di Alessio Giussani, Sarah Waring [*]
“Posso farti una domanda personale?” Anche se conosco appena il collega di fronte a me, qualcosa in questa pausa pranzo seduti su una così stretta terrazza spinge alla schiettezza. Passare del tempo insieme durante le fasi di bassa del virus è ancora una novità. Da ultima arrivata dello staff di redazione, buona parte delle mie interazioni sono state virtuali e questo appartamento viennese riadattato a ufficio sta venendo solo progressivamente ripopolato. Sono contenta che il tirocinio di Alessio in questo piccolo crocevia migratorio sia stato prolungato. ‘Sì, certo’, risponde con un sorriso disponibile.
“Venticinque”, rispondo tra il deluso e il divertito: “Quanti anni hai?” è una domanda più prosaica di quanto mi aspettassi. È forse per questo che a mia volta la rivolgo a Sarah, sicuro di non essere invadente, e scopro che lei ha quasi il doppio delle mie primavere. Entrambi siamo a Vienna per ragioni che hanno qualcosa a che vedere con la libertà. La mia, però, ha i contorni indefiniti della vita ipotetica, proiettata in un futuro insicuro quanto eccitante. La sua libertà – mi spiega quasi raggiante – è consapevolezza piena della vita presente, dello spazio tutto suo che vi si è ritagliata.
Il mio evidente entusiasmo nel descrivere un’età in cui sono più sicura di me appare improvvisamente indulgente; parlare a lungo della vita che a un altro non è ancora dato conoscere può facilmente far scivolare una conversazione nel prosaico. Le parole di saggezza non sono il mio territorio naturale; più invecchio, meno penso di sapere. Quindi cambio argomento: “Vedi quel gatto lassù? All’ultimo piano. Non ho idea di cosa possa vedere, ma guarda sempre fuori da quella rete sulla finestra”.
Impigrito dall’atmosfera ovattata del primo pomeriggio, volgo il mio paio d’occhi miopi alla finestra del palazzo dirimpetto. “Ah, sì”, rispondo, accontentandomi della sagoma grigiastra che riesco a mettere a fuoco. Sarah da lontano ci vede benissimo, invece; inforca gli occhiali solo davanti al computer. Colleghi da poco e ancora per poco, lei e io non avremmo granché da spartire, non fosse per il filo che ci lega a luoghi diversi di uno stesso Paese, l’Italia, dove entrambi ci sentiamo a casa. E dove, dopo mesi surreali, ci apprestiamo a tornare, ognuno per conto suo.
“Tutto qui?” – nessun controllo, niente traffico, semplicemente ‘aperto’ – l’attraversamento del confine della Val Canale, pur agevole, mette alla prova le aspettative. Capisco l’imbronciata reazione del ragazzo, la sua delusione, che riflette tre lunghi mesi lontano da casa; come me, era rimasto bloccato in Austria.
Sono fortunata ad avere questo strappo. La mia amica, che ha appena coperto il breve tratto di strada oltreconfine per recuperare suo figlio minore dalla nonna, ha accelerato il mio senso di arrivo e la sua realtà. Tutti mi sono mancati del villaggio di montagna, un po’ fuori dai sentieri battuti, dove ero finita una vita fa. Dietro la mia spalla il recente esule, la cui assenza è stata sentita da entrambe le parti, sta già bisticciando con il fratello maggiore a un braccio di distanza per accaparrarsi più spazio. Il più grande ha deciso di restare con la nonna per qualche giorno.
Mentre oltrepassiamo vuoti chioschi intagliati in un’austera struttura a ‘T’, anche la mia nostalgica cineteca del lockdown lascia la sua traccia – penso a quanto Antonioni avrebbe amato questi spettrali rimasugli di un commercio di frontiera un tempo florido, intrisi del recente trauma e delle preoccupazioni per il futuro.
“In your head, in your head…”, nel treno semivuoto, un ragazzo ha preso coraggio. Ha sfoderato una chitarra sgangherata e strimpellando si è messo a canticchiare. “Che canzone è?”, domando in inglese, lingua franca che ben si adatta al fazzoletto di terra di nessuno in cui siamo. “Zombie”, risponde laconico ma non seccato il mio compagno di viaggio.
