di Cristina Notarangelo e Luca Jourdan
Le associazioni dei migranti sono state oggetto di numerose ricerche antropo- logiche [1]. Indagare il tema dell’identità in connessione all’associazionismo è molto stimolante poiché, in tale contesto, emergono complessità e contraddizioni che segnano il vissuto dei migranti, adulti e giovani. Si osservano i cambiamenti in atto nei processi di stabilizzazione e di mobilità sociale, le inevitabili mediazioni identitarie e gli atteggiamenti di apertura o di chiusura che i soggetti assumono rispetto ai contesti d’approdo e alle diverse sfere della cultura. Le immagini monolitiche e gli stereotipi banalizzanti, che sono oggi tanto in voga nei confronti di coloro che si vogliono categorizzare come “altri” irriducibili e che fomentano l’intolleranza e il razzismo, divengono proiezioni sbiadite e rivelano la loro inconsistenza. Nell’attuale congiuntura storica, infatti, è di nuovo evidente che «l’interesse nazionale o l’identità nazionale non sono, in quanto tali e in assoluto, fattori di unità della comunità dei cittadini, e che l’equazione tra cittadinanza e nazionalità è essenzialmente precaria» (Balibar, 2012: 51).
Il presente articolo propone alcune riflessioni allo scopo di mettere in luce l’infondatezza degli atteggiamenti essenzializzanti e dei processi di categorizzazione e di stereotipizzazione particolarmente evidenti nei confronti di chi è di religione musulmana, a partire da una ricerca etnografica effettuata a Genova presso un’associazione di giovani adulti migrati dal Marocco.
L’associazione Al Fanus è nata nel 2015 quando un piccolo gruppo di appartenenti a un altro collettivo genovese, sentendosi insoddisfatto rispetto alle proposte aggregative esistenti in città riconducibili in qualche modo alla cultura araba, dopo numerose occasioni di incontro per discutere e unire le idee, ha deciso di fondare un’associazione nuova con obiettivi pedagogici e culturali per alcuni aspetti differenti da quelli offerti nel territorio alla collettività d’origine marocchina.
Le associazioni culturali presenti a Genova, infatti, sono in maggioranza collegate ai centri di preghiera e le attività proposte sono soprattutto di matrice religiosa, ad esempio l’insegnamento della lingua araba ai bambini attraverso la lettura del Corano o l’organizzazione di feste legate al calendario religioso. Accanto a esse esistono altre realtà associative, ma per lo più finalizzate alla mediazione tra migranti e servizi offerti nell’ambito comune. Un socio che è all’interno del direttivo ha affermato:
«ci si è visti per mesi, una, due volte alla settimana, si discuteva. Era una cosa molto bella e si era convenuto che dovesse essere un’associazione nuova, culturale, completamente staccata dalla questione religiosa. Non doveva esserci uno sfondo religioso. Questa era la novità. Fare una cosa che potesse trasmettere il bello che c’è nella cultura arabo-marocchina. Cose belle e poco conosciute!» (intervista a Y., 20 dicembre 2017).
Il fatto che il gruppo, attraverso lo statuto discusso e votato dai membri, evidenziasse la volontà di prendere le distanze dalla sfera religiosa non implicava la volontà di sminuire l’importanza di tale dimensione nella cultura di appartenenza, ma testimoniava l’intenzione di focalizzare le attività dell’associazione, che in principio sarebbero state rivolte ai bambini, su altri aspetti culturali. Lo statuto, infatti, recita:
«L’associazione si propone […] di promuovere la cultura della solidarietà ed elevare la condizione sociale, culturale ed ambientale dei cittadini di origine straniera per una fattiva inclusione. [Le finalità perseguite sono numerose, ma le principali sono:] “valorizzare le culture di origine e favorire gli scambi culturali; valorizzare le lingue di origine e favorire la loro conservazione; facilitare il dialogo tra le culture del Mediterraneo con particolare attenzione per il patrimonio culturale marocchino ed italiano; sostenere il dialogo interculturale […] sostenere il dialogo e il confronto linguistico e culturale nella comune condivisione dei principi della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del dettato costituzionale» (Statuto dell’associazione di volontariato Al Fanus).
