Troppo spesso la cronaca della rivoluzione tunisina del 2011 ha descritto questi moti come inaspettati, enfatizzando il loro carattere di imprevedibilità e andando a individuarne la causa scatenante nel disperato gesto di un giovane che, immolandosi, assurse a simbolo di un’intera generazione, quella dei dittatoriati [1]. Tuttavia, ad una lettura più attenta degli eventi precedenti al momento di recrudescenza della crisi emergono elementi che permettono di ricercare le cause in un passato più lontano, complesso e stratificato che sembra contraddire l’analisi che vorrebbe rappresentare questi moti come estemporanei ed imprevedibili. Per questo ritengo opportuno fornire un sintetico quadro storico che delinei, almeno in parte, le radici storiche, politiche ed economiche che, negli anni, hanno promosso la maturazione del malcontento sociale e, conseguentemente, l’affiorare di nuove forme di dissenso politico e sociale culminanti con la caduta del regime di Ben Ali, descritto anche come “quasi-mafia”.
Per esemplificare come il popolo tunisino reagì all’improvviso cambiamento politico che portò alla destituzione del “Padre della Patria” dopo ben trenta anni di governo, Kennet Perkins utilizza una brillante metafora calcistica per cui il popolo, alla scomparsa di Bourguiba dalla scena politica, reagì con la stessa sensazione di sollievo con cui i tifosi di una squadra accolgono la notizia del ritiro a vita privata di grandi giocatori che ormai non hanno più le carte in regola per giocare in un ruolo di spicco all’interno del gruppo e son diventati, anzi, un peso per l’intera squadra [2]. Questa metafora esemplifica al meglio le sensazioni di speranza e incredulità provate dal popolo tunisino nell’affrontare una trasformazione di tale portata. Probabilmente, spiega anche il perché questo cambiamento si sia verificato in maniera relativamente pacifica. Tuttavia, un altro motivo, non certo secondario, può essere individuato nella capacità con cui il nuovo protagonista della scena politica tunisina, forte delle abilità strategiche acquisite grazie alla formazione militare, gestì l’intero processo di transizione verso la creazione di un nuovo governo.
Innanzitutto, la scalata al potere di Ben Ali si era realizzata in modo perfettamente costituzionale. Inoltre, consapevole degli errori commessi dal suo predecessore e delle speranze della società tunisina, stanca di anni di immobilismo e centralismo politico, egli si mosse con cautela tentando di “equilibrare” l’esigenza di conferire un’immagine pluralista al Paese – cosa che gli avrebbe consentito di arginare qualsiasi critica da parte dell’opposizione – e la necessità di mantenere l’unica fazione che poteva competere con il partito al governo, il partito islamico (MIT), in una posizione così marginale da non costituire alcun pericolo alla centralità del Presidente e del suo partito. In quanto primo ministro, immediatamente dopo “il colpo di Stato medico”, Ben Ali assunse la carica di Presidente della Repubblica e grazie alla sua astuzia nell’inserirsi dolcemente all’interno della scena politica, nella prima fase del suo governo, assurse a “uomo del cambiamento” [3].
In linea con ciò che sembrava propedeutico ad una svolta in senso democratico del Paese, Ben Ali procedette con l’immediata liberazione di migliaia di prigionieri politici incarcerati sotto il governo Bourguiba garantendo, a parole, la creazione di un nuovo contesto politico in cui tutti i partiti di opposizione, laici e d’ispirazione religiosa, avrebbero trovato un proprio spazio di rappresentanza [4]. Una questione fondamentale di questa politica di apertura fu la strategia da adottare nei confronti del MIT. Ben conscio, infatti, che un’ulteriore repressione e l’assenza di concessioni avrebbero radicalizzato il movimento, nel 1988, dichiarò l’Islam religione di Stato, consentendo alle radio e alle televisioni di diffondere l’invito alla preghiera e legalizzando l’Union Générale Tunisienne des Etudiants, organizzazione studentesca del MIT [5]. Sul piano strettamente politico, poi, coinvolse i rappresentanti delle varie organizzazioni della società civile e dei diversi gruppi politici, nella discussione circa l’elaborazione di un piano d’azione e di una dottrina politica condivisi, in vista delle elezioni politiche che si sarebbero tenute l’anno successivo. Il dialogo avrebbe portato a quello che Torelli ha definito “compromesso storico” [6] e che sarebbe passato alla storia come il “Patto nazionale”(7 novembre 1988). Per un verso, si riconosceva la centralità del bagaglio culturale arabo e islamico nella società tunisina e, per l’altro, si asseriva l’importanza delle politiche riformiste del XIX e XX secolo e dello statuto personale introdotto da Bourguiba, che rimase in vigore. Inoltre, essendo stato firmato da tutte le rappresentanze politiche e civili, esso imponeva al movimento islamico di “normalizzarsi” e attenersi alle norme in vista di una sua imminente entrata sulla scena politica, e al governo di garantire il pluralismo politico e il rispetto dei diritti umani ai rappresentanti dell’opposizione.
Tuttavia, le elezioni tenutesi nel 1989 confermarono quanto in realtà il governo Ben Ali fosse intenzionato ad avviare un vero e proprio processo di demo- cratizzazione. Il sistema elettorale, infatti, garantì all’RCD tutti i 141 seggi in parlamento rendendolo, di fatto, monocolore. Il 20% dei voti rimanenti, però, segnalavano comunque un fattore di cambiamento. Ennahda (già MIT), infatti, che, non essendo ancora stato riconosciuto, aveva presentato comunque una propria lista indipendente ottenendo il 15% dei voti [7], rappresentava l’unico partito in grado di rappresentare un’opposizione reale al governo e, dunque, una minaccia. Queste elezioni disillusero definitivamente quanti, sino ad allora, avevano sperato nella realizzazione di una vita politica libera e democratica.
