettualizzazione’ e devono, perciò, essere viste e analizzate dagli antropologi come un tutt’uno, nel loro intreccio, sul campo e fuori campo.
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
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Taverna L., “L’attesa ne I sette messaggeri di Buzzati. Frontiere e quêtes narrative come configurazioni del mondo e del soggetto”, in D. Monticelli e L. Taverna, a cura di, Testo e metodo. Prospettive teoriche sulla letteratura italiana, Tallinn University Press, Tallinn, 2011: 205-254
Van Gennep A., I riti di passaggio, trad. di M. L. Remotti, Bollati Boringhieri, Torino, 1981 (1909).
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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.
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