Emblematico rispetto ai fini interculturali dell’associazione è stato il processo che ha portato alla scelta del nome e che ha cercato di considerare e incrociare stimoli culturali diversi:
«Si era pensato di dare un nome italiano, poi invece abbiamo deciso per un nome marocchino che rappresentasse qualcosa. La discussione era partita da una poesia di Victor Hugo che aveva proposto al gruppo uno di noi. C’era un verso il cui senso è che ai bambini bisogna dare un piccolo libro e gli adulti, con una torcia davanti, devono illuminare la strada. È allora venuta fuori l’idea del fanus. Al fanus è la luce della lanterna colorata che simboleggia il mese del Ramadan. È fatta di latta e all’interno c’è una candela. Viene accesa durante il mese del Ramadan per illuminare le case, i negozi e le strade e la si trova in tutti i bazar marocchini. È una tradizione che simboleggia la luce che illumina i sapienti per aiutarli a trovare il cammino, ma in realtà non ha a che fare strettamente con la religione, è più una tradizione. Siccome ha un bel significato ed è anche pronunciabile abbiamo scelto questo nome» (intervista a S., 16 novembre 2017).
L’associazione, che l’anno passato contava una quarantina di soci, è stata creata da cinque adulti tra i trentacinque e i quarant’anni e, fatta eccezione per il ragazzo più giovane, si tratta di uomini sposati con figli. Due di loro sono parte di coppie miste. Successivamente al direttivo si sono unite due ragazze. Il livello di istruzione dei soci che formano il direttivo è eterogeneo e in qualche modo rispecchia i diversi gradi di istruzione riscontrabili negli iscritti dell’intera associazione: due di loro sono migrati dal Marocco prima di terminare il ciclo di studi, tre hanno ottenuto il baccalaureat nel Paese di origine e sono partiti per l’Europa, due sono cresciuti in Italia, dove si sono diplomati e continuano gli studi.
I componenti del direttivo, che ha il compito di orientare le attività e di decidere con quali associazioni ed enti collaborare, sono un gruppo dal background molto diverso. Alcuni sono di estrazione rurale, altri provengono dalle città; sono migrati in età diverse, e chi è cresciuto in Italia ha vissuto un processo di socializzazione che di fatto ha reso necessaria la prassi quotidiana di mediare tra società e culture diverse che sono tutte parte integrante della propria identità [2]. Essi sono però accomunati dal progetto di vivere stabilmente in Italia e sono altresì interessati a favorire l’inclusione sociale e il dialogo interculturale, non solo per sé, ma in particolare a beneficio delle generazioni più giovani, dei propri figli.
Il diverso retroterra esperienziale, però, sovente si palesa nelle discussioni, e talvolta negli attriti interni al gruppo in merito alla linea che l’associazione deve seguire. Ma come asserito da uno dei ragazzi:
«La vita associativa è un buon esercizio di democrazia. La gente è abituata a far prevalere la propria opinione o idea, invece, in certi casi, c’è bisogno di una educazione o rieducazione ad accettare le idee degli altri. Quindi si deve votare. Non bisogna arrivare e dire “facciamo così” devi vedere se agli altri va bene. E se tu pensi di aver ragione, ma agli altri non va bene, non si fa. È tosta come cosa, alla fine lavori su un sacco di fronti. In particolare ci siamo spesso confrontati sulla questione del volontariato e della laicità »(intervista a Y., 20 dicembre 2017).
L’associazione, infatti, è di volontariato e nello statuto è deliberatamente precisato che gli eventuali introiti monetari possono esclusivamente essere utilizzati per finanziare i materiali necessari allo svolgimento delle iniziative pianificate. Non sono pertanto previsti rimborsi per i servizi prestati da nessuno dei soci. Tale scelta è stata presa sostanzialmente per due motivazioni: da un lato un’idea “forte” di volontariato, dall’altro la consa- pevolezza del fatto che la collettività marocchina nutre una certa diffidenza nell’associazionismo portato avanti da alcuni connazionali.