Nel 1990, infatti, la guerra civile algerina e la guerra del Golfo diedero l’occasione a Ben Ali di rispolverare la retorica del pericolo di un’avanzata dell’integralismo islamico; fatto che avrebbe messo a rischio anche i rapporti commerciali instaurati con l’Unione Europea [8]. Ciò gli consentì di adottare una violenta politica di repressione ai danni di Ennahda tramite arresti, processi sommari e torture [9]. Lo spauracchio dell’Islam estremo sarebbe rimasto una costante nella retorica del regime, che l’avrebbe sfruttato a più riprese per giustificare l’asfissiante sistema di controllo e repressione sulla società civile che si apprestava a costruire [10]. Con l’unica minaccia al suo potere messa a tacere, Ben Ali poté proseguire nella costruzione dell’immagine di un Paese pluralista e avviato verso la democrazia con la nuova legge elettorale licenziata poco prima delle elezioni del 1994. Con essa era previsto l’aumento dei seggi in parlamento e, mentre per 144 seggi sarebbe valso il sistema maggioritario, per quelli rimanenti vigeva quello proporzionale.
In questo modo Ben Ali, lungi dal voler dar vita ad un sistema realmente pluralistico, garantiva all’RCD la maggioranza dei seggi in parlamento e concedeva uno spazio, rappresentato dai 19 seggi rimanenti, che l’opposizione si sarebbe spartita [11]. Il risultato fu che i partiti legittimati a partecipare alle elezioni, in uno scenario di “guerra tra poveri”, si batterono l’un l’altro per accaparrarsi una parte cospicua di quei 19 seggi. Nello stesso 1994 si tennero le elezioni presidenziali, e ancora una volta Ben Ali, unico candidato [12], ricevette l’appoggio di quasi tutti i partiti di opposizione. Da questa data gli organi che avrebbero dovuto rappresentare gli “avversari” e i contrappesi del partito al potere iniziarono a vivere una sorta di “esistenza artificiale” [13] la cui unica funzione fu quella di legittimare la retorica ufficiale della Tunisia democratica. Le elezioni del 1999, confermando lo status quo, gli permisero di radicarsi ancora di più, come dimostra il referendum del 2002 con cui vennero rimossi gli ultimi ostacoli alla presa definitiva del potere: il limite di mandati venne abolito e il limite massimo di età per candidarsi venne innalzato.
Queste manovre, chiaramente ad personam, spalancavano le porte a Ben Ali per consentirgli di concorrere sia alle elezioni del 2004, alle quali ottenne il 94,5% dei consensi, che a quelle del 2009, con le quali ottenne il suo quinto mandato. Al controllo dell’intera scena politica del Paese seguì inoltre un sempre più pervasivo sistema di repressione, monitoraggio, formazione e informazione attuato attraverso gli strumenti della costruzione di significato e della coercizione garantita dal gigantesco apparato poliziesco. Mentre le carceri tunisine si riempivano di prigionieri politici, attivisti, giornalisti e blogger, Zaba, il nomignolo, connotato negativamente, con cui veniva chiamato Ben Ali dai tunisini e utilizzato molto in rete, mise in piedi un capillare sistema di controllo non solo sull’intero mondo dell’informazione tradizionale come televisione, radio e giornali ma anche e soprattutto sulla società civile tramite intercettazioni telefoniche, che non facevano distinzione di classe sociale, e il minuzioso controllo della rete internet.
Questi versi, scritti dalla blogger e attivista tunisina Lina Ben Mhenni, descrivono al meglio la situazione nella quale per quasi un quarto di secolo i tunisini sono stati costretti a vivere sotto gli occhi indifferenti dell’Occidente.
«Volevamo scrivere ma non siamo stati in grado
Volevamo sognare ma i nostri sogni sono stati assassinati prima di venire al mondo
Volevamo esprimerci ma non sapevamo come farlo
Ed eccoci
Cerchiamo di parlare e le nostre lingue vengono tagliate prima di dire una parola
Cerchiamo di scrivere e le nostre voci vengono annientate e i nostri fogli vengono fatti a brandelli prima che nascano le idee
Cerchiamo di esprimerci, di protestare, di denunciare, di criticare e veniamo ricattati, incatenati e assassinati
C’è qualcosa di più prepotente e di più crudele dell’assassinio delle idee?»
Secondo molti [14], il principale protagonista della cosiddetta “primavera tunisina” è stato uno spontaneo movimento giovanile. Per comprendere il come e il perché esso sia l’attore sociale principale bisogna fare riferimento innanzitutto a due fattori fondamentali che apportarono importantissimi cambiamenti in seno alla società: l’istruzione di massa e le politiche di modernizzazione. Se l’età media di metà della popolazione tunisina è di circa venticinque anni, significa che, perlomeno a livello numerico, i protagonisti della rivolta del 2011 sono i giovani nati negli anni ’80 ed i primi anni ’90. Non si può dunque prescindere dall’analizzare quali siano stati i principali cambiamenti avvenuti in questi anni, sia all’interno del campo dell’istruzione, sia in quello dei mass media. Per quanto riguarda l’istruzione è necessario considerare le politiche attuate in questo campo nel periodo successivo all’indipendenza che, a loro volta, si inseriscono in un contesto di riforme più articolato che mira alla costruzione del “sogno tunisino”, ovvero «to aspire to be part of a comfortable middle class» [15].
L’obiettivo di un sistema educativo esteso all’intera popolazione era stato infatti formulato e incoraggiato dal governo Bourguiba ma venne raggiunto solo nel 1991 sotto Ben Ali [16]. L’istruzione estesa all’intera società tunisina e il conseguente aumento del tasso di iscrizioni e di laureati sarebbero stati, negli anni, materia di propaganda di un governo che, nel suo discorso ufficiale, si vantava dei grandi risultati raggiunti, da sfoggiare anche nel panorama internazionale. La percentuale dei diplomati passò dal 30% negli anni ’90 a più del 50% nel primo decennio del ventunesimo secolo. Il numero degli studenti del college raddoppiò, e nel 2010 un terzo dei tunisini con un età che andava dai 19 ai 24 anni era iscritto negli istituti di istruzione superiore [17]. Al contempo però questo elevato tasso di cittadini titolati non era supportato dall’esistenza di un’economia e di un mercato del lavoro in grado di assorbirne l’offerta. Il più ampio accesso ad alti livelli di istruzione finì dunque per ritorcersi contro lo stesso regime: un popolo altamente titolato, ha delle forti aspettative sociali, è più incline ad esprimere i propri pensieri e credenze pubblicamente, possiede una coscienza politica più approfondita, ed è maggiormente propenso a prender parte alla vita e all’azione politica. Essi rappresentano ciò che Asef Bayat chiama “middle class poor”, ossia una nuova classe sociale
«with high education, self-constructed status, wider world views and global dreams, who nonetheless are compelled to subsist on the margins of neo-liberal economy as casual, low paid, low status and low-skilled workers (like street vendor, sales persons, box boy or taxi driver)» [18].