Da svariati minuti siamo fermi a metà strada tra i due cartelli appesi al muro in prossimità della stazione del Brennero. ‘Austria’, a sinistra. ‘Italia’, una manciata di metri più a destra. Proprio qui, dove il confine è luogo fisico e non solo concetto, la sua immaterialità si disvela. Eppure per settimane, per mesi, quello stesso confine – ora così inconsistente, così vacuo – si era trasformato in barriera insormontabile, invalicabile cortina di ferro.
I saluti quotidiani erano qui istintivi, anche se spesso i nasi si urtavano affettuosamente per via dei diversi modi di scambiarsi i baci di rito. Adesso il distanziamento fisico è la norma e ogni contatto è diventato consensuale. E tuttavia il metro regolamentare è elastico. Un abbraccio che ricevo e restituisco con altrettanto calore è talmente sentito che la sua palpitante intensità potrebbe non abbandonarmi mai. Altri saluti, ancora con i gomiti, trasmettono un entusiasmo giocoso.
“Uno e quarantacinque” – la stima, per quanto convinta e accurata, viene prontamente corretta – “Uno e quarantuno”. Mi meraviglio di fronte a entrambe le misure. Anche se è molto improbabile che io indovini mai quanto è alto qualcuno, ne capisco il senso quando non hai visto un ragazzo per qualche tempo. E ricordo l’orgoglio nel tenere traccia della mia statura in aumento. Il quiz lanciato dal mio vicino sulla cinquantina rivela qualcosa anche del bambino che è in lui.
Metto a verbale anche i miei calcoli. Posso sempre misurare quanto tempo è passato da quando sono arrivata qui per la prima volta sulla base dell’età del ragazzo. Sua madre, che ha pazientemente sorvolato sull’animato viaggio in auto di oggi, regolava coscienziosamente il passo nel villaggio scosceso ai tempi in cui lo aspettava. Ora, mentre lui si dilegua verso la piazza, mi rallegra pensare che ho imparato ad amare questo posto e la sua gente fino ai 141 centimetri e oltre.
Per un attimo, potrei giurarci, gli occhi di mio padre hanno indugiato su di me. Ma il suo sguardo è concentrato sulle carrozze più lontane, in fondo alla banchina, da dove si aspetta di vedermi scendere. Facendo capolino dal vagone più prossimo a lui, mi sono quindi condannato alla trasparenza, quasi non bastassero a darmi consistenza le valigie che trasporto e il volume dei capelli ispidi e ricciuti, lasciati proliferare per mesi. Per farmi riconoscere mi devo sbracciare.
Sono arrivato in sordina, quasi di soppiatto: del mio ritorno a casa sanno solo gli amici più stretti. Un’accoglienza poco calorosa, allora, è esattamente quello che avrei dovuto aspettarmi; eppure fatico a scrollarmi di dosso un vago senso di delusione. Raccolgo ciò che semino, e lascio talvolta le amicizie ad appassire in un’imperdonabile incuria.
“È successo da un giorno all’altro. Non c’è stato tempo per prepararsi”. L’uomo d’affari e assessore locale, conosciuto per tenere il suo giardino meticolosamente curato, riflette con solennità sulla recente emergenza. Anche se i cambiamenti imposti hanno avuto effetti negativi, le precauzioni hanno anche tenuto le persone al sicuro: la decisione di sospendere le visite alla locale casa di riposo avrà pur pesato sui pazienti e i loro parenti, ma lì nessuno è morto di COVID.
L’operatrice sanitaria, che raccoglie e volentieri scambia sementi biologiche, è chiaramente esausta dalle sue esperienze del lockdown. I tanti stress e le fatiche quotidiane preesistenti sono state amplificate. Gli ospiti della casa di riposo sono stati spostati dalle loro stanze in cinque spazi diversi, a turno. Il corridoio d’ingresso, di solito pieno di sedie a rotelle giostrate da un comitato di accoglienza con fare inquisitorio, riverberava di istituzionale bianchezza. Lo staff doveva sottoporsi a un test per il virus ogni 15 giorni. Le visite con i pazienti in ospedale venivano fatte con tutti i dispositivi di protezione individuale.
