di Linda Armano
Gli attuali dibattiti sulla produzione artistica della Street Art e dei graffiti urbani si situano spesso al confine tra ciò che può essere considerata pratica artistica e ciò che invece viene ritenuto vandalismo, con la conseguente violazione del codice legale. Le riflessioni che considerano la Street Art come una pratica artistica, si rivolgono soprattutto alla comprensione del motivo per cui i graffiti sono dove sono e al loro significato sulle superfici delle costruzioni edilizie. Le analisi principali (Dovey, Wollan, Woodcock, 2012) esplorano inoltre le modalità in cui i graffiti vengono ad adattarsi alle caratteristiche urbane, quale valenza simbolica incorporano e quali reazioni determinano sulle persone che vivono nella città. Altri autori (McAuliffe, 2016) si sono invece concentrati sullo studio della negoziazione tra graffiti e contesti sociali complessi che inglobano contemporaneamente la sfera pubblica e quella privata, il piano visibile e quello simbolico, l’arte e la pubblicità.
Leggere la Street Art ha significato, nella maggior parte delle analisi finora condotte, prendere in esame la stretta relazione che questa forma artistica intrattiene con le superfici, con i quartieri ed in generale con la città. Questo percorso di ricerca è stato dunque condotto nell’attraversamento di intere aree urbane con l’obiettivo di indagare gli effetti di senso che la Street Art riesce a produrre. Lo scopo di questo contributo è invece quello di riflettere sulle modalità di costruzione di un branding dello Street Artist e in generale di un branding della creatività artistica attraverso la Street Art.
È possibile affermare che la Street Art, come anche in generale l’arte contemporanea, faccia leva sulla considerazione che la pratica artistica, così come il suo prodotto, funziona come agente attivo che genera riflessioni sociali, sfida atteggiamenti, valori, sistemi politico-economici e crea nuovi comportamenti e idee. Contestualizzando la Street Art dal punto di vista storico-culturale, Sara Banet-Weiser sostiene che la Street Art è frutto di un processo che sfocia all’interno di un sistema comunicativo neoliberale:
«The creative practice of Street Art exemplified the dynamic taking shape in a neoliberal context where social domains are recoded as economic ones. The convergence between art and commerce, between creativity and the market that typify Street Art in the 21st century are not new; […] Street Art has important historical legacies. The historical antecedents to Street Art are as political as they are aesthetic: from Federal Art Project (FAP) murals in the 1930s and 1940s to pop art in the 1950s and 1960s to the emerging graffiti scene in the 1970s and 1980s. […] Street Art calls attention to the corporate-driven legitimation of advertising at the expense of other artistic uses for public space. […] Street Art is increasingly sponsored by corporations; Street Artist have been commissioned to design products ranging from T-shirts to album covers to political campaign posters» (Banet-Weiser, 2012: 98).
Afferma Banet-Weiser che l’esplosione e la visibilità del fenomeno culturale della Street Art, soprattutto dalla fine del XX secolo e l’inizio del XIX secolo, non è tanto il risultato di un utilizzo di uno spazio pubblico divenuto accessibile, quanto piuttosto di un’autorizzazione e di una legittimazione della pratica artistica attraverso l’incremento di una logica normativa del branding ad essa associato (Banet-Weiser, 2012: 99). La Street Art è quindi essa stessa parte di una cultura del brand che prende forma, non solo da una produzione estetica multiforme, ma anche da un’accettazione dello stile comunicativo brandizzato, come quello della pubblicità, che gli Street Artist, esattamente come imprenditori di sé stessi, fanno proprio.
Ideologicamente, nella cultura occidentale, l’arte è collocata su un piano antagonista rispetto a quello commerciale. Walter Benjamin per esempio, in The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction (2005), sostiene che, all’interno del contesto capitalistico, l’aura dell’arte, considerata comunemente un prodotto originale ed autentico (nel senso che è simbolicamente svincolata dalle leggi del mercato), appassisce a causa dello slittamento di quest’ultima da un piano metafisico ad una manipolazione politica ed economica. È fuori dubbio che questa concezione è frutto di un lungo percorso storico che ha portato ad una dicotomia, spesso stereotipata, che ha organizzato ciò che va collocato sul piano razionale (come il profitto) e ciò che va collocato sul piano irrazionale (come per esempio l’arte).