Gli alti livelli di istruzione e l’avvento dei mass media, aprendo nuove finestre sul mondo, non potevano non trasformare e alimentare le aspettative sociali. A più alti titoli di studio corrispose non solo la necessità di un lavoro ed una retribuzione adeguati, ma anche il bisogno e il desiderio di essere informati, di essere rappresentati all’interno dell’ambiente politico istituzionale, e infine l’urgenza di veder riconosciuti i propri diritti di base quali libertà di parola, pensiero e associazione. Per comprendere come queste aspettative sociali siano state tradite è necessario considerare i processi di modernizzazione avvenuti sotto il regime di Bourguiba che a loro volta hanno portato, almeno in parte, alla costruzione di una moderna classe media che subirà un progressivo processo di involuzione a partire dalla fine degli anni 70 sotto il regime dello stesso Bourguiba, e che si accentuerà negli anni ’90 sotto il governo di Ben Ali.
Seppur in maniera non del tutto lineare fu proprio sotto il governo di Bourguiba che la Tunisia si avviò sulla strada di una serie di riforme sociali ed economiche che portarono il Paese alla modernizzazione. Dopo il fallimentare periodo socialista, Bourguiba cercò, infatti, di costruire e dar vigore alla classe media favorendo un processo di secolarizzazione e modernizzazione e investendo in programmi sociali che affrancassero l’istruzione dagli stretti legami con la religione. Nello stesso periodo si favorì la liberalizzazione della condizione della donna e si cercò di incentivare l’iniziativa privata. Fu la crisi degli anni ’80, quella che portò al potere Ben Ali, a dare inizio al processo di involuzione e contrazione della classe media. Da quel momento si posero le basi per un sistema economico e sociale che, inizialmente, consolidò la legittimità del suo potere, quello stesso potere che, col tempo, non avrebbe lasciato spazio ad alcun tipo di aspettativa sociale.
Le politiche liberali attuate da Ben Ali, se da una parte arricchivano una piccola classe sociale, dall’altra impoverivano il ceto medio. A questo processo contribuirono in particolare due fattori: l’indebolimento dei gruppi sindacali e i programmi europei di aggiustamento e ristrutturazione imposti a metà anni ’90. Ben Ali, infatti, allo scopo di rendere fittizio l’unico attore sociale in grado di rappresentare una vera opposizione, negoziò una pace sociale con la dirigenza dell’UGTT [19]. La Tunisia, inoltre, firmò nel 1995 un accordo di libero scambio con l’Unione Europea che imponeva, oltre all’abolizione delle barriere doganali, l’inserimento del Paese all’interno di un programma di ristrutturazioni riguardanti sia le imprese che l’amministrazione. La politica liberista, assieme all’economia di mercato imposte dai programmi europei, e il conseguente smantellamento dei «dispositivi di protezione dei mercati» [20] diedero vita ad un mercato del lavoro sempre più precario: le nuove norme sul lavoro, infatti, favorivano gli impieghi contrattuali a breve termine a svantaggio degli “impieghi a tempo indeterminato”, dando così vita ad una categoria di lavoratori che, lasciata fuori dalla negoziazione della classe operaia, non poteva accedere ai benefici erogati dai sistemi di sicurezza sociale [21].
A rendere ancora più precaria la situazione contribuirono due altri fattori. In primo luogo lo sviluppo di ciò che Nicosia chiama “economia parallela”, ossia un’economia generata dall’onnipresenza dei clan dei Materi e dei Trabelsi in ogni campo della vita sociale e amministrativa del Paese e interiorizzata nel modus vivendi di vari strati della classe media tunisina. Un’economia basata su clientelismo e corruzione che «si esercita sotto forma di interventi come il far riferimento a conoscenze altolocate, per non pagare tasse, ottenere favori, aprire attività commerciali ecc.» [22]. Questo tipo di sistema è stato interpretato da Marzouki non solo come un o strumento per ottenere servigi ma, paradossalmente, come un modo per difendersi dallo Stato stesso, «una forma di resistenza per aggirare l’amministrazione e l’inefficacia della giustizia» [23]. Il secondo fattore è rappresentato dalle riforme fiscali (che andavano a colpire principalmente la classe dei lavoratori salariati e favorivano invece la classe imprenditoriale), e dalla crescente inflazione che continuava a ridurre il potere d’acquisto della già povera popolazione.
In questo contesto i tassi di disoccupazione, specialmente giovanile, continuavano a salire in quanto lo Stato aveva smesso di costituire il principale motore di impiego, e il settore privato non era in grado di creare e offrire posti di lavoro altamente qualificati che assorbissero il crescente numero di laureati – di fatto riusciva ad assorbirne solo il il 5%. Inoltre, secondo i dati sulla disoccupazione riportati da Zayani, il tasso di disoccupazione riguardante i giovani di età compresa fra i quindici e i ventinove anni nel 2008 era del 31%, ovvero il 72% della popolazione disoccupata. Per questa ragione,
«the unemployment and underemployment among college graduates was a development that struck at the heart of the value system of meritocracy upon witch the country was erected and the model of social mobility that had reigned since indipendence» [24].