Il tempo che l’assistente sanitaria trascorre in giardino dev’essere ancora più prezioso adesso. Ai parenti sono nuovamente concesse le visite, ma devono tenersi al di là del vetro. La casa di riposo si adatta alle norme usando le sue porte scorrevoli. Immagino che la competizione un tempo riservata alla televisione sia adesso incentrata sul guadagnare i posti più vicini all’uscita.
La madre dell’operatrice vive in Lombardia. So che non ha potuto uscire di casa per mesi, e mi è stato detto che vedeva regolarmente dalla sua finestra i camion militari che trasportavano salme.
Insonne, poche settimane fa vagavo di notte per le strade di Vienna. Un vento tagliente consumava la sigaretta appena accesa e penetrava insidioso da sotto il cappotto, quasi a volermi spogliare. Nuda però era lei, la città, altera capitale d’impero, ora deserta come forse non l’aveva vista mai nessuno prima.
Camminando mi rilocalizzavo, restituivo al mio corpo una geografia in mezzo a punti di riferimento concreti, d’asfalto e calcestruzzo. Di giorno, chiuso nella mia stanza, fluttuavo. Guardavo altrove, lontano, all’‘Italia malato d’Europa’. Dati, grafici, titoli, bollettini, statistiche, proiezioni, possibili scenari, testimonianze. ‘Per tutto il giorno abbiamo sentito sirene, elicotteri, ambulanze’, mi scriveva un amico. Consumavo informazioni come antidoto all’assenza.
In una di quelle mie passeggiate notturne mi era tornato in mente un brano di Lucrezio trangugiato frettolosamente a memoria, come era prassi ai tempi del liceo. Immune alle futili tribolazioni umane, il saggio epicureo veniva paragonato allo spettatore che da lontano, da sicura riva, contempla il naufragio di una nave nel mare in tempesta. E si sente rincuorato, quel testimone dell’altrui sventura, pensando a quanto più felice sia la sua condizione.
Io però, lontano da casa, non ero il saggio ma il disertore. Ero il mozzo che, mentre il resto dell’equipaggio si affanna a ammainare le vele in mezzo all’infuriare del vento e delle onde, si accaparra la prima scialuppa e si mette in salvo, accorgendosi solo una volta a riva che nell’occhio del ciclone ci sono i compagni di viaggio, gli amici di sempre. E vorrebbe ributtarsi in mare, invertire la rotta, tornare indietro. Ma ormai è tardi e resta lì, al sicuro dalle onde e però alla mercè dell’anche più burrascoso mare dell’impotenza.
La tempesta, adesso, è passata. Bonaccia perenne? Preludio a nuovo uragano? Nessuno sa.
Tutto quello che sarebbe stato routine quotidiana va ora condensato nel poco tempo libero. Malgrado le faccende domestiche ancora da sbrigare, riposo un attimo sul terrazzo sgomberato dai detriti. Con le gambe distese, mi ritrovo a guardare a nord ovest. Mi viene in mente che sono rivolta verso il luogo da cui provengo: una linea tracciata sulla mappa sopra le montagne andrebbe a incontrare i mulinelli del fiume di Londra prima di ormeggiare nelle piane alluvionali del Gloucestershire.
Nonostante i solidi legami rafforzati dalle avversità e impazienti di ricongiungersi, non sono ancora tornata nel Regno Unito da quando ha riaperto i confini. I familiari mi sconsigliano di intraprendere il viaggio, almeno per il momento. Ci sono troppe incognite, dicono, e poche sicurezze. Là gli esuberi stanno già avendo effetto e temono che io non riesca a rientrare nel continente per lavorare; una tempestiva opportunità a Vienna aveva fatto di me una dei fortunati del lockdown.