In generale però l’antropologia ha a lungo riflettuto su come ogni categorizzazione umana, ogni prodotto culturale debba essere considerato embedded alla società in cui si sviluppa. Maurice Bloch (1992) ha infatti efficacemente espresso l’idea secondo cui gli esseri umani, i loro valori, le loro norme, i loro comportamenti e i loro prodotti, agiscono e funzionano in quanto immersi in dense reti di significazione che integrano simultaneamente informazioni in una molteplicità di modi. Ma data questa implicazione con dense reti di significato, cosa distingue la Street Art rispetto ad altre pratiche creative?
Afferma Rafael Schacter (2016) che il periodo cruciale della Street Art, sotto il profilo dell’impulso creativo e artistico, va dal 1998 al 2008, con particolare apice di questi due anni. In particolare, l’importanza di questo periodo non sta tanto nella diffusione della Street Art a livello mondiale, quanto piuttosto nell’ondata critica degli artisti verso determinati temi politici, economici e sociali. Nel 1998, per esempio, circa duecento artisti in tutto il mondo iniziarono ad esplorare nuove strategie di comunicazione attraverso le immagini. Originari soprattutto da accademie artistiche, si fusero all’interno di un nuovo movimento stilistico basato su una tecnica visiva applicata che fa uso di stencil, stickers, poster e di bombolette spray.
Il 2008 è invece per Schacter (2016: 105): «The point both at which all that could be produced within Street Art has been produced, the point at which artists began to move away from its confines and into other artistic arenas». Dopo il 2008 la Street Art si diffonde in tutto il mondo, nonostante allenti la sua carica innovativa. In particolare la Tate Modern’s Street Art Exibition, del 2008, rappresenta in qualche modo un confine tra un prima e un dopo. Afferma Schacter infatti:
«The massive global prominence of this event, both in terms of media attention and institutional validation, began to steer the perception of Street Art in a particular and quite singular direction. ‘Street Art’ became known as big, colorful, exterior paintings, as an ‘edgy’ muralism. Moreover, it became something that most commonly (or most visibly) occurred via the framework of Street Art Festivals rather than through independent action, something placing it directly on the road toward recuperation: co-opted by the Creative City discourse by the ‘regenerative’ urban development methodologies […]. Street Art soon came not simply to sell itself, but, more perniciously, to sell a false notion of place. It came to act as branding tool for the Creative City, parasitically utilized to amplify and magnify the process of profit, parasitically utilized to control and contain» (Schacter, 2016: 106).
Una delle più evidenti caratteristiche della Street Art è senza dubbio l’assimilazione spaziale. La pratica artistica, nonostante la sua profonda interazione con gli spazi urbani, procede antagonisticamente con l’architettura circostante, in un costante tentativo di resisterle, di confrontarsi con essa e di lavorare al di là delle forme dettate dagli edifici. Un altro elemento che caratterizza la Street Art è l’iconografia, connotata da una forma comunicativa non testuale, attraverso loghi ed ideogrammi.
Nelle sue riflessioni Schacter aggiunge altri due caratteri demarcanti che, assieme alla peculiarità iconografica, concorrono al consolidamento, al riconoscimento (anche legale, al fine di togliere ogni ambigua posizione di confine tra arte e vandalismo) e alla diffusione della Street Art:
«These newly designed images were still conscientiously Non-Instrumental […]. Like Graffiti, what was key was their works’ ability to sell nothing but themselves. Yet the newly formed figuration of Street Art meant they were able to do this while simultaneously hijacking the intoxicating power of corporate trademarks. Transforming the uncompromising, domineering visuality of both the State and the Market (‘do this’/’buy that’) into something that was literally unprofitable, Street Artists were able to take the Graffiti conception of inalienability, of production for productions sake, and yet transform it to the viewership of a wider public. The illustrative turn thus radically transformed the reach of Street Art but kept hold of the implicitly aneconomic position of Graffiti. It remained beholden to Graffiti’s intrinsic purity, its total refusal to be subject to the market, yet now contained a bifold power: The power (yet not the perceived danger or dishonour) of both a Corporate and Graffiti aesthetic […]. For Street Art then, perceived need came before authorization, perceived necessity before permission. To truly commit to the city, to commit and to place one’s commitment beyond doubt, Institutional Autonomy was a basic procedural necessity. This position, one could argue however, had more to do with fidelity than legality per se: Street Art did not need to be illegal. It was not about breaking laws, more about enacting them […]. Thou shall communicate with the city as a whole. Thou shall engage with one’s environment. What was essential was this sovereign spirit in which action was a moral obligation not a strategic act. What was crucial was this methodology in which the city was not a means to an end but an end in itself. In which the city was not a mere route to a gallery career but rather a space for communication, experience, experimentation » (Schacter, 2016: 107).