Le aspettative sociali di natura economica derivanti da una più ampia istruzione erano dunque in stridente contrasto con le possibilità reali che il sistema economico tunisino poteva offrire. Il regime di Ben Alì ha dunque tradito le aspettative sociali di natura economica dei giovani tunisini in quanto non riuscì a garantire degli sbocchi occupazionali adeguati ad una popolazione costituita per metà da giovani e altamente istruita, e dunque «the current neo-liberal turn has failed to offer most graduates an economic status that can match their heightened claims and global dreams» [25].
Il malcontento ovviamente non si limitava esclusivamente ai giovani laureati, era piuttosto un forte sentimento diffuso che, col tempo, ha infranto l’apparentemente incrollabile muro di paura che Ben Ali aveva eretto negli anni. La voce del movimento giovanile, nonostante fosse quella principale, non fu certo l’unica ad emergere durante gli eventi del 2011. Il “movimento dei lavoratori”, assieme alle organizzazioni sindacali locali, giocò un altrettanto fondamentale ruolo nel far emergere la corrente di dissenso che avrebbe portato al crollo del regime dittatoriale. L’importanza del suo ruolo si impose già nel 2008, anno che lo vide protagonista della più importante agitazione sociale dopo quella del 1984, fatto che di per sé indica come la rabbia stesse già raggiungendo il suo culmine. Inoltre, il fatto che le agitazioni abbiano mosso i primi passi nei conglomerati produttivi del Paese, è un altro indicatore del peso che le masse operaie hanno avuto nelle sollevazioni.
Le aspettative sociali della classe operaia, e in generale dei lavoratori salariati, non differivano da quelle dei giovani senza lavoro: un’occupazione fissa; dignità, parità e giustizia sociale; rispetto dei propri diritti come lavoratori e come cittadini; la fine di una realtà politica e sociale basata su nepotismo e clientelismo (fattori di paralisi del sistema economico e sociale). È fondamentale dunque delineare, almeno in parte, la genesi di questo spirito contestatorio tutt’altro che recente.
Nel 1946 nacque, sotto la guida di Farhat Hached, l’Union Générale Tunisienne du Travail (al-Ittiḥād al-ʿĀmm al-Tūnusī li-l-shaghl), che rimarrà l’unica organizzazione sindacale dei lavoratori sino al febbraio 2011 [26]. Inizialmente la storia e la lotta di questo movimento sindacale si intrecciarono indissolubilmente con la battaglia per l’indipendenza, tanto da divenire negli anni sia un elemento importante del Fronte Nazionale che un costante interlocutore del partito di maggioranza. Sin dall’indipendenza dunque il movimento sindacale aveva una forte componente di sfida al potere costituito, quello coloniale, e un ruolo politico interno importante, essendo di fatto l’interfaccia fra governo e lavoratori tunisini. A questo proposito, è bene sottolineare che, sin dal periodo post-indipendentista, all’interno del movimento sindacale iniziarono a formarsi due correnti: l’una denominata burocrazia sindacale, vicina e sottomessa al potere, e l’altra Resistenza che rimarrà strettamente legata al tessuto sociale tunisino [27].
Il rapporto di vicinanza e collaborazione fra il sempre più autoritario governo e UGTT andò, infatti, progressivamente incrinandosi: l’onnipresenza del partito Desturiano in ogni campo della vita politica, economica e sociale del Paese e la mancanza di un’opposizione politica solida in grado di equilibrare il peso del partito al potere, indussero il sindacato, e in particolare la sua ala militante, a rappresentare l’unica opposizione [28] e il principale spazio di veicolazione del dissenso. Le crescenti tensioni sociali toccarono il loro apice prima con lo sciopero generale del 26 gennaio 1978, che culminò nel cosiddetto “giovedì nero” [29], e poi con la “rivolta del pane” nel gennaio 1984, in conseguenza dell’eliminazione dei sussidi sui beni di consumo primari come appunto il pane. Queste date segnarono l’inizio di un processo di progressivo indebolimento del movimento sindacale sia dal punto di vista politico, sia per quanto concerne la sua stretta aderenza al tessuto sociale tunisino.
L’aperto confronto col potere segnò, infatti, la concentrazione di un sempre maggiore potere politico dell’organizzazione nelle mani di una leadership, la burocrazia sindacale, asservita all’élite egemone, incapace di costituire un effettivo contropotere, e perdendo di fatto il suo originario carattere vocato all’autonomia. Al momento del suo insediamento al potere, Ben Ali trovò dunque un movimento sindacale già indebolito e, grazie alla sua capacità di influire pesantemente sui criteri di selezione della leadership sindacale e, di conseguenza, sulle elezioni, egli non fece altro che radicalizzare questa tendenza accentratrice. Due fatti in particolare contribuirono a rendere fittizio e di facciata il ruolo dell’unione sindacale. Da una parte, nel 1989, le sue redini vennero assunte da una direzione vicina al governo [30], dall’altra, le politiche neo-liberiste del governo indebolirono il potere contrattuale dell’organizzazione, questo perchè «through reform, downsizing, privatization and relocation, structural adjustment undermined the unionized public sector, while new private enterprises linked to international capital remain largerly union-free» [31]. Questa doppia morsa contribuì ad emarginare l’UGTT [32], limitandone di fatto il peso di opposizione politica. Inoltre lo stretto legame con il regime e la corruzione della dirigenza, lesero quel rapporto fiduciario con la propria base sociale che si era instaurato alla nascita della compagine sindacale.
Allo stesso tempo però va sottolineato come se da una parte si assisteva ad una progressiva perdita di fiducia nei confronti della leadership dell’organizzazione, dal- l’altra quest’ultima era costituita da una ben radicata e più militante rete di sezioni e sedi sindacali che «could not reduced to a state apparatus» [33], la corrente denominata in precedenza Resistenza. L’animo contestatario e attivista che rifletteva quello delle classi subalterne, e l’impegno ad essere la voce che esprime i bisogni e le richieste degli ultimi e degli emarginati nella loro collettività, rimanevano dunque il tratto caratteristico, se non della dirigenza, delle organizzazioni sindacali locali che continuarono a mantenere uno stretto legame con la realtà socio-politica del Paese da cui derivava in ultima istanza la sua legittimità.