Quando ho abbandonato questo nido rurale, ho rivissuto parte della mia eccitazione tardo-adolescenziale nel lasciare casa in vista di un nuovo inizio indipendente. I miei propositi erano permeati di determinazione e di apprensione – ce l’avrei fatta, vero? Dubbi o non dubbi, avevo bisogno di stabilire maggiore autonomia in una fase della vita in cui molti si sentono al loro posto. Mi sarei riposizionata, chiamando a raccolta ciascuno dei miei ricordi perché, flessibili, mi sostenessero. Anche se mi ero autoconvinta che stavo facendo una mossa coraggiosa e che sapevo quel che volevo, in tutta onestà agire era l’unica scelta. Il mio Paese d’origine ha ripudiato i suoi emigrati per rinforzare il suo pregiudizio contro gli immigrati e ciò mi ha reso molte cose – vulnerabile, risentita, frustrata, ferita – ma soprattutto intraprendente, come tanti altri in tutto il mondo.
In maniera perversa, la pandemia ha avvicinato un senso di comune incertezza.
Sono con il mio vicino fuori dal bar che dà sulla piazza adibita a parcheggio. L’estremità circolare in cemento e asfalto della strada, circondata da terreni scoscesi e montagne pittoresche, somiglia a un anfiteatro. L’edificio, che era una delle diverse scuole del villaggio, è ora l’unico luogo di incontro – un’ancora di salvezza per una piccola comunità rurale, forse più importante della chiesa. Siamo agilmente posizionati lungo il suo stretto vialetto in mezzo a una valanga di impalcature; qui come a Vienna, i lavori di costruzione sono diventati sinonimo di sotterrare ottimisticamente il coronavirus sotto la rigenerazione economica.
Mentre ci dilettiamo in una delle attività locali preferite – guardare il paesaggio – mi indica qualcosa più avanti. “Lo vedi? Sul lampione?” Calibro il mio sguardo verso il centro della piazza ma non vedo nulla. “Devi guardare da dove sono seduto io”. Mi avvicino un po’, ben sapendo che potrebbe trattarsi di una trappola – le burle sono un altro dei passatempi preferiti. “Che cosa?”. Ho delle coordinate, ma questo è tutto. “Il filo del ragno”. E in effetti il sole di quando in quando illumina una sottile corda di seta che oscilla nella brezza. Quell’opera notevole sembra dipanarsi fino all’edificio successivo, distante sette metri buoni, ma nell’ombra diventa ancor più discreta.
Mi ero ripromesso di osservare quello che, quand’ero al di là del confine, neanche il consumo ossessivo di informazioni aveva potuto darmi: cenni, espressioni, posture, grammatiche di sguardi da cui trapelano i vissuti delle persone e i loro stati d’animo. E invece, risucchiato dalla prosaicità del quotidiano in questa porzione di Italia che è la bolla in cui sono cresciuto, mi ritrovo presbite. Immerso nel vivere ma incapace di decifrare i contorni di ciò che mi è prossimo.
Adattarsi a un contesto nuovo – Paese, città, quartiere, abitazione – richiede un lavoro di osservazione, un distacco quasi etnografico preliminare a ogni assimilazione, a ogni possibilità di sentirsi a casa. Ora invece manco di prospettiva, di distacco osservante. Tanto più familiare, quanto più sfocato e ineffabile quel che mi circonda.
Sarebbe facile cedere alla sensazione che qui le ripercussioni del lockdown siano state minime. Quando le porte si sono rumorosamente chiuse, tutti coloro che vivevano in luoghi a bassa densità demografica e disponevano di uno spazio all’aperto erano avvantaggiati. Mentre il variegato contesto urbano accusava il colpo e veniva costretto a esplorare nuove forme di interazione, nelle aree rurali i ritmi naturali hanno continuato con relativa normalità. Quelli con vite domestiche stabili si sono assestati su una continuità anche maggiore. Quella che è spesso vista come una vita meno sofisticata aveva invece già tutto l’essenziale. Produrre parte del proprio cibo è una fonte di ricchezza. E, salvo l’obbligo di indossare la mascherina nell’orto, il ciclo biologico della stagione è proseguito come prima.