Tutti questi elementi hanno infine concorso alla definizione più evidente della cifra identificativa della Street Art, ossia la sua forza comunicativa. Gli Street Artist iniziano così a produrre immagini che devono essere non solamente viste, ma anche comprese; cominciano in questo modo ad offrire al pubblico proposte e non a produrre persuasioni. Gli Street Artist concepiscono le loro pratiche artistiche socialmente “dense” di significato e identificano sé stessi come portatori di riflessioni sulla realtà contemporanea. Questo modo di operare consente loro di raggiungere un pubblico eterogeneo e non solo un’audience sensibile o specializzata nell’ambito dell’arte. Ciò favorisce quindi una stretta relazione tra osservatori e immagine, in grado di produrre un frizzante flusso comunicativo, una comunanza di dialogo e di riflessioni su determinati argomenti – che non possono più essere negati – tra Street Artist ed il potenziale pubblico.
Il brand della Street Art. Lo Street Artist come imprenditore individuale
Nella primavera del 2010, debutta al Sundance Film Festival un film sulla Street Art. Annunciato con grande clamore, è diretto dall’allora famigerato Street Artist Bansky. Exit through the Gift Shop, che più che essere un film è un documentario, viene costruito sul materiale raccolto da Thierry Guetta, un uomo di origine francese residente a Los Angeles, ossessionato dalla costante volontà di filmare la vita quotidiana. Inizialmente il film doveva essere diretto da Guetta ma, a causa della sua incapacità di assemblare il materiale raccolto, la direzione del film passò a Bansky. Si decise quindi di capovolgere i ruoli. Guetta diventò così lo Street Artist, non tanto per il suo talento artistico, quanto piuttosto per le sue fitte relazioni con altri artisti di strada. Nel film Guetta decide di chiamarsi Mr. Brainwash e nel giro di poche settimane crea, non solo un self-brand di successo, ma anche un open show a Los Angeles intitolato Life is Beautiful, in cui i suoi lavori vengono venduti per migliaia di dollari.
Attraverso la figura di Guetta, la narrazione del film viene effettuata dal soggetto incappucciato e dalla voce distorta di Bansky. La voce narrante definisce la Street Art:
«A hybrid form of graffiti, driven by a new generation, using stickers, stencil posters and sculptures to make their mark by any means necessary. Street Art was poised to become the biggest countercultural movement since punk» (Banky, 2010).
Nel film Bansky critica anche il modo di produrre branding sulla Street Art. I suoi commenti indirizzano l’attenzione dello spettatore verso una riflessione sul preoccupato, e spesso anche inevitabile, intreccio tra arte e commercio, tra branding e rappresentazione culturale di autenticità. Il film convalida, e contemporaneamente canzona, il legame intrinseco tra Street Art e mercato notificato con la scelta di Guetta di aprire un open-show a Los Angeles in cui presentare non tanto il suo talento artistico, quanto la sua abilità a promuovere un’insaziabile domanda di mercato. Bansky, alla fine del film, commenta il ruolo di Guetta dicendo: «Maybe the joke’s on us. Maybe there is no fucking joke» (Banky, 2010).
Un articolo del New York Times del 2010 sottolinea come il film:
«Certainly ask real question: about the value of authenticity, financially and aesthetically; about what means to be a superstar in a subculture built on shunning the mainstream; about how sensibly that culture judges, and monetizes, talent. Asked whether a film that takes shot at the commercialization of Street Art would devalue his own work, Banky wrote: “It seemed fitting that a film questioning the art world was paid for with proceed directly from the art world. Maybe it should have been called “Don’t Bite the Hand That Feed You”». (Ryzik, 2010).