La realtà contraddittoria e conflittuale del sindacato, e l’animo militante e attivista della classe operaia (in particolare i minatori), si sarebbero manifestati assieme durante le rivolte nella regione mineraria di Gafsa nel 2008. Quelle giornate sono considerate da molti come la «culla della rivoluzione» [34]. Gafsa, capitale della regione mineraria, ha rappresentato il polo produttivo più importante nell’estrazione di fosfato sin dalla fine del XIX secolo [35]. A partire dalla scoperta dei ricchi giacimenti, l’attività di estrazione del fosfato venne monopolizzata dalla Gafsa Phosphate Company, impresa di stato dall’indipendenza, che fu sino alla fine degli anni ’80 il principale motore dell’economia della regione, garantendo la piena occupazione della popolazione locale, nonché la costruzione di infrastrutture e servizi [36].
A partire dagli anni ’80 però, i piani di aggiustamento strutturale della World Bank e del Fondo Monetario Internazionale (FMI) [37] atti a favorire la privatizzazione e l’economia di mercato, diedero inizio ad un processo che avrebbe posto fine allo stretto legame che univa la compagnia alla popolazione locale. Proprio in questi anni, infatti, la crescente meccanizzazione degli impianti di estrazione e soprattutto la decisione di chiudere le miniere più profonde a favore di quelle a cielo aperto, portarono ad una drastica riduzione della forza lavoro. In un contesto come quello della regione mineraria di Gafsa, in cui l’estrazione mineraria rappresentava la principale valvola di impiego, questi cambiamenti inflissero un colpo esiziale all’economia locale. Inoltre, se le riforme avvantaggiarono la classe imprenditoriale e affaristica e una ristretta cerchia di lavoratori vicini al regime, privò del diritto ad un’occupazione il resto della popolazione. Nel 2008 [38], i piani di ristrutturazione avevano portato ad una riduzione del 75% della forza lavoro della compagnia: dai 14 mila impiegati degli anni ’80 si passò ai 5 mila del 2008. Dati resi ancor più preoccupanti dal fatto che il 40% dei disoccupati era rappresentato dai giovani.
Al problema della disoccupazione se ne aggiungevano altri derivanti dal sovrasfruttamento ecologico della regione per circa un secolo – all’inquinamento ambientale conseguiva di fatto un aumento delle malattie croniche, per non dire dello sfruttamento delle risorse idriche. Questi fattori si sommarono per anni fino ad emergere spontaneamente nel 2008 in seguito alla pubblicazione, da parte della compagnia d’estrazione, dei risultati del concorso di assunzione: con questi la compagnia era venuta meno ad un accordo secondo il quale essa avrebbe dovuto impiegare una quota dei lavoratori locali e delle famiglie degli operai che erano morti o rimasti feriti durante l’attività estrattiva. Così, disoccupati, lavoratori ed ex studenti, che avevano fatto richiesta di impiego e si erano visti sottrarre il diritto ad un lavoro, si riversarono nella città di Redeyef dove occuparono, simbolicamente, gli uffici della sede sindacale della città. Ad essi si unirono gli abitanti della città, altri giovani disoccupati e attivisti locali che si riversarono in strada per manifestare il proprio profondo e variamente motivato malcontento contro l’ingiustizia dei risultati del concorso, la corruzione, il sistema clientelare e la disoccupazione. Inizialmente le proteste furono di natura spontanea, senza alcuna collaborazione del sindacato, promosse grazie ad un rinato spirito contestatario pronto a porre fine ad anni di silenzio e passività. Solo in un secondo momento le varie sezioni sindacali locali, specialmente quella della città di Redeyef, iniziarono a sostenere i manifestanti organizzando azioni collettive di protesta. Fu in questo momento, inoltre, che emerse la già citata conflittualità fra la dirigenza del sindacato e le sue varie cellule locali «che la consideravano parte del problema» [39].
Mentre la leadership sindacale continuava ad essere legata al regime [40], la sua rete di cellule locali si mosse per sostenere, anche se non tempestivamente e sufficientemente, lo spirito di malcontento che nasceva alla sua base. I manifestanti e i sindacati locali costrinsero la compagnia e le autorità ad aprire un tavolo di negoziazione, che si sarebbe poi risolto in un nulla di fatto. Nei mesi successivi le proteste sarebbero dilagate in tutta la regione mineraria coinvolgendo, come accadde a Gafsa, non solo gli ex lavoratori della compagnia ma anche anche altri strati di popolazione. La rabbia e la frustrazione della popolazione funsero da collante fra i vari strati sociali dando vita a manifestazioni di piazza e sit-in ma non solo: i manifestanti occuparono e smantellarono la linea ferroviaria che collegava le cave alle fabbriche, paralizzando così il trasporto di fosfato. Al principio, il regime contava sull’incapacità del movimento di mantenere il vigore iniziale. Le forze di polizia schierate, infatti, tentarono solo di tenere la situazione sotto controllo, vigilando gli accessi alle città e isolando la regione in modo che le proteste non si diffondessero. Queste ultime però non sembravano assopirsi e in aprile, passati tre mesi dall’inizio delle agitazioni, l’attacco ad un ufficio di polizia a Redeyef fornì il pretesto al regime per mostrare il proprio volto più autoritario.
Il 6 aprile, la violenta repressione della polizia portò all’incarcerazione di alcune figure carismatiche del movimento. La strategia repressiva non servì però a soffocare le agitazioni. Venne infatti indetto uno sciopero generale. Così, vedendo la reazione del popolo, il regime si vide costretto a rilasciare alcuni detenuti. Tuttavia, neanche questo valse ad acquietare gli animi della popolazione. A maggio, un gruppo di manifestanti tagliò la corrente elettrica che alimentava l’industria estrattiva paralizzandola. La polizia reagì con un intervento violento che causò la morte di un dimostrante. Da quel momento si aprì una fase di netto scontro fra manifestanti e forze di polizia che non esitarono ad usare le armi provocando la morte di un altro uomo. Nel mese di giugno venne schierato l’esercito, imposto il coprifuoco, e le proteste furono violentemente represse. Seguì un’ondata di arresti che coinvolsero attivisti, leaders e membri delle famiglie dei manifestanti [41].
