di Eugenio Giorgianni
Manchester, sabato 19 luglio 2014. Sono le 5:30 del mattino. Un camioncino sgangherato sbuca su Claremond Road, l’arteria principale di Moss Side, fino a dieci anni fa considerato uno dei quartieri più violenti e pericolosi di tutta l’Inghilterra. La parte posteriore del vano telonato del camion è occupata da un imponente muro di altoparlanti, collegati a una consolle da dj. I bassi sparati dal sound system colpiscono come pugni al petto degli abitanti delle case popolari in mattoni rossi; il veicolo attraversa lentamente il quartiere, facendo vibrare i vetri delle finestre, mentre i dj chiamano a raccolta: “Svegliati, Moss Side”. È l’inizio della festa.
Il camion si ferma in una piazzetta, dove si radunano alcune decine di persone, per lo più molto giovani, quasi tutti neri [1]. Bottiglie di alcol circolano tra i convenuti; qualcuno è in pigiama, un uomo indossa un costume di Batman, qualcun altro sta a torso nudo. Cadono le prime gocce di pioggia, immancabile complemento di ogni stagione britannica: la gente si copre la testa con cuffie da doccia, o con sacchetti di plastica. Un ragazzo apre un pacco di farina e inizia a spargerla su chi gli sta intorno, tra le proteste di qualche ragazza e le risate dei più. Alcuni residenti escono in strada, divertiti, e si uniscono alla compagnia. L’atmosfera è familiare, sembra che tutti si conoscano. Il volume della musica è assordante.
Un uomo di mezza età, pelle bianca, in ciabatte e canottiera, si avvicina al camion mentre l’annunciatore continua a incitare al microfono la gente di Moss Side a lasciare le case e unirsi alla festa. L’annunciatore lo nota, e senza staccare il microfono dalla bocca gli si rivolge: “Ciao, compare”. L’uomo prende coraggio, e in tono molto cortese chiede di abbassare il volume della musica visto che non sono ancora le sei di un sabato mattina, cioè senza ombra di dubbio è ora di dormire. Lo speaker si rabbuia, deve fare uno sforzo per trattenere i nervi e mantenere la risposta nei parametri della politeness inglese: “Questa è la nostra cultura. Tu ce l’hai una cultura? Ce l’hai una cultura?” continua a ripetere, alzando il tono della voce, mentre l’altro tenta invano di controbattere; “Ce l’hai una cultura? Non dovrei neanche perdere tempo a risponderti. Per favore, lasciaci in pace”. La musica torna a rimbombare dalle casse, mentre l’insonnolito contestatore indigeno ritorna mestamente a casa. Archiviato l’incidente, il camion accende il motore, e la gente si sposta dietro il muro di casse, occupando l’asfalto della strada. Nel grigiore delle sei del mattino, per la prima volta nella città di Manchester, parte il Jouvert Morning, l’evento che segna l’inizio del Carnevale dei Caraibi.
L’assordante carovana segna l’irrompere del tempo straordinario della festa, il vigore dei corpi che ballano racconta la celebrazione del rinnovo delle energie naturali e la rifondazione del corpo sociale. Lo spazio è quello della città dentro la città: South Manchester. La parata carnascialesca attraversa i quartieri di Moss Side, Hulme, Wally Range, Rusholme, ossia l’area che sin dalla fine dell’Ottocento è destinata a raccogliere la forza lavoro migrante – irlandesi prima, abitanti delle ex colonie del Commonwealth poi. È qui che si installarono negli anni Cinquanta i primi lavoratori provenienti dalle Indie Occidentali, mentre nel resto della città, i proprietari affiggevano sulla porta di ogni casa in affitto un cartello con su scritto “Niente cani, niente neri, niente irlandesi”[2]. In questi quartieri è nata la prima generazione di Black Britons, neri nati su suolo britannico, e poi la seconda, la terza, la quarta. Quando alla fine degli anni Ottanta il riassetto del settore secondario ha prodotto disoccupazione e tagli al welfare state, questa è diventata l’area delle gang criminali e dello spaccio di droga, della marginalizzazione e dello stigma sociale: il quartier generale di Gunchester, nomignolo dovuto all’alto tasso di violenza e degrado nella città che è diventata simbolo della crisi industriale britannica. All’inizio del ventunesimo secolo, South Manchester rappresenta ancora il luogo privilegiato degli esperimenti sociali, il tavolo su cui si gioca il rilancio dell’immagine e delle speculazioni edilizie urbane.
