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“Atavismo”. Un racconto di Cesare Luccio

rivista

La Kahena,  rivista letteraria

di Marinette Pendola 

Durante i due secoli di presenza sul territorio tunisino, la comunità italiana non esprime personalità letterarie rilevanti come è il caso di quella di Alessandria d’Egitto (Ungaretti, Marinetti, Cialente), poiché la produzione di scritti è prevalentemente orientata verso il giornalismo in special modo politico ed ha massimo rilievo nella stampa che svolge un ruolo fondamentale nel panorama intellettuale. Una produzione squisitamente letteraria fa la sua comparsa sin dal 1880, rimane tuttavia confinata nei diversi periodici dell’epoca e tuttora mai raccolta in antologia. E le raccolte poetiche pubblicate dal 1896 in poi sono di difficile reperibilità.

La produzione letteraria diventa sicuramente più importante negli anni fra le due guerre dal punto di vista quantitativo ma soprattutto qualitativo: si contano venticinque raccolte poetiche e una ventina fra romanzi e antologie di novelle. Emergono in quegli anni le personalità letterarie più interessanti, fra cui Mario Scalesi, Ignazio Drago e Guido Medina per la poesia, Francesco Cucca (che fu anche poeta) e Cesare Luccio per la narrativa.

36063182_1957991104482043_7153299998929584128_nParlare di autori italiani non significa necessariamente riferirsi alla loro espressione linguistica. Sono italiani coloro che, per appartenenza, cultura, ceto sociale, provengono da quell’emigrazione massiccia avvenuta prevalentemente fra la fine dell’Ottocento e i primi vent’anni del Novecento, ma che non necessariamente utilizzano l’italiano come mezzo espressivo della loro produzione letteraria. Fissare l’attenzione, seppur brevemente, sull’espressione linguistica di questi autori significa attraversare tutti gli sconvolgimenti che hanno agitato quella comunità. Parlare e scrivere in lingua italiana è una scelta identitaria che permette di esprimere il proprio patriottismo in un mondo in cui il francese s’impone come lingua ufficiale e la politica coloniale tenta di arginare quello che nell’opinione pubblica viene etichettato come péril italien.

Mario Scalesi

Mario Scalesi

D’altronde, proprio fra le due guerre, la scuola francese si diffonde nei quartieri popolari e nelle campagne, mentre le pur numerose scuole italiane rimangono confinate al perimetro cittadino. La diffusione del francese come lingua culturale nei ceti popolari vedrà la sua massima espressione dopo la Seconda guerra mondiale quando saranno chiuse d’autorità tutte le istituzioni italiane, scuole comprese. Il francese diventa in questo contesto lingua di emancipazione e di apertura verso ambienti culturali più ampi.

Negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, la scelta della lingua s’impone non sempre per motivi identitari ma spesso come conseguenza naturale della propria formazione intellettuale. Per limitarsi agli autori sopra citati, Ignazio Drago, maestro elementare inviato da Roma in una scuola di Tunisi, non possiede altro mezzo espressivo al di fuori dell’italiano, così come Francesco Cucco, formatosi in Italia prima di giungere in Tunisia. Diverso è il caso di Mario Scalesi la cui formazione intellettuale avviene dapprima nella scuola francese del suo quartiere e poi alla Bibliothèque Nationale in cui trascorre parte delle sue giornate. Per lui, come per altri nelle stesse condizioni, il francese diventa mezzo di emancipazione sociale e, sebbene scriverà anche versi in italiano, la lingua in cui con più agio si esprime, rimarrà sempre quella della formazione letteraria. Diverso è l’atteggiamento di Guido Medina che, all’indomani della promulgazione delle leggi razziali, abbandona per protesta l’italiano nel cui mondo culturale non si riconosce più.

img_6796Altra ancora è la posizione di Cesare Luccio che sceglie il francese perché intende rivolgersi a un preciso pubblico di lettori, quello dei dominatori il cui sguardo nei confronti degli italiani è di assoluta indifferenza quando non addirittura di disprezzo. Una scelta degna di elogio, secondo quanto scrive il critico Yves Châtelain nelle prime righe della Prefazione alla raccolta Humbles figures de la cité blanche ou la Sicile à Tunis [1], per «il lavoro che s’impose, lui che era italiano di nascita per diventare uno scrittore d’espressione francese». Dopo la pubblicazione di questa raccolta, Luccio continua a scrivere in francese. La rivista LA KAHÉNA [2] infatti pubblica, dal 1936 al 1938, una serie di suoi racconti sempre con le stesse tematiche e la stessa ambientazione, in cui l’autore ormai sicuro dello strumento linguistico e dei propri mezzi, raggiunge, a mio parere, la piena maturità espressiva. Tuttavia la scelta della lingua francese non è definitiva come si evince dalla sua parabola letteraria ormai conclusa. Finita la guerra e decapitata la collettività italiana della sua intellighenzia per via delle numerose espulsioni, Luccio sente l’urgenza di mantenere viva la cultura italiana in quel piccolo mondo sempre più francesizzato e inizia la sua collaborazione con il Corriere di Tunisi [3] scrivendo esclusivamente in italiano.