Nonostante le proteste non riuscirono a varcare i confini della regione e ad estendersi sino alle città costiere, esse ebbero il merito di far emergere l’insostenibilità di un sistema economico clientelare, sperequato e corrotto. Le ragioni per cui i lavoratori e l’intera popolazione dell’area si ribellarono non sarebbero tramontate con la repressione del regime. Queste rivolte rappresentano dunque i primi segnali di una crescente rifiuto ad accettare lo status quo. Non è un caso inoltre che sia le proteste del 2008 che quelle del 2010, avrebbero mosso i primi passi proprio nelle città interne della Tunisia per poi estendersi a quelle costiere. Le riforme liberali portate avanti dal regime, infatti, diedero vita ad un sistema economico totalmente iniquo: esse avvantaggiavano lo sviluppo delle zone costiere, basate essenzialmente sul turismo e una nascente industria, a discapito delle regioni impoverite del sud, le cui economie si basavano su industria mineraria e agricoltura. Inoltre, i guadagni derivanti dallo sfruttamento delle risorse naturali di quest’area non venivano impiegate per favorire lo sviluppo e la modernizzazione di quest’ultima, bensì venivano trasferiti verso le città costiere.
Vi era dunque un ineguale trasferimento di ricchezza che, se da una parte avvantaggiava le città del nord e dell’est del Paese, d’altra parte impoveriva le regioni del centro-ovest e del sud. Fu in queste regioni marginalizzate che i risentimenti e la rabbia nei confronti dell’intero sistema si sarebbero trasformati in atti di ribellione e protesta. All’inizio del 2010, infatti, le classi subalterne, in questo caso gli operatori del settore primario, si resero protagoniste ancora una volta di agitazioni e manifestazioni. Questa volta però l’esito sarebbe stato diverso. Per meglio comprendere l’esplosività della situazione, è indispensabile approfondire un’altra serie di fatti che colpirono la zona creando un sostrato di ulteriori tensioni e malcontenti. Nei primi anni del XXI secolo era stato lanciato un programma di finanziamenti volto a favorire lo sviluppo del settore agricolo nelle aree fertili attorno a Regueb e a spingere specialmente i giovani ad investire nel settore. Il sistema dei finanziamenti era gestito dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura (BNA). Molte famiglie provenienti dalla città di Sidi Bouzid utilizzarono il piano di finanziamenti per avviare le proprie imprese agricole nell’area fertile vicino Regueb. L’ottimismo però dovette lasciare presto il posto a disillusione e rabbia. Sin dall’inizio i richiedenti si ritrovarono intrappolati nell’intricato sistema burocratico di procedure amministrative e misure legali che, «was designed to privilege the business comunity, whose members came from wealthier regions» [42]. Inoltre, in quanto i finanziamenti erano rateizzati e, prima di ricevere la prima quota, si doveva procedere ad acquistare parte dell’attrezzatura necessaria, gli agricoltori si trovarono indebitati prima di ricevere i soldi. A questo inizio svantaggiato, si aggiungevano poi il rincaro dei prezzi del carburante e dei costi di produzione, ma soprattutto un tasso di interesse sui finanziamenti che andava dal 12% al 19% [43]. La banca rifiutò sistematicamente di rivedere i tempi di pagamento e di stringere accordi con i beneficiari, così gli agricoltori si videro costretti a dichiarare la bancarotta.
La “beffa” però non finiva lì. Il sindacalista Slimane Roussi [44], che prese parte alle proteste degli agricoltori a Sidi Bouzid, afferma che, “casualmente”, la banca inviava i bollettini di pagamento agli agricoltori ad indirizzi sempre sbagliati cosicché essi non avrebbero potuto contestarli entro la data di scadenza e sarebbero stati costretti a dichiarare il fallimento. In tal modo, la banca poteva pignorare le terre per poi venderle all’asta ad una somma misera in confronto al loro valore reale. C’era un pensiero, comune a tutti gli agricoltori e ai sindacalisti che avrebbero preso parte alle loro successive proteste, che ciò rientrasse in un piano già predeterminato e orchestrato dalla banca per avvantaggiare i ricchi investitori provenienti dalle regioni costiere. Gli agricoltori sentivano di essere stati derubati della propria terra dalla banca che, con l’aiuto del sistema giudiziario, aveva diretto in modo oscuro la compravendita delle terre. Il sospetto di esser stati imbrogliati e derubati non fece altro che alimentare rabbia e frustrazione che ormai attraversavano i più svariati strati della popolazione di questa regione.
Da giugno 2010 le varie famiglie iniziarono ad occupare le loro terre ma furono totalmente ignorati dalle autorità. Così un gruppo di agricoltori e sindacalisti decise di condurre la protesta nella città di Sidi Bouzid di fronte all’ufficio del governatore regionale. La polizia reagì tentando vanamente di disperdere la folla. Alla fine il governatore accettò d’incontrare una delegazione di agricoltori che chiesero di aprire un’inchiesta su metodi e procedure del sistema giudiziario e della banca, di riavere le terre di loro proprietà e, infine, che la banca riprogrammasse i tempi di pagamento dei prestiti. Prima che qualsiasi risultato potesse essere raggiunto, il governatore venne sostituito e le compravendite delle terre furono giudicate legali. Le proteste di fronte alla sede centrale del governo a Sidi Bouzid continuarono con un sempre maggior numero di partecipanti, dato che i passanti si unirono in segno di solidarietà alla protesta [45].