Il Caribbean Carnival rivela Manchester – e ogni altro grande centro urbano d’Inghilterra – come spazio conteso, mette in scena il dramma di attori che vengono da mondi lontani migliaia di chilometri, narrando contemporaneamente e sullo stesso palcoscenico tutti gli atti di oltre cinquecento anni di storia in comune, dalla tratta atlantica degli schiavi africani fino al progetto dell’Europa multiculturale, in quello che rappresenta il principale evento dell’anno per le centinaia di migliaia di cittadini britannici di provenienza caraibica.
Il Carnevale rappresenta il mondo alla rovescia. In quanto rito di passaggio da un ciclo annuale a quello successivo, rifonda l’ordine cosmico e il patto sociale; ma allo stesso tempo, demistificando i conflitti e le tensioni, il Carnevale esprime una radicale contestazione dell’ordine costituito, e ne minaccia la sovversione. I riti carnascialeschi sono propri di società complesse, segnate da forti squilibri sociali, come la Grecia dei Misteri Dionisiaci, la Roma dei Saturnalia, l’Europa medievale; la società schiavista delle piantagioni coloniali caraibiche rientra a pieno nella categoria. Per Bachtin (1965), sebbene la connessione tra il sottomondo del Carnevale e la struttura del potere ufficiale sia indissolubile, lo spirito carnevalesco è radicalmente opposto alla gerarchia. Questo aspetto rivoluzionario, secondo l’autore russo, sarebbe stato sopito dalla società europea post-rinascimentale, in cui la cultura popolare avrebbe perso l’impulso creativo del “basso” e della risata. Chissà cosa avrebbe detto di fronte allo spettacolo delle sfilate degli schiavi africani dei Caraibi – o dei loro discendenti – vestiti come i loro padroni, celebrare con danze sfrenate e fiumi di alcol il bacchanal – è così che chiamano il festeggiamento del Carnevale.
Proprio come il Jazz, la Capoeira e il Rastafarianesimo, il Carnevale dei Carabi nasce dal contatto tra Europa e Africa nell’ambito della tratta degli schiavi. La festa venne portata nei Caraibi dai latifondisti cattolici, francesi e spagnoli. Gli schiavi venivano lasciati partecipare ai festeggiamenti, ai quali essi aggiunsero tratti rituali mutuati dalle proprie culture dell’Africa Centrale. I neri deportati riproposero i costumi dei loro padroni, deridendoli allo stesso tempo, caricando l’unico giorno di libertà loro concesso di una potente frenesia sensuale che rievoca gli omonimi culti misterici in onore del dio Bacco.
Le istituzioni schiaviste hanno oscillato tra l’approvazione delle masquerades come valvola di sfogo sociale e la repressione di un fenomeno sovversivo e irriverente, secondo una dinamica a tappe ricorrenti: tolleranza – crescita del fenomeno e conseguente repressione – ristabilimento del controllo – riformulazione istituzionale del rito – tolleranza. La stessa ambivalenza del potere nei confronti del bacchanal si è mantenuta dopo l’abolizione della schiavitù, quando il Carnevale ha intensificato la sua valenza identitaria di istituzione culturale propria degli africani caraibici, e il sostrato africano del rito è emerso in modo più dirompente. Ad esempio, quando le autorità coloniali di Trinidad vietarono le percussioni africane e le danze armate con bastoni, gli ex schiavi reagirono attaccando la polizia, cosparsi di bitume o petrolio per non farsi identificare, in quelli che vengono ricordati come i Disordini del Canboulay, dal nome delle danze belliche. Pochi anni dopo, il divieto venne aggirato, e al posto dei tamburi a fessura vennero introdotte orchestre di pentole e barili di petrolio, accompagnate da bottiglie percosse con cucchiai: nacquero le steelbands, ancora oggi elemento fondamentale della musica popolare dei Caraibi Orientali.