«La nostra associazione è per il volontariato, si fanno delle iniziative per raccogliere soldi in modo da supplire alle esigenze che si creano, ad esempio gli strumenti musicali, i libri e altro materiale per l’associazione e le attività, ma non per avere utili per pagare qualcuno, altrimenti non è più volontariato. Questo, a volte, è un motivo di scontro interno perché altre associazioni lo fanno. Per noi però è un vincolo. Se vieni a fare delle cose è perché ci credi e investi il tuo tempo, non per essere pagato. Poi i marocchini sono molto diffidenti, magari fanno gruppo con altra gente, ma tra marocchini c’è molta diffidenza, soprattutto quando si parla di associazionismo. Molto di quello che ci ha preceduto, alla fine non era associazionismo, ma si trattava di persone che davano dei servizi di mediazione a pagamento; ad esempio per avere i documenti. In realtà sarebbe un diritto essere messi in grado di poter fare i documenti o altre cose senza pagare. Quindi i marocchini hanno sempre paura che gli altri facciano soldi sulla loro schiena. Che poi non è esattamente così »(intervista a Y, . 20 dicembre 2017).
L’impronta prettamente culturale voluta dai fondatori dell’associazione, invece, oltre che dal desiderio di creare un qualcosa di nuovo, nasceva altresì dal clima di diffidenza e risentimento nei confronti dei musulmani dopo gli attentati avvenuti in Francia nel 2015. Non si trattava solo di veicolare all’esterno dell’associazione un’immagine positiva e aperta di sé, diversa da quella rimandata dai media e dalla società in generale, ma di creare per le seconde generazioni una possibilità di recupero del retaggio culturale e familiare che non fosse legato in modo esclusivo alla religione.
«Gli obiettivi dell’associazione sono prettamente culturali anche perché in realtà nasceva in un momento di crisi perché c’erano stati gli attentati in Francia. In realtà quello è stato uno dei motivi che ci ha spinto a partire dalla scuola, volevamo partire dai bambini, bambini che sono in realtà nati e cresciuti qua, quindi non hanno nulla di diverso dalle seconde generazioni in Francia. Il problema è che crescendo i ragazzi tendono a recuperare l’altro pezzo della loro identità e oltre alle moschee e alla religione esistono poche altre alternative. Non c’è niente. L’idea era insegnare la lingua araba, che comunque a loro appartiene, e assieme aspetti della cultura di origine, tutto quello che ci può essere storie, letteratura, musica. La mia paura, che poi in Francia si è rivelata in parte vera, è che nel recupero dell’altro pezzo della propria identità alla fine prevalga la religione. A questi ragazzi è stato trasmesso che la loro identità è la religione, l’Islam. Però non è vero! Fa parte dell’identità ma non è il solo aspetto. È un pezzo importantissimo della cultura, non si può negare, ne fa assolutamente parte. Ma proprio per questo non ha senso focalizzare le associazioni su questo aspetto culturale e identitario che già prevale» (intervista a Y., 20 dicembre 2017).
Il timore di derive fondamentaliste da parte dei giovani, che possono arrivare a produrre la violenza del terrorismo, è molto sentito e dibattuto anche all’interno della collettività araba. Pur non potendo negare l’esistenza di alcune spinte alla radicalizzazione, è stato sottolineato che il jihaidismo è un movimento costituito da giovani che non condividono i riferimenti religiosi e culturali dei genitori, ma piuttosto sono parte della “cultura giovanile” diffusa nelle nostre società (Roy, 2017: 9-19).