Anche se Banksy critica questo modo di produrre arte all’interno della politica economica, il film stesso può essere considerato facente parte di una logica di brand che ingloba anche la Street Art. E il branding della Street Art, all’interno del film, non si produce certamente per la sua critica al profondo intreccio tra arte e commercio, ma in quanto esso stesso si muove inevitabilmente all’interno del brand e della commercializzazione. Al tal proposito afferma infatti Sarah Banet-Weiser che:
«Critique and commentary on branding in advanced capitalism do not lessen the value of the brand but rather expand it as something that is ambivalent, a recognizable part of culture, indeed, a recognizable part of our self» (Banet-Weiser, 2012: 93).
Sarah Banet-Weiser aggiunge inoltre:
«Bansky’s satirical and subversive Street Art has been displayed all over the world, recognizable for its stencil style and political commentary. His work critiques a wide range of contemporary global issues, from homophobia, represented in images of, for example, tow London policemen kissing each other and an image of Queen Victoria having oral sex with another woman; to war and violence, imagined in a variety of ways, from stencil of young girls hugging bombs on concrete walls to soldiers painted with bright yellow happy faces to images of police and soldiers painted peace signs and anarchy symbols» (Banet-Weiser, 2012: 93).
Sottolinea satiricamente Banky nel suo libro Wall and Piece: «I like to think I have the guts to stand up anonymously in a western democracy and call for things no one else believes in – like peace and justice and freedom» (Bansky, 2005: 31). È innegabile però che affermazioni di questo genere (che scatenano non poche critiche anche da parte di numerosi artisti), non possono che essere considerate come parte di un più ampio progetto manageriale di self branding. Exit through the Gift Shop può essere quindi interpretato all’incrocio tra mercato dell’arte, imprenditoria individuale e lo spazio pubblico della strada, percepita quest’ultima dagli Street Artist come una grande tela su cui dipingere. A sua volta, tale modo di produrre l’arte può essere, in generale, contestualizzata all’interno di ciò che Nicolaus Bourriaud definisce come Postproduction:
«Dall’inizio degli anni Ottanta, le opere d’arte sono create sulla base di opere già esistenti; sempre più artisti interpretano, riproducono, espongono nuovamente e utilizzano opere realizzate da altri oppure altri prodotti culturali. L’arte della postproduzione sembra rispondere al caos proliferante della cultura globale nell’età dell’informazione, che è caratterizzata dall’incremento di forme ignorate e disprezzate fino ad ora e dalla loro annessione al mondo dell’arte. Inserendo nella propria opera quella degli altri, gli artisti contribuiscono allo sradicamento della tradizionale distinzione tra produzione e consumo, creazione e copia, ready made e opera originale» (Bourriaud, 2004: 7).
Dagli anni Ottanta del Novecento, si viene a creare quindi una nuova sensibilità collettiva entro la quale nuove forme d’arte si possono ascrivere. Non si tratta più quindi di elaborare una forma sulla base di materiale grezzo, ma di lavorare con oggetti che sono già in circolazione sul mercato culturale, vale a dire oggetti già informati da altri oggetti. I concetti di originalità, spiega Bourriaud, ossia concetti che si riferiscono al fatto di essere all’origine di, e di creazione, ossia di realizzazione dal nulla: «svaniscono lentamente nel nuovo panorama culturale segnato dalle figure gemelle del deejay e del programmatore, entrambe con il compito di selezionare oggetti culturali e includerli in nuovi contesti» (Bourriaud, 2004: 7).
Anche la Street Art può essere quindi intesa come un insieme di pratiche artistiche eterogenee che condividono il fatto di ricorrere a forme già prodotte dimostrando così la volontà di inscrivere l’opera d’arte all’interno di una rete di segni e di significati, invece che considerarla una forma autonoma o originale. Non si tratta più di fare tabula rasa, di creare a partire da una materia vergine, ma di trovare il modo di inserirsi negli innumerevoli flussi di produzione. La questione artistica pertanto non si pone più nei termini di un “Che fare di nuovo?”, ma piuttosto di “Cosa fare con quello che abbiamo già?”. Insomma, come possiamo fare per produrre singolarità e significato a cominciare dalla massa caotica di oggetti che ci circondano?