Gli africani dell’America Centrale presero consapevolezza della propria personalità storica e politica attraverso il Carnevale, e la celebrarono attraverso tale rito. A Trinidad, i Disordini del Canboulay vennero commemorati ad apertura di ogni Carnevale da allora in poi: la notte precedente il primo giorno di parata, i convenuti si vestivano di stracci come gli antichi schiavi, si tingevano il corpo di nero e ballavano fino a mattina inoltrata. Nasce così il Jouvert Morning, dal francese j’ouvert, posto simbolicamente ad apertura del tempo del bacchanal. Il Jouvert evoca le forze ctonie e demoniache, le anime dei defunti, incarnate dai partecipanti al rito, e sancisce il rinnovo del patto tra i mondi, e il trionfo della luce sul caos; costituisce anche una variante poco costosa delle feste ufficiali e degli sfarzosi costumi delle parate carnevalesche, e tutt’oggi, nelle isole dei Caraibi come nelle comunità caraibiche della diaspora, è la festa preferita dalle classi meno abbienti e da tutti quelli che non si rispecchiano nel Carnival ufficiale, controverso teatro di interessi politici e alleanze top-bottom.
A Londra, il Notting Hill Carnival si apre con migliaia di giovani corpi cosparsi di cioccolato e dipinti di vari colori, in una spettacolare riproposizione del Jouvert, il cui profumo si spande a miglia di distanza. Niente di simile accade a Manchester, dove la manifestazione si è svolta per la prima volta nel 2014, a causa forse della scarsa presenza culturale dei caraibici orientali in seno alla black community, dominata dalla maggioranza di origine giamaicana. Al primo Jouvert hanno partecipato una sessantina di persone, in aspetto abbastanza ordinario, a parte qualche costume bizzarro e qualche chilo di farina. Ciononostante, la forza simbolica di questo atto mi ha notevolmente colpito, da osservatore partecipante dotato di telecamera, trascinandomi nell’euforia di una manifestazione spontanea di una componente subalterna di una società in cui il colore della pelle, per molti non-bianchi, corrisponde ad una classe sociale.
La carovana del Jouvert costituisce uno spettacolo sensoriale stravolgente nel panorama urbano in cui ha luogo. L’aspetto acustico colpisce su tutti, in quella che Henriques definisce ‘dominanza sonora’:
Ad un volume simile, il suono non può che toccarti e connetterti con il tuo corpo. Non viene soltanto sentito dalle orecchie, si avverte su tutta la superficie della pelle. La linea di basso ti batte sul petto, fa vibrare la carne, percuote le ossa e risuona nei genitali. […] La modalità sensoriale aurale diventa la modalità sensoriale, piuttosto che una tra le tante [3] (Henriques, 2003: 452).
È la cultura dei sound systems, che ha conquistato generazioni di giovani europei. Nella festa caraibica, la mole di onde sonore che attraversa i corpi dei partecipanti è tale che ogni emozione, ogni informazione, ogni molecola di senso è musica, passa attraverso la musica. Dietro al muro di casse, i partecipanti al Jouvert vivono collettivamente la gioia della festa, raggiungono picchi indicibili di euforia nell’arco di pochissimi secondi, se il dj indovina il brano giusto da suonare. La strada si trasforma in dance floor, alla luce del giorno un gruppetto di giovani conquista la dimensione pubblica con brani musicali che per il resto vengono suonati solo dagli impianti stereo di qualche automobile che sgomma sulle strade dei quartieri di periferia, o alle partite di cricket, o in un paio di feste l’anno in rissosi locali notturni.