Ma la vita rurale è anche precaria. Ben poche decisioni vengono prese a livello locale. La città detta norme e regole da lontano. Le infrastrutture pubbliche sono sotto crescente pressione. Le forze di mercato al servizio dei grandi numeri non trovano profitto nelle piccole comunità. E con l’intero Paese che subisce il contraccolpo delle restrizioni, le risorse saranno ancora più scarse.
Un po’ ovunque, a mo’ di mantra, sento ripetere che le persone “hanno voglia di normalità”, di “tornare alla vita di prima”. Questi mesi, che hanno sconvolto l’ordinario in maniera tanto radicale da sembrare irreversibile, si sono trasformati in un trampolino di lancio per rituffarsi con ancora più voluttà nella vita di sempre. Ci eravamo ripromessi un cambio di paradigma, invece è in atto come un’ostentazione dell’ordinario, un oblio intenzionale e dunque osceno, pornografico, di quanto è stato. Normalità che si afferma attraverso l’occultamento certosino di tutto ciò che l’ha perturbata. Vita fenice, dissolvi e poi risorgi dalle tue stesse ceneri.
Una sera, dal nulla, avvisto il tenace giardiniere in pensione, seduto di fronte a me una cinquantina di metri più in là, oltre le file di granturco e le piante di fagioli. Le nostre posizioni rilassate sono bizzarramente simmetriche. Mentre ammiro il pergolato del suo maestoso noce, faccio ciao con la mano. Non dà segno di risposta. Forse non mi vede. Provo un’altra volta prima di ritornare a una correlazione passiva.
Questo paesaggio su cui ho spesso posato lo sguardo, qualcosa delle sue vette e dei suoi pendii, mi ha plasmato fuori e dentro, e rimane anche quando assente. Un arco montuoso tanto panoramico, che fa da cornice agli orti adiacenti l’uno all’altro, non smette mai di ammaliare. Penso al chiarore mattutino che progressivamente illumina la scena, da sinistra verso destra, come replicando la transizione al colore dei film in bianco e nero. Ora che il sole è basso posso razionalizzare quei momenti. Quello spettacolo è sempre suggestivo ma non deve sorprendere – o le nuvole sono passate o non lo sono.
Quando cala la sera su queste torride giornate estive, l’incombere di un temporale è la promessa di una vita nuova. Rami sinuosamente piegati al vento, latrare spaventato di cani e persiane sbatacchiate preannunciano scrosci violenti, agognati attimi di refrigerio. Ma l’acqua presto evapora dall’asfalto ancora impregnato del calore del sole, sprigionando un’afa insopportabile. Invariabilmente infrante, quelle promesse di rigenerazione si mutano in speranze deluse.
Fino al prossimo temporale.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
[*] Gli autori del testo sono due ex colleghi di età, genere e nazionalità diversi, che si trovano ad affrontare una situazione analoga – tornare in Italia dopo i mesi di lockdown, confrontandosi con aspettative, realtà e prospettive del loro viaggio. Anche se scritte separatamente, le loro impressioni e riflessioni – che si distinguono nella scrittura per i caratteri in tondo e in corsivo – sono tenute insieme da un filo comune che si dipana letterariamente tra il familiare e l’inconsueto, sfiorando temi quali migrazione e identità nell’era del nuovo coronavirus.
______________________________________________________________
Alessio Giussani, nato in Italia, è un giornalista e freelancer formatosi tra Milano e Salonicco, in Grecia. Tra gennaio e giugno 2020 ha lavorato a Eurozine come assistente editoriale. Alcuni dei suoi articoli più recenti sono stati pubblicati da Reset DOC e da Contrasti.
Sarah Waring, nata in Inghilterra, è scrittrice e redattrice. A Londra ha studiato al Royal College of Art e ha lavorato al Financial Times, a Haymarket Publishing, all’University of Westminster e all’University of the Arts di Londra. Autrice di Agricoltura senza terra e Pezzi vaganti: Tra la cattura e la fuga, gestisce Traverzine: una letteratura tascabile, e cura articoli per Eurozine. Alcuni dei suoi lavori recenti di ‘creative non-fiction’ sono stati pubblicati da Broad Street, Delo (il principale quotidiano sloveno) e Materialverlag, di Amburgo.
_______________________________________________________________