Le tensioni nella città di Sidi Bouzid potevano esser percepite dunque già nei mesi precedenti all’evento che avrebbe cambiato la storia della Tunisia. Le classi subalterne delle regioni interne erano sempre meno inclini a mantenere le proprie posizioni di passiva accettazione nei confronti dei soprusi perpetrati dal regime. Del resto, la causa della terra non era propria solo delle famiglie che avevano tentato di beneficiare del piano, era piuttosto una causa in cui tutta la popolazione poteva identificarsi. Era proprio la condivisione della medesima condizione di marginalizzati a spingere alla solidarietà i vari attori sociali. Le classi popolari e le organizzazioni sindacali locali che le rappresentavano, avrebbero rappresentato di lì a poco una voce fondamentale nei grandi movimenti di protesta. Nella mobilitazione di massa che ne seguì, entrambi si mossero diversamente da quanto fatto nel 2008. Non si sarebbero accontentati delle vuote concessioni e promesse del presidente, consci dell’incapacità del regime di scardinare e abbandonare quel sistema clientelare e corrotto su cui si era sorretto sino a quel momento. Mentre i sindacati, memori degli errori commessi nel 2008 nella regione mineraria, agirono con decisione sin dalle prime fasi della rivolta.
Se la dirigenza nazionale dell’UGTT fu forzata a partecipare all’intifada, le varie sezioni locali si attivarono immediatamente per sostenere e dare slancio al movimento. Nelle parole di Zayani, «the General Labour Union played an integral part in the contestatory dynamics» [46]. Le varie sezioni sindacali aprirono le loro sedi per consentire ai manifestanti di avere un luogo dove potersi auto-organizzare e quindi indire scioperi, manifestazioni e sit-in. Inoltre il fatto che la capacità di repressione del regime venne diretta innanzitutto verso i sindacalisti, diede nuovo slancio al loro spirito contestatorio e alla loro capacità di mobilitazione delle masse. Le nuovi dimensioni assunte dalla mobilitazione mutarono il rapporto fra la dirigenza, la sezioni locali e la base sociale dell’organizzazione. Il punto di svolta nelle proteste, infatti, si ebbe l’11 gennaio quando l’UGTT indisse per il giorno seguente, il 12, lo sciopero generale nelle regioni di Sfax, Kairouan e Touzeur e un altro sciopero per il 14 gennaio a Tunisi [47]. Nonostante dunque l’ambiguità di fondo che caratterizzò il comportamento del Sindacato sotto il regime di Ben Ali, esso seppe in ultima istanza sostenere i gridi di protesta provenienti dalla propria base sociale; seppe dare nuovo slancio allo spirito contestatorio che sin dalla sua nascita lo aveva caratterizzato e che proveniva da quella stessa base sociale che costituì una voce non secondaria nei moti di protesta destinati a promuovere la fine della dittatura [48].
Questo breve excursus ci consente di comprendere come, nonostante sia innegabile il ruolo di “scintilla che accese la fiamma” svolto dal giovane Mohammed Bouazizi, la rabbia dell’intera società tunisina abbia radici ben più profonde. Le proteste di Gafsa nel 2008 e quelle d’inizio del 2010 ci dimostrano come le grida di aiuto e di protesta della società tunisina siano rimasti inascoltate. Anziché accentuare il carattere imprevedibile delle proteste, sembrerebbe più probabile che ciò che sino al 2011 aveva garantito al regime resilienza e legittimità, ossia il “patto di sicurezza”, sia progressivamente crollato sotto i colpi degli altissimi tassi di disoccupazione e povertà della società tunisina. Il regime di Ben Ali si era sempre posto, grazie anche all’ economia parallela, come principale motore sociale d’impiego, garante della distribuzione di servizi di un illusorio benessere economico. Erano questi i fattori che avrebbero dovuto bilanciare e compensare la mancanza di libertà in ogni campo della vita pubblica e sociale.
Tuttavia, la crisi economica, le crescenti iniquità fra le regioni costiere e quelle interne e del sud, la povertà e la disoccupazione, incrinarono e annullarono il tacito patto per cui la società tunisina aveva barattato la propria libertà con un chimerico benessere economico. Inoltre, le aspettative sociali non sono solo di natura economica. Fra le aspettative sociali, inoltre, il riconoscimento dei diritti di base dell’uomo occupa un posto tanto fondamentale quanto quelle di natura economica. Più si procede negli studi meno si è predisposti ad accettare passivamente una realtà politica e sociale in cui non vi è spazio per alcuna forma di dissenso, critica, analisi e partecipazione. L’istruzione ci porta alla conoscenza del passato e all’immaginazione e costruzione di prospettive future. Lo studio della storia porta al paragone tra il passato e il presente, alla conoscenza dei processi evolutivi di altre società, delle dittature passate e presenti, delle rivoluzioni e del processo, iniziato secoli fa e non ancora concluso, di riconoscimento dei diritti dell’uomo. La conoscenza e l’istruzione rendono gli individui meno inclini alla accettazione passiva e più propensi a diventare attori sociali attivi, protagonisti delle proprie aspirazioni e ambizioni, dei propri bisogni e diritti.
Il popolo tunisino, nato tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, e dunque all’inizio dell’era digitale e nel pieno dell’era della comunicazione di massa, con un livello di istruzione sempre più elevato, non poteva fare eccezione a questa tendenza. Fra le sue aspettative vi era dunque anche e soprattutto l’aspirazione a giocare un ruolo attivo nella vita pubblica, e la creazione di una sfera pubblica libera dalla quale far emergere i propri bisogni e le proprie necessità. Si desiderava una società più democratica, quella società tanto conclamata dal discorso ufficiale ma mai affermatasi, nella quale la “sicurezza” non fosse barattata con la “libertà”.
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
Note
[1] O. Mejri e A. Hagi, La rivolta dei dittatoriati, Mesogea, Messina 2013.
[2] Kenneth J. Perkins, A history of modern Tunisia, Cambridge University Press, Cambridge 2012.
[3] Leila El Houssi, Il risveglio della democrazia. La Tunisia dall’indipendenza alla transizione, Carocci, Roma 2013.
[4] Kenneth J. Perkins, A history of modern Tunisia, Cambridge University Press, Cambridge 2012.
[5] Stefano M. Torelli, La Tunisia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2015.
[6] Ibid.
[7] Kenneth J. Perkins, op. cit.