Il genere musicale per eccellenza del Jouvert, e del Caribbean Carnival contemporaneo, è la Soca, evoluzione in chiave dance del Calypso, tradizione musicale del Carnival. I testi compongono in un linguaggio molto semplice simboli identitari caraibici, istruzioni per passi di danza e riferimenti sessuali espliciti. Il codice espressivo più forte della Soca, ai miei occhi di osservatore europeo, sta nella sua celebre danza: il wining, la variante caraibica del twerking statunitense. Contrazione creola di winding, questo codice coreutico, comune a molti generi musicali originatisi nei Caraibi, comporta frenetiche torsioni del bacino e dei fianchi, sinuosi ancheggiamenti e movimenti ritmati delle natiche. Sebbene sia una espressione corporea centrale in una celebrazione fortemente erotica come il Carnival, il wining non corrisponde necessariamente a un linguaggio sessuale: rappresenta semplicemente una maniera di ballare, e come tale viene emulata dai bambini ed eseguita anche in contesti familiari e amichevoli. La sua dirompenza semiotica si esprime relazionalmente: il wining è un registro proprio delle classi popolari caraibiche, oggetto di scandalo e polemiche per la classe media e l’opinione pubblica ufficiale sia a Trinidad e Tobago e in Giamaica che nel Regno Unito. Sebbene sia uno stile comune ad entrambi i sessi, sono le donne a ostentarlo con più forza, in modo provocatorio. Nella carovana del Jouvert, le ragazze nere esasperavano i movimenti delle anche di fronte alla camera e in prossimità dei maschi bianchi, divertendosi a osservare le reazioni impacciate, la gelosia delle compagne o i tentativi di approccio.
Quella che potrebbe sembrare una auto-reificazione del corpo della donna, è in realtà un aspetto che emerge dal recente processo di emancipazione femminile nella società caraibica, in patria e in contesti diasporici. Il narcisismo della danza manifesta la consapevolezza del proprio potere sociale da parte delle giovani donne, e la conquista della spettacolarizzazione del proprio corpo, prima appannaggio rituale dei soli uomini, le induce in un autocompiacimento totalmente slegato dal corteggiamento sessuale (cfr. Leu, 2000). Tale atteggiamento di scherno e di provocazione sensuale viene adottato da maschi e femmine insieme, quando il corteo del Jouvert passa accanto ad automobili con bianchi a bordo, che esprimono impazienza per la paralisi del traffico, o che osservano insistentemente la scena dei baccanti transculturali che sfilano per le strade: dal carro, il dj si rivolge agli attoniti spettatori passivi, gridando: “C’è qualcuno che ci guarda. Cosa avete da guardare, eh?” e come rispondendo a un comando, un gruppetto di ragazzi e ragazze circonda l’auto e si mette ad agitare il bacino ad altezza dei finestrini, mentre una giovane coppia esegue un intenso wining a due, appoggiandosi sul cofano. Il riso, il corpo, il gioco dei sensi sono forti strumenti di contestazione dell’ordine sociale da parte di questi giovani a cavallo tra due mondi, che avvertono lo sguardo della società ufficiale su di loro come tutt’altro che accogliente. Evidentemente, i discendenti degli schiavi e dei padroni hanno ancora qualche conto in sospeso.
Il primo Caribbean Carnival in Inghilterra si è svolto a Londra nel 1959 in risposta agli scontri razziali tra nazionalisti britannici di estrema destra e migranti, e nel giro di pochissimi anni, la parata per la strade di Notting Hill è diventata un fenomeno di massa ed è stata riprodotta dalle comunità caraibiche in ogni città della Gran Bretagna. Le controculture degli adolescenti della working class inglese, come i Mods e i Punks, restarono affascinati dai colori, dal vestiario, dalle danze, dalla musica sparata da montagne di casse con cui i loro coetanei neri si divertivano, e li fecero propri. La polizia inglese si comportò nei confronti del Carnevale come aveva sempre fatto, in patria e nelle colonie, durante tre secoli di nazionalismo puritano (Raghunath, 2001): reprimendo il fenomeno. Le edizioni del Caribbean Carnival furono occasione dei più gravi disordini che il Paese avesse conosciuto dopo la Seconda Guerra Mondiale (Gutzmore, 1982). Con il tempo, le istituzioni locali sono intervenute sui percorsi delle parate di Carnevale, dirottandole su circuiti più controllabili, separandole dai quartieri caraibici. L’organizzazione del Caribbean Carnival è passata da fenomeno collettivo e volontario delle comunità nere, che si autotassavano per realizzare la festa, a voce in capitolo nei bilanci delle amministrazioni comunali, che individuano i collaboratori e stabiliscono il programma delle attività senza consultare i depositari della tradizione. Il Carnevale spacca la comunità tra chi sostiene l’apertura commerciale in ragione di una maggiore visibilità della cultura caraibica, e chi contesta la perdita dell’autonomia decisionale e l’impoverimento di un evento culturale così importante.