il-corriere-di-tunisiIl racconto che segue, tradotto per la prima volta in italiano, è uno dei più brevi scritti da Luccio, forse nemmeno il più importante. Tuttavia è stato scelto poiché, collocandosi nella quarta posizione all’interno della raccolta Humbles figures de la cité blanche ou La Sicile à Tunis sopra citata, segna una tappa importante nell’arte di Luccio e, per la sua posizione e per i contenuti, evidenzia un distacco indubbio rispetto all’intento etnografico che aveva animato i primi scritti dell’autore. Sebbene l’ambiente sia sempre quello della Piccola Sicilia e i personaggi siano migranti di prima generazione come nei racconti precedenti, le abitudini sociali non fungono più da elemento catalizzatore, mentre emergono, tratteggiati con maestria, i caratteri dei singoli individui. Una sottile ironia pervade tutto il racconto, espressa tuttavia con delicatezza poiché Luccio nutre una totale empatia nei confronti dei suoi umili eroi che, per riprendere le parole scritte da Châtelain nella sua Prefazione, «ama non come amici, ma veramente come fratelli». 

Atavismo 

di Cesare Luccio

I Giambrutto erano umili contadini siciliani che coltivavano “vastunache” (carote lunghe quaranta centimetri) a poche leghe da Favignana.

Cinto Giambrutto, che diventerà l’eroe della nostra storia e il fondatore della dinastia che ci interessa, diede a tredici anni una brillante prova della sua straordinaria saggezza e del suo impressionante senso dell’economia.

A Favignana doveva svolgersi una fiera e i genitori, fin troppo impegnati nella coltivazione delle carote, decisero che almeno lui, il più giovane della famigliola, potesse andare a divertirsi.

Il padre dunque, al risveglio alle tre del mattino, lo invitò a indossare le belle scarpe della domenica e gli mise in mano una moneta da cinque lire.

«Tieni, figlio mio,» gli disse «vai a divertirti un po’ oggi, fai qualche giro di giostra e vedi se puoi trovare qualche bello scialle rosso o giallo per le tue due sorelle maggiori.»

Cinto nascose la moneta nelle pieghe di un vecchio portamonete di famiglia, avvolse in un fazzoletto una carota, una cipolla e un pezzo di focaccia di grano saraceno (a quell’età si è sempre affamati) e se ne partì.

Siccome il tempo era bello e la strada ben asciutta, dopo alcuni passi, si tolse le scarpe e le appese alle spalle come una bisaccia.

Al calar della sera ritornò a casa spossato e sorridente. Accorsero i genitori e le sorelle.

«Allora, era bello?»

«Oh, sì!»

«Sei andato sull’altalena?»

«No»

«Hai giocato con i birilli?»

«No»

«Che cosa hai fatto allora?»

«Niente.»

«E i nostri scialli?»

«Li ho visti ma non li ho comprati. La mia moneta da cinque lire non sarebbe più stata una moneta da cinque lire. Eccola.»

………………………..

Sin dalla più giovane età, Cinto aveva deciso che, a cinquant’anni, avrebbe dovuto vivere di rendita e, in fede mia, con l’aiuto di Dio, raggiunse il suo obiettivo.

Per arricchirsi ci sono molti mezzi di cui alcuni onesti; fra quelli onesti, uno dei principali consiste nello spendere il meno possibile. E Cinto scelse proprio quest’ultimo.

Si dice che ci vogliono energie indomite, privazioni, spirito di sacrificio, resistenza alla tentazione; Cinto non conobbe mai sentimenti così raffinati. Non si privò mai di nulla, ma seppe molto semplicemente desiderare soltanto lo stretto necessario per vivere e star bene. Il suo palato ad esempio, abituato al soave sapore delle cipolle crude, non sarebbe mai stato tentato dall’insipido gusto di un piatto di tartufi.

Giovanissimo, com’è naturale che sia, aveva sposato una cugina ed erano venuti entrambi a Tunisi portandosi dietro una salute robusta e un coraggio ostinato.