[8] Leila El Houssi, op. cit.
[9] Stefano M. Torelli, op. cit.
[10] Leila El Houssi, op. cit. .
[11] Stefano M. Torelli, op. cit..
[12] All’esponente del Ligue Tunisienne de Drois de l’Homme (LTDH) Moncef Marzouki venne, infatti, impedi to di candidarsi. Kenneth J. Perkins, op. cit.
[13] Leila El Houssi, op. cit.: 32.
[14] A questo proposito vedere: Mehdi Mabrouk, The youth revolution e Fawaz Traboulsi, Revolutions bring Down Ideas as well, https://www.boell.de/sites/default/files/perspectives_middle_east_issue_2.pdf
[15] M. Zayani, Networked publics and digital contention. The politics of everyday life in Tunisia, Oxford University Press, New York 2015: 42.
[16] Kenneth J. Perkins, op. cit.: 167.
[17] M. Zayani, Networked publics and digital contention. The politics of everyday life in Tunisia, Oxford University Press, New York 2015.
[18] Asef Bayat, A new arab street in Post-islamist times, https://www.boell.de/sites/default/files/perspectives_middle_east_issue_2.pdf
[19] Francesca M. Corrao, Le rivoluzioni Arabe, in Aldo Nicosia (a cura di), La Tunisia dalla rivoluzione alla nuova costituzione, Mondadori Milano 2011: 111.
[20] Ibidem:115.
[21] M. Zayani, op. cit.
[22] Beatrice Hibou, La force de l’obèissance. Économie politique de la rèpression en Tunisie, La Dècouverte, Paris 2006.
[23] Francesca M. Corrao, op. cit. :131.
[24] M. Zayani, op. cit.
[25] A. Bayat, op. cit.
[26] In quell’anno in cui perderà il suo monopolio con la nascita di due nuove organizzazioni sindacali.
[27] O. Mejri e A. Hagi, op. cit. :48.
[28] Con le sue 150 sedi distribuite per tutto il Paese in ogni distretto e con i suoi 680 mila membri, l’UGTT rappresentava l’unica credibile opposizione interna al Paese.
[29] Le rivolte del gennaio 1978 per il rincaro dei prezzi di prima necessità, videro l’uccisione di numerosi manifestanti. Da qui il nome “giovedì nero”.
[30] Venne eletto Ismail Sahbani che, riconfermato come segretario generale nel 1994 e poi nel 1999, adottò una linea politica di sistematico sostegno al regime. https://it.wikipedia.org/wiki/Unione_Generale_Tunisina_del_Lavoro
[31] A. Bayat, op. cit.
[32] L ’UGTT da questo momento in poi mantenne posizioni collaborazioniste e di allineamento al regime che culminarono con l’appoggio alla candidatura di Ben Ali per il suo quarto mandato nel 2004.
[33] Ibid.
[34] N. Weiler, “Tunisia. A Gafsa, culla della rivoluzione, la ricchezza scompare e l’inquinamento resta”, http://osservatorioiraq.it/approfondimenti/tunisia-gafsa-culla-della-rivoluzione-la-ricchezza
[35] La lavorazione dei fosfati è l’unica attività industriale della regione. Si pensi che le quattro città di Redeyef, Oum Elaraies, M’dhilla e Métlaoui erano state create in funzione dell’industria dei fosfati.
[36] Dalla CPG dipendevano scuole, mezzi di trasporto, farmacie, squadre di football e parte del piccolo commercio. A. Allal Rivolte prima della rivoluzione, pre.Testo/ Tunisia n.4, 5 ottobre 2011, http://www.twai.it/upload/pdf/4allal.pdf
[37] La Tunisia è membro del Fondo Monetario Internazionale dal 1958.
[38] Swissinfo, La rivolta soffocata del popolo delle miniere, http://www.swissinfo.ch
[39] Il malcontento venne diretto innanzi tutto contro i dirigenti regionali del sindacato. Varie personalità rivestivano, infatti, un ruolo a cavallo tra l’UGTT e l’RCD: il segretario regionale dell’UGTT di Gafsa era anche deputato dell’RCD. Egli era il principale bersaglio delle accuse volte ad alcuni apparati del sindacato e alle mobilitazioni rispose minacciando i sindacalisti unitisi alle manifestazioni di adottare misure disciplinari nei loro confronti.
[40] Con la ristrutturazione industriale del 1986, la direzione regionale dell’UGTT partecipava alle elezioni dei candidati ai lavori offerti dalla CPG.
[41] Su di loro gravavano accuse come associazione a delinquere, concorso in aggressione contro beni e persone, ribellione. Accuse che prevedevano dagli 8 ai 20 anni di carcere. Alla fine, la corte d’appello di Gafsa del febbraio 2009, per i 33 sotto giudizio, inflisse pene che andavano dai due anni di carcere più condizionale agli 8 anni di carcere.
[42] M. Zayani, op. cit :68.
[43] La media in Tunisia era dell’8%
[44] Slimane Roussi è il rappresentate regionale del sindacato degli agricoltori a Regueb. Vedere: http://observers.france24.com/fr/20100716-agriculteurs-tunisiens-manifestent-conserver-leurs-terres
[45] Ibid.
[46] M. Zayani, op. cit.: 76.
[47] O. Mejri e A.Hagi, op. cit..
[48] N. Ghana, The making of the Tunisian Revolution. Contexts, architects, prospects, Edimburgh University press, Edimburgh 2013, in cap.5 S. Zemni (a cura di), in From socio-economic protest to national revolt: the labor origins of the Tunisian revolution
Lisa Riccio, ha conseguito il titolo di Laurea in Lingue e Comunicazione, con focus sulla lingua inglese e araba, presso l’Università di Cagliari discutendo una tesi sul ruolo dei social network nella rivoluzione tunisina del 2011. Ha vissuto un periodo di quattro mesi in Marocco al fine di conseguire un certificato di lingua araba e attualmente studia e lavora a Londra in vista del completamento dei suoi studi in Relazioni Internazionali del Medio Oriente.
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