A Manchester, la parata principale non passa più dalle strade di Moss Side. La sede del Carnevale è Plattfield Park, che ospita tante altre manifestazioni ‘etniche’ come lo Holi e il Mela indiani. La maggior parte dei caraibici che ho conosciuto afferma di non avere più nessun legame con il Carnevale, trasformatosi in un normale Festival per famiglie a passeggio e per ragazzini che amano la musica ad altro volume, mentre i commercianti locali si lamentano di non potersi permettere l’affitto di uno stand per colpa delle speculazioni degli organizzatori. Il Jouvert è un contentino che il Municipio ha concesso alla comunità, che così ha avuto la sua piccola parata per le vie del ghetto, fino ad Alexandra Park, il suo parco, sebbene solo per un paio d’ore a cavallo dell’alba, con uno sparuto gruppo di irriducibili festaioli.
Ma proprio quando sembrava essersi estinto, è sempre il Carnevale a veicolare l’azione politica degli africani dei Caraibi, e a rappresentare un baluardo di resistenza. Insoddisfatta dalla gestione del Carnival, la comunità di Manchester ha organizzato degli incontri pubblici, dal basso, per discutere una gestione differente del proprio patrimonio culturale. A margine di queste riunioni, è nato il gruppo dei Reparation meetings, sulla scia della rivendicazione, da parte dei Paesi della Comunità Caraibica, della Reparation for slavery, ossia di una forma di compensazione per i discendenti degli schiavi africani da parte degli Stati europei coinvolti nella tratta. Gli incontri sono, per i partecipanti, occasione per affrontare collettivamente i propri guai, il senso di non appartenenza, le discriminazioni subìte, l’assenza di prospettive, il comune passato di umiliazione, insomma la bugia della fine della loro schiavitù. Nel 2004, il governo britannico rifiutò la prima richiesta ufficiale di reparation, portata avanti dai rasta giamaicani, dichiarando di non potersi considerare coinvolto in errori compiuti secoli addietro. Avendo assistito, unico bianco, ai Reparation meetings, posso testimoniare come i discendenti degli africani deportati nella tratta transatlantica non possano concedersi questo lusso. Le loro vite continuano a essere segnate da ‘errori’ compiuti cinque secoli or sono e perpetuati incessantemente nel corso della storia, pagati cari dagli Stati da cui provengono, nati da una decolonizzazione superficiale.
Il contatto che ho avuto durante la mia ricerca con questo nodo pulsante e irrisolto della comunità dei neri di Inghilterra è stato emotivamente intenso, pieno di ambiguità e di incomprensioni, discontinuo e soggetto a brusche interruzioni. La difficoltà del lavoro sul campo corrisponde alla durezza di un confronto che valica le distanze di sicurezza, attraversa i limiti di autocredibilità che le componenti della società europea si sono dati e non intendono valicare. Il mosaico dei personaggi del Carnevale, le loro maschere e i travestimenti, sono lontani dal trovare una chiave di lettura nella mia ricerca, come si evince dal film documentario, intitolato Bacchanal, che ho realizzato insieme ad alcuni protagonisti del Caribbean Carnival svoltosi a Manchester nel 2014. Il film è visibile con sottotitoli in italiano sul sito https://www.youtube.com/watch?v=Ol2hLyOa_Y8.