Nel gennaio del 2016 l’associazione ha pertanto esordito attivando un corso di lingua araba rivolto ai bambini. Tenuto da insegnanti volontari bilingue una volta alla settimana, in principio esso veniva fatto in un piccolo spazio civico condiviso fra varie associazioni, nel centro storico della città. Iniziato con pochi bambini, il corso alla fine aveva venti iscritti. I numeri erano aumentati poiché le famiglie, tramite il passaparola, erano venute a conoscenza di questa opportunità e portavano i bambini. L’anno successivo, ipotizzando di avere più iscritti, l’associazione ha preso uno spazio più grande. Ha fatto domanda a un Centro Territoriale per Adulti ottenendo l’intero piano di una scuola da utilizzare la domenica. A ottobre, infatti, si sono presentati quasi in quaranta, bambini e preadolescenti, e sono state fatte due classi suddivise per livelli. Una classe era improntata all’alfabetizzazione, l’altra era frequentata da chi aveva già conoscenze di arabo. Alcuni avevano già fatto altri corsi e sapevano un po’ leggere e pronunciare le lettere, altri, pur esprimendosi in darija, il dialetto marocchino, non conoscevano l’alfabeto, altri ancora non avevano alcuna conoscenza linguistica. Uno degli insegnanti ha motivato così la forte affluenza:
«Credo che la cosa innovativa fosse proprio il programma. Negli altri corsi, fatti per lo più nei centri islamici, l’arabo insegnato è legato a quel contesto, è basato sul Corano. Si insegnano le Sure a memoria. È come se al figlio di un italiano che nasce non so dove gli venga insegnato l’italiano con il catechismo. Quando sono arrivati lì, hanno visto che le attività erano diverse, non so, c’era l’ora in cui si faceva arabo e si imparavano le lettere e a leggere e scrivere, ma poi c’erano momenti più ludici, come le parti di letture di storie. Era quindi una cosa un po’ più variegata e più stimolante. In questo senso il distacco dal contesto religioso per insegnare arabo è stato apprezzato dalle famiglie. Questa cosa è da notare. Nella scuola dove insegnavamo, il sabato c’era un altro corso e molti bambini che lo frequentavano sono poi venuti da noi. Il fatto è che i bambini tra di loro si parlano e si raccontano cosa fanno. I nostri erano molto entusiasti e quindi invitavano gli altri bambini. Alla fine si erano presentati addirittura alcuni ragazzi di sedici e diciassette anni» (intervista a Y., 20 dicembre 2017).
Durante il primo anno di attività, il tentativo di portare avanti una didattica di stampo più laico per favorire l’apprendimento nei bambini dell’arabo classico e dell’arabo moderno standard è riuscito con il comune accordo del direttivo. Tuttavia, dopo un certo periodo di tempo, uno dei maestri ha iniziato a utilizzare il Corano e le Sure nelle lezioni. Questo fatto ha suscitato la sorpresa del collega generando aspre diatribe sulla questione. Il programma, in precedenza discusso, doveva essere, infatti, totalmente diverso. Le motivazioni di tale slittamento erano in parte legate alla preparazione dell’insegnante poiché l’associazione utilizza volontari che abbiano voglia e tempo da dedicare e questo limita le possibilità di scelta. Dall’altro lato, però, esiste un problema più generale ossia il fatto che oggi si tende a ricondurre, consciamente o meno, i discorsi identitari alla religione.
Lo scontro nell’associazione è avvenuto perché in realtà non ci si voleva esclusivamente rivolgere ai figli dei migranti. L’idea iniziale dell’associazione era valorizzare la lingua e la cultura araba, gli aspetti condivisibili, belli e importanti che possono essere, un valore aggiunto da trasmettere alla società in cui si vive. I corsi, pertanto, sarebbero dovuti essere aperti anche a bambini italiani o di altre nazionalità. La maggioranza del direttivo voleva evitare atteggiamenti di “chiusura mentale”, spesso inconsci, che rischiavano di creare un “ghetto” per i figli di marocchini. Le difficoltà sono emerse in merito alla gestione dei corsi di arabo e l’idea di proiettarsi all’esterno anche attraverso di essi; per contro la progettazione di iniziative diverse e la collaborazione a proposte di altre realtà del territorio si sono rivelate di più semplice gestione e hanno sovente coinvolto gran parte degli iscritti.