In generale oggi gli artisti programmano le forme più che comporle. Invece di trasfigurare un elemento crudo (la tela bianca, l’argilla ecc.), ricombinano forme già disponibili utilizzandone le informazioni. Essendo immersi in un universo di prodotti in vendita, di forme pre-esistenti, di segnali già emessi, di edifici già costruiti, d’itinerari già battuti dai predecessori, gli artisti non considerano più il campo artistico come un museo che contiene opere da citare o da sorpassare, come richiedeva l’ideologia modernista del nuovo, ma considerano l’arte come un insieme di magazzini riempiti di utensili da usare, stoccaggi di informazioni da manipolare per essere poi rimessi in scena. Afferma Bourriaud:
«Bisogna apprendere tutti i codici culturali, tutte le forme della vita quotidiana, le opere del patrimonio universale, e cercare di farle funzionare. Imparare a servirsi delle forme, così come ci invitano a fare gli artisti, significa innanzitutto sapere come abitarle e farle proprie» (Bourriaud, 2004: 14).
Nulla di meglio quindi che la celebre frase di Ludwig Wittgenstein può riassumere l’attuale atteggiamento artistico: «Non cercare il significato, cercane l’uso».
Dalla fine degli anni Novanta ad oggi, è andata ad incrementarsi, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, una sempre maggiore privatizzazione ed una conduzione aziendale all’interno del mondo dell’arte e in generale della cultura. I Governi hanno appoggiato sempre più una pianificazione delle grandi città, sviluppando anche una nuova riflessione su come rendere da un lato le città maggiormente creative dal punto di vista estetico e dall’altro attrarre professionisti capaci di convertire le periferie urbane in aree socialmente riqualificate, al fine di stimolare anche l’industria turistica. Tale spinta si sviluppò ulteriormente, alla fine del secolo scorso, grazie anche alla rapida ascesa dei social media e delle tecnologie digitali che consentirono una maggiore visibilità e incremento della curiosità, anche internazionale, delle persone nell’andare a visitare le periferie riqualificate.
Prima di arrivare a questo progressivo interesse di riqualificazione urbana tramite la Street Art e i graffiti, Miriam Greenberg (2008) sottolinea, a proposito della massiva diffusione del fenomeno dei graffiti a New York tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, un’ancora presente differenza tra questi ultimi ed il mondo del commercio e del brand; Greenberg afferma che in quel periodo i writers svolgevano la loro attività illegalmente, dato il divieto di imbrattare i muri pubblici, e per tali ragioni era loro interesse mantenere l’anonimato (Greenberg, 2008: 64). La criminalizzazione dei graffiti era inoltre sostenuta dalle politiche dell’epoca, tanto da sostenere un vero e proprio graffiti problem (Banet-Weiser, 2012: 103). Tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, per esempio Rudi Giuliani, sindaco di New York dal 1994 al 2001, definì la questione dei graffiti un problema fuori controllo che riguardava la giovane popolazione soprattutto nera, i cui membri venivano accusati di non avere rispetto dell’ambiente in cui vivevano. Giuliani appoggiò quindi una politica basata sulla teoria del brocken windows ((Banet-Weiser, 2012: 104) al fine di convalidare una serie di normative che criminalizzassero i cosiddetti graffiti artists.
All’inizio del XIX secolo, grazie all’emergere di una partnership tra sfera pubblica e privata, si cominciò ad intravvedere una potenzialità commerciale capace di scoraggiare, da un lato, l’alone negativo determinato dall’applicazione della teoria del brocken windows e, dall’altro, di concretizzare invece una teorizzazione, ambivalentemente positiva, di un creativo disturbo della quiete pubblica. Insomma la Street Art da questo momento in poi, iniziò a flirtare con una particolare rappresentazione culturale di illegalità. Bansky stesso non sarebbe diventato un sovversivo se la sua arte non fosse stata circondata da una simbolica aurea di illegalità; ma allo stesso tempo, Bansky non avrebbe avuto il successo che ha se non avesse costruito un distintivo stile creativo e comunicativo culturalmente e socialmente sostenuto. Afferma infatti Joe Austin che il successo di Bansky, come quello di altri Street Artist, è tale in quanto inserito in una cultura commerciale e soprattutto in una logica e in una strategia di marketing socialmente naturalizzate nella cultura occidentale, che danno forma alla personale identità degli artisti.