Nel carosello delle forze in campo, si aprono spazi inaspettati. A causa della scarsa affluenza di pubblico nell’edizione 2014, l’amministrazione comunale ha deciso di rimpiazzare gli organizzatori dell’anno scorso e di promuovere la commissione spontanea di discussione del Carnevale a gruppo di lavoro ufficiale. Il risultato è che il prossimo Caribbean Carnival of Manchester si svolgerà l’8 e 9 agosto 2015 ad Alexandra Park e per le strade di Moss Side e Hulme. Quello che sembra un trionfo della comunità, potrebbe essere anche un’astuta mossa istituzionale per rivitalizzare uno strumento di consenso che ormai tirava poco, strizzando l’occhio al processo di gentrification e alle speculazioni che attualmente riguardano il mercato edilizio a South Manchester. Il ciclo ricomincia, le divise non si distinguono più dai travestimenti. Intanto, le ragazze dei quartieri popolari confezionano costumi più sgargianti di quelli dell’anno scorso, i ragazzi si esercitano su coreografie sempre più complesse, i dj scaricano le ultime tracce prodotte a Kingston o a Port of Spain. Tutti pronti a ballare, anche sotto la pioggia.
Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015
Note
[1] Nella mia esperienza sul campo, ho rilevato come molti soggetti preferissero autodefinirsi “Blacks” piuttosto che fare riferimento alle proprie origini geografiche. Il colore della pelle è prediletto come elemento identitario anche da molti attivisti black, in quanto permette di accomunare le comunità diasporiche africano-caraibiche con i migranti provenienti dall’Africa subsahariana, che in contesto britannico spesso occupano spazi urbani e istanze sociali contigui. Il lettore mi perdonerà quindi tale scelta terminologica, che può risultare spiacevole, ma che ritengo essere più aderente al contesto della ricerca.
[2] Le informazioni orali sulla prima ondata migratoria dai Caraibi, e sul contesto di Moss Side negli anni Cinquanta e Sessanta, provengono da varie conversazioni con un gruppo di anziani giamaicani, frequentatori del West Indian Sports & Social Club di Moss Side, che furono tra i primi caraibici ad arrivare nel Regno Unito, attratti dalla massiccia campagna britannica volta a reclutare mano d’opera per ricostruire il Paese dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. “Il vostro Paese ha bisogno di voi”: queste parole, che ricordano di aver sentito dalla Regina Elisabetta II nella piazza centrale di Kingston, durante la sua prima visita ufficiale nelle colonie delle indie Occidentali, furono per loro un notevole sprone all’emigrazione.
[3] In questo caso, e ove non altrimenti specificato, le traduzioni dall’inglese sono mie.
Riferimenti bibliografici
Bachtin, Michail (1965), L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, trad. it. Mili Romano (1979), Torino, Einaudi.
Buttitta, Antonino (1996), L’utopia del Carnevale, in Dei segni e dei miti, Sellerio, Palermo:266-276.
Gutzmore, Cecil, Agosto 1982, “The Notting Hill Carnival”, Marxism Today (Londra): 31-33.
Henrique, Julian (2003), Sonic Dominance and the Reggae Sound System Session, in Bull, Back (ed.) The Auditory Culture Reader, Oxford and New York, Berg: 451-480.
Leu, Lorraine (2000), “Raise Yuh Hand, Jump up and Get on Bad!”: New Developments in Soca Music in Trinidad, Latin American Music Review / Revista de MúsicaLatinoamericana, Vol. 21 No. 1, Austin, University of Texas Press:. 45-58
Raghunath, Anita Shanti (2001), Discourses of Carnival and transgression in British and Caribbean writing, 1707-1848, tesidottorale, University of London (RegnoUnito).
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Eugenio Giorgianni, laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha recentemente completato il Master of Arts in Visual Anthropology presso The University of Manchester. Tra il 2011 e il 2012 ha condotto, con il supporto della Universidad de Granada, una ricerca etnografica presso la comunità dei migranti in transito a Melilla (Spagna africana). Tra i suoi interessi di studio temi e questioni relativi all’antropologia dello spazio. In questa direzione ha condotto una ricerca sul quartiere palermitano di Ballarò.
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