Avevano inizialmente accumulato un piccolo capitale che aveva consentito loro di creare un banco del regio lotto, poi, con acquisti successivi di terreni e case, erano giunti alla situazione attuale.

A quarantacinque anni Mastro Cinto, che possedeva tre case di due piani, viveva in una modesta casupola della Piccola Sicilia e, d’estate come d’inverno, copriva il corpo possente con l’unico completo di tela grigia che possedeva.

Donna Santa Giambrutto, sua moglie, il cui corpo magro e resistente come un bambù reggeva ogni sforzo, passava le giornate a lustrare le due stanze con il pavimento di terra battuta, e a rammendare biancheria e calzini.

Un giorno tuttavia la coppia Giambrutto si era offerta un extra: aveva fatto un figlio.

Rosario era stato educato secondo i saggi principi che avevano regolato l’esistenza dei genitori. Dopo la formalità senza importanza di alcuni anni di scuola, aveva scelto il mestiere di ciabattino e, a diciotto anni, aveva già la sua botteguccia e si guadagnava da vivere.

Ora a quell’epoca, un fenomeno si produsse nell’animo dei due vecchi; a poco a poco, impercettibilmente, si resero conto che i loro beni andavano aumentando giorno dopo giorno e che non sarebbero mai giunti a spenderne il reddito. Di cambiare il loro modo di vivere non pensarono nemmeno, ma sentirono come una specie di rimorso per aver sottoposto il loro figlio, durante tutta la sua gioventù, al loro terribile senso dell’economia. Fu così che un bel giorno a tavola Rosario si sentì fare una dichiarazione inattesa.

«Figlio mio,» gli disse Mastro Cinto «i nostri mezzi ci permettono di ritirarti dalla tua bottega. Cerca di venderla quanto prima, e poi ci aiuterai a riscuotere gli affitti e potrai con comodo goderti un po’ la vita.»

Rosario aveva una testa rossa bella grossa con due orbite profonde in fondo alle quali dormivano sempre due occhietti azzurri.

«Padre,» disse «mi avete insegnato a guadagnare denaro e non a sprecarne. In mezza giornata ogni mese potrò riscuotere i vostri affitti. Vi chiedo il permesso di lasciarmi lavorare nel mio negozietto il resto del tempo. Se Dio vuole, avrò dei bambini e li abitueremo a una vita più agiata.»

………………….

 Passarono alcuni anni. Rosario si sposò e nacque l’erede. La nuova coppia si sistemò in un piccolo appartamento dei genitori, ma i due vecchi non lasciarono il loro alloggio. Presero ben presto l’abitudine di andare a trascorrere lunghe giornate accanto alla culla del piccolo Pino, del felice mortale che avrebbe speso il loro denaro.

E Pino crebbe. Un giorno in cui si trovava dai nonni – aveva circa tre anni –, questi ultimi decisero di avviarlo lì per lì sulla via dell’agiatezza. Ebbero un gesto che nessuno aveva mai avuto nei loro confronti, un gesto di cui il figlio non aveva mai goduto. Rivolgendo a Dio una muta preghiera affinché non facesse di Pino un grande depravato, gli misero in mano una moneta da cinque soldi e, con il batticuore, gli dissero:

«Corri dal droghiere di fronte. Comprati quello che vuoi.»

Il piccolo tornò presto con un grosso pacchetto sotto il braccio e i due vecchi corsero verso di lui:

«Cos’hai comprato?»


«Ecco!» disse il bambino «N’a ciachecca.»


E aprendo il pacchetto, ne estrasse un enorme salvadanaio in argilla.

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
Note
[1] Parigi, Pelletier, 1934.
[2] Rivista letteraria fondata nel 1919 a cura della SEAN (Société des Écrivains d’Afrique du Nord).
[3] Periodico fondato a Tunisi da Elia Finzi nel 1956 e tuttora pubblicato.

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Marinette Pendola, scrittrice, è nata a Tunisi da siciliani nati a loro volta in Tunisia. Partita da Tunisi nel 1962, da allora vive a Bologna. Ha pubblicato: L’alimentazione degli italiani di Tunisia, Tunisi, Finzi, 2006; Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Gualdo Tadino, 2007. Per la narrativa, i romanzi: La riva lontana, 1° ed. Sellerio, 2000; 2° ed. Arkadia 2022; La traversata del deserto, Arkadia, 2014; L’erba di vento, Arkadia, 2016; Lunga è la notte, Arkadia, 2020.

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