Ogni anno, in primavera, l’associazione organizza una gita in una località dell’entroterra genovese per fare una grigliata. È un momento di condivisione che coinvolge famiglie marocchine e amici italiani:
«Il primo anno abbiamo deciso di fare un’uscita tutti assieme, a Casella col trenino. È un posto fantastico, il primo anno avevano già aderito numerose famiglie. Anche noi eravamo un po’ stupiti. Insomma siamo andati e ci siamo divertiti. La gente era felicissima. Così l’anno scorso, iniziata la primavera, cominciavano a scalpitare e a chiedere della gita. Allora l’abbiamo rifatta e c’era una quantità di gente incredibile, si era creato un bel clima, un clima di fiducia perché non è per niente scontato che a un’uscita con altri marocchini un uomo si porti dietro sua moglie e le due figlie grandi perché non ci si fida molto. Invece lì erano tutti sereni e tranquilli» (intervista a S., 16 novembre 2017).
Una dimensione trasversale rispetto all’età è considerata centrale sia per favorire relazioni positive e una maggiore coesione all’interno della collettività marocchina sia per gettare ponti verso l’esterno che favoriscano la conoscenza reciproca e il dialogo su basi paritarie attraverso la frequentazione. Genova è infatti per vocazione aperta al Mediterraneo, ma i suoi cittadini rischiano oggi di virare su posizioni di chiusura rispetto ai fenomeni migratori, così come avviene nel resto del Paese. È importante considerare che:
«Immaginare uno Stato ripulito dagli stranieri non è affatto realistico, […] l’immagine scelta per guidare lo sforzo di quella ricostituzione è molto spesso ricavata dal passato: il passato com’era, ma ancor più come potrebbe essere immaginato – inequivocabilmente “nostro”, non contaminato da “loro” e dalla loro intrusiva presenza »(Bauman, 2017, 54).
L’associazione ha partecipato a tutte le edizioni della “Festa dei mondi”, gestita dal Porto Antico. È un festival annuale, della durata di una settimana, che affronta svariati temi interculturali per mezzo di conferenze e laboratori settimanali. Il festival culmina in una festa domenicale durante la quale le collettività straniere che vivono a Genova organizzano giochi per bambini e ragazzi, stand culinari e concerti di musica. Avendo l’associazione un gruppo che suona musica tradizionale marocchina, proprio in quest’occasione, molti giovani migranti hanno avuto modo di accostarsi ad Al Fanus e aderire in seguito anche ad altre iniziative:
«Il gruppo che canta musica marocchina tradizionale funziona e coinvolge molti ragazzi che vengono ad ascoltare C’erano tutti i marocchini del Centro Storico, io non li conoscevo neppure. L’anno scorso c’è stato un campionato di calcio, una specie di mondialito con tutte le altre comunità presenti a Genova. È stata una cosa incredibile! In una squadra dovevano giocare in undici più quattro di riserva, invece si sono presentati in trenta. Parliamo di adolescenti» (Intervista a Y., 20 dicembre 2017).
Impegnarsi nell’attività educativa e ludica con bambini e adolescenti di origine straniera, le cosiddette “seconde generazioni”, bambini nati e cresciuti qui, nelle quali è opportuno includere anche coloro che pur essendo nati all’estero sono arrivati in Italia in tenera età, o nella preadolescenza, e hanno frequentato la scuola italiana, significa confrontarsi con il loro vissuto sovente complesso. Si tratta di esperienze di vita diverse, dalle quali spesso emergono dei tratti comuni che riguardano i rapporti familiari e generazionali, la sfera amicale e i rapporti di genere. Sono altresì diffusi atteggiamenti e sentimenti contraddittori verso il Paese di origine, proprio o dei genitori, e nei confronti di quello in cui si vive, del quale non sempre si possiede la cittadinanza.
Tutti questi aspetti sono narrati in un romanzo autobiografico dal titolo Uè Africa! Diario di un marocchino, scritto da Youssef El Hirnou, un giovane che vive e lavora a Torino e che è stato invitato a Genova per la presentazione del suo libro. La collaborazione di Al Fanus con un’altra associazione, anch’essa nata con l’idea del dialogo nel Mediterraneo, ha contribuito alla riuscita dell’evento che ha potuto contare sulla partecipazione interessata di molti soci.
Al momento le attività dell’associazione, a causa di alcuni dissapori e di impegni personali da parte di coloro che nei fatti la dirigevano, sono un po’ in stallo, ma l’esperienza nel complesso si è rivelata positiva e per questo i soci spingono affinché le attività e i corsi possano presto riprendere.
L’analisi dell’associazionismo dei migranti getta luce sulle modalità di relazione con il contesto d’approdo, sulle relazioni interne alle comunità migranti e fra queste e i Paesi di origine e la propria cultura. Come abbiamo detto sopra, le associazioni sono l’espressione di un mondo composito e pertanto sono molto diversificate fra loro. Il caso che abbiamo considerato mostra come l’associazionismo possa rappresentare uno strumento di emancipazione da stereotipi e pregiudizi imposti dalla società dominante. Al contempo, l’associazione Al Fanus ha stimolato una riflessione interna alla comunità dei migranti marocchini, contribuendo così a smussare le barriere identitarie fra “stranieri” e “italiani”. Si tratta di un lavoro critico prezioso, tanto più in un periodo in cui buona parte dei politici e dei media insistono nel presentare l’Islam come religione violenta e incompatibile con la “civiltà occidentale”. L’associazione Al Fanus si è opposta a tale processo attraverso una strategia de-essenzializzante: la cultura araba, infatti, è stata promossa nella sua ricchezza e complessità, evitando ogni riduzionismo alla dimensione religiosa.
Tuttavia non si tratta di un’operazione rivolta soltanto verso la società esterna per promuovere l’integrazione dei giovani marocchini, ma anche verso la stessa comunità dei migranti. Emerge, infatti, la consapevolezza che i contesti migratori, a causa delle dinamiche d’esclusione e di stigmatizzazione, possono portare gli stessi migranti ad abbracciare e a promuovere una visione essenzializzata della propria cultura di origine. In particolare i più giovani e le seconde generazioni, che si trovano spesso in bilico fra le dinamiche di esclusione ed inclusione, sono maggiormente soggette a subìre il fascino di visioni radicali quali il fondamentalismo islamico. Tali questioni sono state oggetto di un dibattito interno all’associazione Al Fanus e ne hanno orientato in modo consapevole le scelte programmatiche. L’associazionismo, quindi, mostra ancora una volta di rispecchiare una realtà sociale complessa e diversificata, che nulla ha a che vedere con gli stereotipi e le categorie divulgati con insistenza sempre maggiore da numerosi media e da una parte sempre più consistente del mondo politico.
Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
Note
[1] Per una rassegna di questi studi vd. Riccio 2009. Sull’associazionismo delle seconde generazioni vd. Riccio e Russo 2010.
[2] Per un approfondimento sui ragazzi di origine marocchina a Genova vd. Notarangelo, 2011.
Riferimenti bibliografici
Balibar E., Cittadinanza, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
Bauman Z., Retrotopia, Laterza, Roma-Bari, 2017.
El Hirnou Y., Uè Africa. Diario di un marocchino, BookSprint Edizioni, Romagnano al Monte (Sa), 2017.
Notarangelo C., Tra il Maghreb e i carruggi. Giovani marocchini di seconda generazione, CISU, Roma, 2011.
Riccio B., Introduzione. Africa in Europa: strategie e forme associative, «AFRICHE E ORIENTI», 1-2, 2009: 4-10.
Riccio B., Russo M., Associazioni delle nuove generazioni a Bologna: sfide interne ed esterne, «MONDI MIGRANTI», n 2, vol. 11, 2010: 247- 274.
Roy O., Generazione ISIS. Chi sono i giovani che scelgono il califfato e perché combattono l’Occidente, Feltrinelli, Milano, 2017.
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Cristina Notarangelo, dottore di ricerca in scienze antropologiche, ha tenuto corsi di Antropologia culturale, Storia dell’Africa ed Etnologia del Mediterraneo presso l’Università degli Studi di Genova. Da anni si occupa di intercultura e del tema delle migrazioni, con particolare riferimento ai giovani marocchini di seconda generazione.
Luca Jourdan, docente di Antropologia Sociale e Antropologia Politica all’Università di Bologna, ha condotto una ricerca sul terreno nel Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo) sul rapporto giovani/guerra, la crisi dell’infanzia, l’economia informale. Si è occupato di migrazioni interne all’Africa e attualmente conduce una ricerca in Uganda sui rifugiati eritrei nella capitale Kampala.
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