Il problema dei graffiti divenne quindi, anche dietro l’impulso dato da molti marketers di importanti aziende private, il veicolo privilegiato per incentivare una creatività urbana e, in associazione ad essa, per creare una tecnica di regolamentazione sociale attraverso una pratica creativa applicata.
Oggi il prodotto estetico della Street Art è spesso utilizzato nelle immagini di marketing delle città. Secondo Banet-Wiser la Street Art viene mobilizzata, assieme all’hip hop e ad altri generi di musica popolare, come strumento attrattivo rivolto a target specifici appartenenti soprattutto alla classe media, ad un’audience dei sobborghi delle città, come anche alla classe operaia. Inoltre l’impulso dato dal settore privato si è indirizzato anche verso una nuova rappresentazione culturale delle classi sociali comunemente più svantaggiate, come la popolazione nera delle metropoli, connotate anch’esse da una paradossale aurea di positiva illegalità (o meglio ancora da un’aurea di negativa positività) le quali funzionano in quanto perfettamente brandizzabili.
In questo modo, Street Art, graffiti e comunicazione pubblicitaria stanno tra di loro in una sorta di equilibrio competitivo in cui seguono una stessa logica che seleziona elementi che possono essere brandizzati, e quindi sostenuti socialmente, e fenomeni che invece vanno scartati in quanto culturalmente non ritenuti brandizzabili. Come afferma Greenberg, tra le priorità di brandizzare città come New York vi è la creazione di una nuova significazione dei luoghi:
«Shift from the provision of tangible use-value to the projection of intangible exchange-values, and the city itself is increasingly transformed from a real place of value and meaning to residents and workers to an abstract space for capital investment and profit-making, and a commodity for broader consumption» (Greenberg, 2008: 36).
In questo contesto quindi, lo sforzo artistico di Street Artist come Bansky o Shepard Fairey, può essere compreso all’interno di una logica che si configura come una sorta di propaggine della cultura del brand e del marketing. Le loro abilità nel creare una critica culturale verso il brand e verso la logica del profitto, attraverso una pratica artistica dinamica che si propaga lungo un continuo percorso di libertà creativa rivolto ad una potenziale e variegata audience, non va per forza concepita come una sorta di attivismo anticapitalistico. La loro pratica artistica va piuttosto pensata come una sorta di brand di creativa ribellione, volutamente costruita attraverso una proficua ambivalenza al confine tra legalità e illegalità, che a sua volta viene strategicamente nutrita dalla logica del profitto e accettata socialmente. La stessa figura degli Street Artist viene dispiegata e spiegata all’interno di questa logica. Il personaggio di Bansky, per esempio, è costruito su una sapiente strategia che lo presenta riconoscibile socialmente grazie alla sua irriconoscibilità. Questo strategico gioco di ambivalenze è particolarmente redditizio all’interno dell’attuale economia neoliberale. Attraverso un macht di continue critiche e riflessioni verso grandi temi economici e sociali, la figura di Bansky e il suo lavoro artistico, vengono culturalmente percepiti come prodotti autentici in antitesi alla violenta e onnipresente inautenticità della logica capitalistica. Si può dire che gli Street Artist modellano e inseriscono nel loro lavoro una determinata percezione del sistema di potere e il loro successo avviene grazie al riconoscimento sociale dei limiti della logica di branding, la quale gioca il fondamentale ruolo, nella Street Art, di elemento contestato proprio del mondo occidentale contemporaneo.
In questa sorta di realtà metafisica, gli Street Artist si ritagliano uno spazio in cui far crescere la loro ambizione di imprenditorialità artistica. Il brand personale degli Street Artist è costruito attraverso la loro arte, attraverso loghi personali, social media e siti web, i quali rappresentano vie per entrare a fare parte di circuiti di scambi non solo culturali, ma anche economici. Pensare agli Street Artist come a degli imprenditori spinge a riflettere più in profondità a come e in quale misura, si configura la relazione tra mercato e creazioni artistiche individuali. Chiarisce definitivamente Banet-Weiser: